Due anni or sono l’Organizzazione
internazionale del lavoro (ILO) e la Fondazione europea per il miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) pubblicarono il rapporto Working anytime,
anywhere: the effects on the world of the work (“Lavorare in ogni
momento e in ogni luogo così come offre – impone – il mercato”). È la
fotografia di una nuova forma di nomadismo necessario per vivere lavorando
nelle reti “corte” del territorio, nelle reti “lunghe” transnazionali e nelle
piattaforme digitali. Una delle forme di nomadismo è data dall’impiego delle
“braccia” nei lavori in agricoltura, nell’edilizia, nella logistica, nelle
imprese di pulizia e nei servizi di ristorazione. Ciascuna di queste attività
ha una sua composizione sociale e, almeno in parte, etnica, espressione di
storie di gruppi di migranti, soprattutto maschi ma anche donne. Parlare di
lavoro oggi impone di aprire una finestra su questo arcipelago raccogliendo
dati, mettendo sotto osservazione gli aspetti centrali della condizione dei
lavoratori, soprattutto migranti, usati per le loro braccia (il reclutamento,
la paga, la sicurezza e l’igiene, il cibo e il tetto), analizzando la
dimensione transnazionale dei lavori e del nomadismo nel Mediterraneo e in
Europa. È quanto abbiamo deciso di fare, in questa complessa estate, come
“Volere la luna”. Le prime due tappe di questo percorso hanno riguardato la
raccolta di frutta nel saluzzese (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2020/08/05/braccia-1-raccogliere-la-frutta-nel-saluzzese/) e le condizioni
dei lavoratori migranti in Bassa Valle Scrivia (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2020/08/12/braccia-2-lavoro-e-sfruttamento-in-bassa-valle-scrivia/). Con la terza ci
trasferiamo in Catalogna, nella zona di Lleida, dove gli atteggiamenti razzisti
nei confronti dei lavoratori stagionali provenienti dall’Africa (anche se
residenti in Spagna da molti anni) si sono acuiti nel periodo della pandemia.
1.
«Il governo sa in quali condizioni
lavoriamo, gli uomini d’affari sanno che non rispettano la legge, la gente sa
come viviamo». Questa è la frase che, con parole diverse, viene ripetuta dai
dieci lavoratori di origine migrante intervistati a Lleida, in Catalogna.
Sanno che lo sappiamo. Ecco perché c’è
un certo fastidio quando si tratta di rispondere ai giornalisti, spiegando
ancora una volta di cosa si tratta. È normale che i datori di lavoro non sempre
rispettino i contratti del settore agricolo, che prevedono una retribuzione di
6,20 euro l’ora, ma a volte sono 5.80, altre volte 5.40, altre 5… Sanno che
sappiamo che lavorano a cottimo, con temperature che sfiorano o superano i 40
gradi, per 10, 11 o più ore, e che è un lavoro disumano. Sanno che sappiamo che
l’attività agroalimentare in questo paese si basa sulla precarietà, quando non
sullo sfruttamento dei suoi lavoratori; mentre sottolineano che non tutti gli
imprenditori sono sfruttatori («molti di loro sono anche lavoratori») e che il
cuore della questione sta nelle grandi catene di distribuzione che prendono la
maggior parte delle entrate di un’industria multimiliardaria.
Quello che credono non sappiamo ‒ e su
cui si impegnano con maggiore zelo ‒ è che la cosa più pesante non è il
susseguirsi degli abusi, ma l’indifferenza strutturale quotidiana,
onnipresente, verso i loro corpi per il fatto di essere neri. «La schiavitù è
stata abolita sulla carta, ma le menti sono ancora controllate dal razzismo»,
afferma il gambiano Johnny, 39 anni, contadino e operaio edile, seduto a un
tavolo nel centro sportivo Torres de Segre, trasferito qui venerdì 17 luglio
assieme a una quindicina di lavoratori migranti una volta finito il lavoro
giornaliero nella fattoria. I primi lavoratori avevano già iniziato ad
ammalarsi una settimana prima. «Venerdì 10 luglio faceva molto caldo. Noi
stavamo raccogliendo la frutta e abbiamo finito l’acqua che ognuno di noi si era
portato. Il proprietario non ce ne ha più portata. Nella notte alcuni hanno
cominciato ad avere mal di testa e il giorno dopo non hanno potuto andare a
lavorare», spiega Amadou (nome fittizio per salvaguardare la privacy), seduto
al centro del campo di calcio ora trasformato in ospedale da campo.
Le tribune vuote circondano i letti
d’ospedale disposti a più di due metri di distanza l’uno dall’altro.
«Nonostante questo, noi abbiamo continuato a vivere in quel luogo disastroso.
Se avessi degli animali, non li terrei in quelle condizioni: sei per camera,
condividendo piatti, forchette, docce, mentre ogni giorno più compagni si
ammalano. Se fossero stati davvero preoccupati per la nostra salute, non ci
avrebbero lasciato una settimana in quelle condizioni», dice sotto l’occhio
vigile di due giovani volontari della ONG Proactiva Open Arms, incaricata di
gestire questa operazione di emergenza avviata a metà luglio per curare i
lavoratori stagionali contagiati da Coronavirus, sebbene asintomatici o con
sintomi lievi, nella regione di Segrià. «Giovedì ci hanno detto di non andare a
lavorare, che ci avrebbero testati per controllare il contagio da Covid-19».
Alcuni sono risultati positivi e quando gli hanno detto che stavano per essere
trasferiti nel recinto del campo sportivo, inizialmente si sono opposti. «Ciò
che ci ha ferito era la modalità: sono arrivati i poliziotti e noi non sapevamo
dove ci avrebbero portato in quel modo e perché», dice Amadou, ancora
amareggiato considerando che se fossero lavoratori bianchi infettati dal
Covid-19 e asintomatici, come nel nostro caso, non sarebbero mai stati
trasferiti con un’operazione di polizia in un luogo pubblico.
Johnny ricorda che quando sono arrivati
quella notte al palazzetto dello sport vuoto e quando i volontari di Proactiva
Open Arms hanno detto loro il nome della loro ONG, si è rilassato. «Avevo visto
in TV come salvano le persone che lasciano la Libia. Fa molto male vedere
quelle immagini, o quelle del recinto di Melilla. Invece di fermare le guerre,
l’Europa cerca di fermare le persone che fuggono da loro. E per la cronaca, non
siamo venuti a causa di conflitti o fame, ma perché vogliamo migliorare la
nostra vita e quella delle nostre famiglie. Lavoro da 17 anni in Spagna pagando
tasse e contributi e non ho diritto a nulla. E questo, perdonatemi se lo dico
così, perché l’Europa ha distrutto l’Africa», afferma sedendosi insieme ad
altri lavoratori, mentre alcuni altri giocano a carte o chattano sui cellulari,
ammazzando così i brutti giorni di quarantena.
2.
Rispetto a quanto accadeva dieci o
quindici anni fa quando intervistavamo i lavoratori migranti, ora le risposte
non si concentrano tanto sullo sfruttamento del lavoro quanto sul razzismo
strutturale. È logico. Molte di queste persone risiedono da dieci, quindici o
venti anni in Spagna, una parte significativa ha i documenti in regola e,
nonostante questo, invece di sentirsi parte della nostra società e di
intravvedere un orizzonte di miglioramento, si trovano sempre più di fronte a
precarietà e ostilità.
Molti degli operai intervistati sia
nell’ospedale da campo di Torres de Segre che nelle strade di Lleida, non
venivano da anni a fare la campagna della raccolta della frutta che ogni anno
mobilita più di 35.000 lavoratori stagionali in questa regione, che è considerata
una delle più dure. Ma prima dell’interruzione delle attività causata dal
Covid-19, a seguito dell’appello dell’associazione dei datori di lavoro
ortofrutticoli di Segrià che chiedeva ai lavoratori di venire a raccogliere la
frutta, avevano deciso di venire di nuovo dove si erano ripromessi di non
tornare. Sono i più abituati all’asprezza del sole che picchia sulla loro
schiena, a piegarla per far arrivare le scatole di frutta, il cibo, in gran
parte del territorio spagnolo. Anno dopo anno, vanno da Huelva ad Almería, da
lì a Valencia, Aragona, Francia…
«Sono venuto da Almería e non avevo
paura di prendere l’infezione perché ci sono molte altre malattie. La peggiore,
la corruzione, che è una delle ragioni per cui dobbiamo lasciare i nostri
paesi. Ma uccide anche qui, perché ci sono molti spagnoli che soffrono per la
povertà», spiega Johnny, che come gli altri migranti non vuole essere
fotografato per paura che la sua famiglia lo possa vedere e si preoccupi della
sua salute. La maggior parte di loro non informa i familiari delle condizioni
in cui deve vivere né, in questo caso specifico, come viene rinchiuso per aver
contratto l’infezione. Johnny, che è in Spagna da 20 anni, alterna altri lavori
con quello nei campi. «Ho lavorato, ad esempio, in Plaza de Castilla, a Madrid:
sei piani sotto terra e nell’ultimo eravamo sempre noi neri a estrarre la
terra. Sette ore senza fermarsi e senza mangiare. Per poter mangiare dovevi
nascondere qualcosa in tasca evitando così di perderti d’animo. Anche un asino
deve essere lasciato riposare per alcuni minuti ogni tanto. Credono che siamo
schiavi. Non lo siamo, ma viviamo così perché non abbiamo alternative».
Nonostante sia coperta da una tuta
protettiva con la maschera e lo schermo protettivo (DPI), si nota che Sara Navarro,
studentessa universitaria di 20 anni di istruzione primaria e volontaria per la
prima volta in una ONG, si commuove ascoltando le storie degli uomini che sta
accompagnando da dieci giorni. «Vengo da Lleida, sono cresciuta sapendo cosa
stava succedendo. Ma non è lo stesso apprenderlo ascoltando direttamente dal
racconto delle persone che stai conoscendo. Condividere con loro così tanto
tempo mi ha cambiato radicalmente. Non posso rivivere con questa realtà come ho
fatto fino ad ora». Sara indica così una delle chiavi per comprendere la
complessità di questi contesti: puoi vivere una vita circondato da situazioni
di ingiustizia senza condividere una sola conversazione o spazio di convivenza
con le loro vittime, i tuoi vicini.
3.
Joan ha 43 anni e, dopo quasi vent’anni
in Spagna, sette mesi fa ha portato suo figlio dalla Guinea Bissau. Il giovane
ascolta attentamente suo padre, ma non partecipa alla conversazione. «Ci
svegliamo alle 5 del mattino e lavoriamo fino alle 13. Ci fermiamo a mangiare e
torniamo in campo fino alle 7 del pomeriggio. Viviamo sei persone in una
stanza, per la quale paghiamo al capo 100 euro del nostro salario. Solo così il
proprietario dell’azienda ottiene dai braccianti più di 4.000 euro». Le storie
che stiamo ascoltando potrebbero benissimo apparire in Furore, il
romanzo in cui John Steinbeck ha descritto le difficoltà delle famiglie
contadine che, costrette dall’industrializzazione e dalla crisi del 1929, si
trasferirono in California per lavorare nel grandi aziende agricole. Le denunce
fatte da Johnny, Joan, Amadou e molti degli altri migranti con i quali abbiamo
parlato a Lleida, avrebbero potuto benissimo essere ascoltati nelle assemblee
del movimento per i diritti civili degli afroamericani negli anni ’60 del
ventesimo secolo. Il movimento antirazzista è cresciuto in Spagna da anni e le
sue voci non si ascoltano più solo nelle assemblee delle città: sono ora
presenti anche nei campi dove si raccoglie la frutta e la verdura che hanno
permesso la nostra sopravvivenza durante i mesi di lockdown.
«In questi vent’anni di lavoro nei
campi, non ho mai visto un ispettore» ‒ spiega Joan ‒. «Ma sono stato avvertito
molte volte dai capi che sarebbero venuti e che, se me lo avessero chiesto,
avrei dovuto rispondere che lavoravo 8 ore», precisando durante l’incontro che
loro, i migranti, non sono venuti in Europa per rovinare la vita a nessuno.
«Dal Governo dicono di denunciare, ma loro non ci danno lavoro; ce lo danno gli
imprenditori e se la denuncia la facciamo noi, resti poi segnalato e non
verranno più da te per fare il contratto di lavoro. È successo ai nostri
colleghi».
Al suo fianco, Johnny sostiene di non
voler pensare troppo: «Quando noto il razzismo nel modo in cui mi ignorano
quando entro in un bar, quando mi chiamano “nero” per strada, quando la polizia
mi chiede ancora e ancora i miei documenti per strada, quando sento come il
capo mi considera un essere inferiore… vedo i volti di mio padre e di mia
madre, perché è tutto così perché sono nero e loro, i miei genitori sono neri.
Così evito di pensarci per non stare male».
Tutti vogliono tornare nei loro paesi,
ma «con qualcosa». Quel “qualcosa”, come spiega Joan, sono i risparmi per poter
costruire una casa o riprendere la coltivazione del pezzo di terra dei propri
genitori. «Ma come facciamo a risparmiare se quando ci ammaliamo non veniamo
pagati? Se non ne abbiamo il diritto alla disoccupazione? Quando María Teresa
Fernández de la Vega venne in Gambia come vicepresidente (del Consiglio dei
ministri spagnolo, ndr), disse che avrebbe inviato macchinari e gru
per poter migliorare la nostra agricoltura. Ma perché, se poi non ci permettono
di esportare?».
Venerdì 31 agosto, Johnny, Joan, Amadou
e il resto dei lavoratori confinati nel centro sportivo Torres de Segre
riacquisteranno la libertà di movimento dopo aver completato le due settimane
di quarantena ed essere risultati negativi al Covid-19. Alcuni di loro
rientreranno nei luoghi di residenza abituale e altri nella campagna agricola
di Segrià. «Non dimenticherò mai come la gente di Open Arms mi ha trattato. Non
mi sono mai sentito trattato così bene dagli spagnoli», ripete Joan entusiasta.
Probabilmente perché non aveva mai avuto l’opportunità di condividere spazio e
tempo con gli altri. La stessa cosa che è successa alla giovane volontaria di
Lleida, Sara Navarro.
4.
A Lleida attivisti di gruppi come
“Frutta con Giustizia Sociale” gridano da anni nel deserto contro abusi e
maltrattamenti ricevuti dai lavoratori stagionali migranti. Sono riusciti a
malapena ad attirare l’interesse di parte dei media. Così come accade a una
parte dei lavoratori a giornata, il massiccio arrivo di giornalisti a causa dei
focolai di Coronavirus in alcuni genera disagio. Capiscono che la ragione
principale non è che queste persone sono state sfruttate per anni e anni, che
in alcuni casi devono vivere per strada per la mancata offerta di alloggio da
parte di alcune aziende, nonché della difficoltà di accesso a una stanza in
affitto, oppure che le norme del lavoro che garantiscono i diritti minimi siano
sistematicamente violate. Al contrario, il disagio deriva dalla preoccupazione
che questa sovrarappresentazione dei media alimenti lo stigma che è stato
creato contro le persone migranti come potenziale di contagio del Covid-19,
quando appunto sono stati loro le principali vittime delle reazioni pubbliche
avvenute nel mese di luglio che ha portato a un nuovo confinamento nella
regione. Paradossalmente, gran parte dell’attenzione sulle condizioni di lavoro
è stata posta sui raccoglitori, uomini e donne, perché più visibili, visto che
è frequente trovarli in alcune piazze centrali, in attesa di essere assunti per
trascorrere la giornata, o in sella sulle loro bici sulla strada per i luoghi
della raccolta. Tuttavia, si sa molto meno sulle condizioni di lavoro nei magazzini
di frutta, dove di solito lavorano le donne migranti.
Una di loro è Sasha, nata 27 anni fa in
Guinea Equatoriale. Da lì si è trasferita a Houston (Texas), dove ha risieduto
fino a quando ha deciso di seguire il suo compagno in Spagna. A Madrid, ha studiato
per assistente di volo, marketing aziendale e un anno di giornalismo. Da due
anni lavora nei magazzini della frutta di Lleida: «Un giorno passi 7 ore a
lavorare ma il giorno prima ne hai lavorate 16. Mi hanno licenziato per aver
iscritto mio figlio all’asilo. Mi ha fatto molto male perché mi hanno detto che
non ero adatta», denuncia. Adesso che ha il permesso di soggiorno non è più
disposta a tacere: «Voglio farla finita con gli abusi».
«I neri sono trattati come merde» o
«voglio giustizia», sono alcune delle frasi lapidarie che hanno intervallato lo
svolgimento di queste interviste in cui si descrivono in dettaglio le
condizioni di un’industria che ha un fatturato di oltre 850 milioni annui e che
dedica buona parte della propria produzione all’export verso altri Paesi
europei, così come verso Israele o l’Arabia Saudita. I frutti, frutto del loro
lavoro, vengono venduti liberamente in tutto il mondo, intanto i lavoratori
vengono obbligati a migrare, e molte volte a lavorare in clandestinità.
L’articolo tratto
dalla rivista “La Marea”, 7 agosto 2020.
La traduzione è di Fulvio Perini
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