Dopo la pandemia del Covid-19 nulla sarebbe stato come prima, ci è stato detto a lungo dai media e dai governanti del pianeta. Ed è sembrato un po’ così per le prime settimane dell’emergenza sanitaria. Si pensi solo al mercato dell’energia, al tracollo del prezzo del petrolio che ha disintegrato in due mesi i profitti delle oil majors e generato panico e incertezza sistemica.
Ma poi, ridimensionata temporaneamente la crisi sanitaria, sono entrate in
campo le banche centrali, le misure urgenti della ripresa da parte dei governi
e le richieste di aiuto faraonico dalle imprese.
“Ricostruiamo, ma meglio, più verdi, più giusti”, si è chiesto da più
parti. Sei mesi dopo l’inizio del
lockdown globale, i numeri e le scelte dei vari esecutivi purtroppo ci dicono
ben altro.
Gli analisti dell’IHS Crude Oil Market Service qualche
giorno fa hanno annunciato che la domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei
livelli pre-Covid ed è attesa al 95 a inizio 2021. “Siamo quasi
normali”, secondo gli esperti del think tank; all’appello mancano solo
l’aviazione e alcuni trasporti. Inevitabile,
con il virus che ancora circola per il mondo.
Allo stesso tempo la mole finanziaria di aiuti per le società fossili ed
energetiche messa in campo da governi e banche centrali è spaventosa.
Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea
ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni
inclusa.
In Italia, oltre al caso più noto di FCA, la lista di multinazionali che in
questi mesi hanno beneficiato di aiuti pubblici è lunga, e comprende colossi
come Fincantieri, che ha appena ricevuto un prestito da 1,15 miliardi tramite
Garanzia Italia, e Maire Tecnimont, società specializzata nell’oil&gas, a
cui sono andati 365 milioni.
La lista è destinata ad allungarsi, viste le mire delle lobby europee del
gas sui nuovi soldi del tanto ambito “Recovery Fund”, in nome del mantra delle
nuove infrastrutture che faranno ripartire il Bel Paese.
Insomma, sussidi di stato ai soliti noti, in nome
della ripresa e lo sviluppo, ben poco di nuovo nella narrazione delle élite.
Ma non si tratta solo di soldi. Il Decreto “Semplificazioni”, in in questi giorni in dirittura di arrivo
con la sua conversione in legge in Parlamento, prevede addolcimenti dei vincoli
di legge a man bassa per le grandi imprese fossili ed energetiche.
Nei mille cavilli del decreto del governo per la ripresa post-Covid si
trovano permessi più semplici per
le conversioni degli impianti da carbone a gas (leggi Enel,
A2A), esenzione da bonifiche
attese da decenni con auto-certificazioni all’acqua di rosa, ricorsi amministrativi
più difficili e velocizzati in caso di gasdotti e nuove mega opere (leggi Snam
e TAP) e tanto altro ancora.
Per ripartire tocca fare presto e fidarsi che i campioni italiani delle
grandi opere fanno tutto solo per noi cittadini, non per i loro interessi.
Certo, lo sappiamo bene dalla Tav Torino-Lione in poi. Anche qui nessuna
novità, ahimé.
A livello europeo, la dinamica sembra meno tradizionale di quella italiana.
Ma anche lì l’azione delle lobby non è da meno.
Ad esempio, in questi giorni si sta chiudendo il pacchetto sui fondi per la transizione giusta, e si moltiplicano le
voci per rendere eleggibili i progetti a gas, e quindi fossili, che
ritarderebbero di decenni una vera decarbonizzazione.
In effetti, come si legge in un recente studio dell’Università
di Oxford che ha analizzato 3mila utilities a livello mondiale,
si capisce come tre quarti non
hanno investito in rinnovabili e delle rimanenti almeno la metà ha investito
tanto anche in nuovi impianti a gas. Altro che sviolinate
giornaliere sulla sostenibilità ed i cambiamenti climatici!
(Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common)
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