mercoledì 2 settembre 2020

Braccia/3. “Non siamo schiavi”: i lavoratori agricoli di Lleida, in Catalogna - Patricia Simòn

 

Due anni or sono l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) e la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) pubblicarono il rapporto Working anytime, anywhere: the effects on the world of the work (“Lavorare in ogni momento e in ogni luogo così come offre – impone – il mercato”). È la fotografia di una nuova forma di nomadismo necessario per vivere lavorando nelle reti “corte” del territorio, nelle reti “lunghe” transnazionali e nelle piattaforme digitali. Una delle forme di nomadismo è data dall’impiego delle “braccia” nei lavori in agricoltura, nell’edilizia, nella logistica, nelle imprese di pulizia e nei servizi di ristorazione. Ciascuna di queste attività ha una sua composizione sociale e, almeno in parte, etnica, espressione di storie di gruppi di migranti, soprattutto maschi ma anche donne. Parlare di lavoro oggi impone di aprire una finestra su questo arcipelago raccogliendo dati, mettendo sotto osservazione gli aspetti centrali della condizione dei lavoratori, soprattutto migranti, usati per le loro braccia (il reclutamento, la paga, la sicurezza e l’igiene, il cibo e il tetto), analizzando la dimensione transnazionale dei lavori e del nomadismo nel Mediterraneo e in Europa. È quanto abbiamo deciso di fare, in questa complessa estate, come “Volere la luna”. Le prime due tappe di questo percorso hanno riguardato la raccolta di frutta nel saluzzese (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2020/08/05/braccia-1-raccogliere-la-frutta-nel-saluzzese/e le condizioni dei lavoratori migranti in Bassa Valle Scrivia (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2020/08/12/braccia-2-lavoro-e-sfruttamento-in-bassa-valle-scrivia/). Con la terza ci trasferiamo in Catalogna, nella zona di Lleida, dove gli atteggiamenti razzisti nei confronti dei lavoratori stagionali provenienti dall’Africa (anche se residenti in Spagna da molti anni) si sono acuiti nel periodo della pandemia.


1.

«Il governo sa in quali condizioni lavoriamo, gli uomini d’affari sanno che non rispettano la legge, la gente sa come viviamo». Questa è la frase che, con parole diverse, viene ripetuta dai dieci lavoratori di origine migrante intervistati a Lleida, in Catalogna.

Sanno che lo sappiamo. Ecco perché c’è un certo fastidio quando si tratta di rispondere ai giornalisti, spiegando ancora una volta di cosa si tratta. È normale che i datori di lavoro non sempre rispettino i contratti del settore agricolo, che prevedono una retribuzione di 6,20 euro l’ora, ma a volte sono 5.80, altre volte 5.40, altre 5… Sanno che sappiamo che lavorano a cottimo, con temperature che sfiorano o superano i 40 gradi, per 10, 11 o più ore, e che è un lavoro disumano. Sanno che sappiamo che l’attività agroalimentare in questo paese si basa sulla precarietà, quando non sullo sfruttamento dei suoi lavoratori; mentre sottolineano che non tutti gli imprenditori sono sfruttatori («molti di loro sono anche lavoratori») e che il cuore della questione sta nelle grandi catene di distribuzione che prendono la maggior parte delle entrate di un’industria multimiliardaria.

Quello che credono non sappiamo ‒ e su cui si impegnano con maggiore zelo ‒ è che la cosa più pesante non è il susseguirsi degli abusi, ma l’indifferenza strutturale quotidiana, onnipresente, verso i loro corpi per il fatto di essere neri. «La schiavitù è stata abolita sulla carta, ma le menti sono ancora controllate dal razzismo», afferma il gambiano Johnny, 39 anni, contadino e operaio edile, seduto a un tavolo nel centro sportivo Torres de Segre, trasferito qui venerdì 17 luglio assieme a una quindicina di lavoratori migranti una volta finito il lavoro giornaliero nella fattoria. I primi lavoratori avevano già iniziato ad ammalarsi una settimana prima. «Venerdì 10 luglio faceva molto caldo. Noi stavamo raccogliendo la frutta e abbiamo finito l’acqua che ognuno di noi si era portato. Il proprietario non ce ne ha più portata. Nella notte alcuni hanno cominciato ad avere mal di testa e il giorno dopo non hanno potuto andare a lavorare», spiega Amadou (nome fittizio per salvaguardare la privacy), seduto al centro del campo di calcio ora trasformato in ospedale da campo.

Le tribune vuote circondano i letti d’ospedale disposti a più di due metri di distanza l’uno dall’altro. «Nonostante questo, noi abbiamo continuato a vivere in quel luogo disastroso. Se avessi degli animali, non li terrei in quelle condizioni: sei per camera, condividendo piatti, forchette, docce, mentre ogni giorno più compagni si ammalano. Se fossero stati davvero preoccupati per la nostra salute, non ci avrebbero lasciato una settimana in quelle condizioni», dice sotto l’occhio vigile di due giovani volontari della ONG Proactiva Open Arms, incaricata di gestire questa operazione di emergenza avviata a metà luglio per curare i lavoratori stagionali contagiati da Coronavirus, sebbene asintomatici o con sintomi lievi, nella regione di Segrià. «Giovedì ci hanno detto di non andare a lavorare, che ci avrebbero testati per controllare il contagio da Covid-19». Alcuni sono risultati positivi e quando gli hanno detto che stavano per essere trasferiti nel recinto del campo sportivo, inizialmente si sono opposti. «Ciò che ci ha ferito era la modalità: sono arrivati i poliziotti e noi non sapevamo dove ci avrebbero portato in quel modo e perché», dice Amadou, ancora amareggiato considerando che se fossero lavoratori bianchi infettati dal Covid-19 e asintomatici, come nel nostro caso, non sarebbero mai stati trasferiti con un’operazione di polizia in un luogo pubblico.

Johnny ricorda che quando sono arrivati quella notte al palazzetto dello sport vuoto e quando i volontari di Proactiva Open Arms hanno detto loro il nome della loro ONG, si è rilassato. «Avevo visto in TV come salvano le persone che lasciano la Libia. Fa molto male vedere quelle immagini, o quelle del recinto di Melilla. Invece di fermare le guerre, l’Europa cerca di fermare le persone che fuggono da loro. E per la cronaca, non siamo venuti a causa di conflitti o fame, ma perché vogliamo migliorare la nostra vita e quella delle nostre famiglie. Lavoro da 17 anni in Spagna pagando tasse e contributi e non ho diritto a nulla. E questo, perdonatemi se lo dico così, perché l’Europa ha distrutto l’Africa», afferma sedendosi insieme ad altri lavoratori, mentre alcuni altri giocano a carte o chattano sui cellulari, ammazzando così i brutti giorni di quarantena.

2.

Rispetto a quanto accadeva dieci o quindici anni fa quando intervistavamo i lavoratori migranti, ora le risposte non si concentrano tanto sullo sfruttamento del lavoro quanto sul razzismo strutturale. È logico. Molte di queste persone risiedono da dieci, quindici o venti anni in Spagna, una parte significativa ha i documenti in regola e, nonostante questo, invece di sentirsi parte della nostra società e di intravvedere un orizzonte di miglioramento, si trovano sempre più di fronte a precarietà e ostilità.

Molti degli operai intervistati sia nell’ospedale da campo di Torres de Segre che nelle strade di Lleida, non venivano da anni a fare la campagna della raccolta della frutta che ogni anno mobilita più di 35.000 lavoratori stagionali in questa regione, che è considerata una delle più dure. Ma prima dell’interruzione delle attività causata dal Covid-19, a seguito dell’appello dell’associazione dei datori di lavoro ortofrutticoli di Segrià che chiedeva ai lavoratori di venire a raccogliere la frutta, avevano deciso di venire di nuovo dove si erano ripromessi di non tornare. Sono i più abituati all’asprezza del sole che picchia sulla loro schiena, a piegarla per far arrivare le scatole di frutta, il cibo, in gran parte del territorio spagnolo. Anno dopo anno, vanno da Huelva ad Almería, da lì a Valencia, Aragona, Francia…

«Sono venuto da Almería e non avevo paura di prendere l’infezione perché ci sono molte altre malattie. La peggiore, la corruzione, che è una delle ragioni per cui dobbiamo lasciare i nostri paesi. Ma uccide anche qui, perché ci sono molti spagnoli che soffrono per la povertà», spiega Johnny, che come gli altri migranti non vuole essere fotografato per paura che la sua famiglia lo possa vedere e si preoccupi della sua salute. La maggior parte di loro non informa i familiari delle condizioni in cui deve vivere né, in questo caso specifico, come viene rinchiuso per aver contratto l’infezione. Johnny, che è in Spagna da 20 anni, alterna altri lavori con quello nei campi. «Ho lavorato, ad esempio, in Plaza de Castilla, a Madrid: sei piani sotto terra e nell’ultimo eravamo sempre noi neri a estrarre la terra. Sette ore senza fermarsi e senza mangiare. Per poter mangiare dovevi nascondere qualcosa in tasca evitando così di perderti d’animo. Anche un asino deve essere lasciato riposare per alcuni minuti ogni tanto. Credono che siamo schiavi. Non lo siamo, ma viviamo così perché non abbiamo alternative».

Nonostante sia coperta da una tuta protettiva con la maschera e lo schermo protettivo (DPI), si nota che Sara Navarro, studentessa universitaria di 20 anni di istruzione primaria e volontaria per la prima volta in una ONG, si commuove ascoltando le storie degli uomini che sta accompagnando da dieci giorni. «Vengo da Lleida, sono cresciuta sapendo cosa stava succedendo. Ma non è lo stesso apprenderlo ascoltando direttamente dal racconto delle persone che stai conoscendo. Condividere con loro così tanto tempo mi ha cambiato radicalmente. Non posso rivivere con questa realtà come ho fatto fino ad ora». Sara indica così una delle chiavi per comprendere la complessità di questi contesti: puoi vivere una vita circondato da situazioni di ingiustizia senza condividere una sola conversazione o spazio di convivenza con le loro vittime, i tuoi vicini.

3.

Joan ha 43 anni e, dopo quasi vent’anni in Spagna, sette mesi fa ha portato suo figlio dalla Guinea Bissau. Il giovane ascolta attentamente suo padre, ma non partecipa alla conversazione. «Ci svegliamo alle 5 del mattino e lavoriamo fino alle 13. Ci fermiamo a mangiare e torniamo in campo fino alle 7 del pomeriggio. Viviamo sei persone in una stanza, per la quale paghiamo al capo 100 euro del nostro salario. Solo così il proprietario dell’azienda ottiene dai braccianti più di 4.000 euro». Le storie che stiamo ascoltando potrebbero benissimo apparire in Furore, il romanzo in cui John Steinbeck ha descritto le difficoltà delle famiglie contadine che, costrette dall’industrializzazione e dalla crisi del 1929, si trasferirono in California per lavorare nel grandi aziende agricole. Le denunce fatte da Johnny, Joan, Amadou e molti degli altri migranti con i quali abbiamo parlato a Lleida, avrebbero potuto benissimo essere ascoltati nelle assemblee del movimento per i diritti civili degli afroamericani negli anni ’60 del ventesimo secolo. Il movimento antirazzista è cresciuto in Spagna da anni e le sue voci non si ascoltano più solo nelle assemblee delle città: sono ora presenti anche nei campi dove si raccoglie la frutta e la verdura che hanno permesso la nostra sopravvivenza durante i mesi di lockdown.

«In questi vent’anni di lavoro nei campi, non ho mai visto un ispettore» ‒ spiega Joan ‒. «Ma sono stato avvertito molte volte dai capi che sarebbero venuti e che, se me lo avessero chiesto, avrei dovuto rispondere che lavoravo 8 ore», precisando durante l’incontro che loro, i migranti, non sono venuti in Europa per rovinare la vita a nessuno. «Dal Governo dicono di denunciare, ma loro non ci danno lavoro; ce lo danno gli imprenditori e se la denuncia la facciamo noi, resti poi segnalato e non verranno più da te per fare il contratto di lavoro. È successo ai nostri colleghi».

Al suo fianco, Johnny sostiene di non voler pensare troppo: «Quando noto il razzismo nel modo in cui mi ignorano quando entro in un bar, quando mi chiamano “nero” per strada, quando la polizia mi chiede ancora e ancora i miei documenti per strada, quando sento come il capo mi considera un essere inferiore… vedo i volti di mio padre e di mia madre, perché è tutto così perché sono nero e loro, i miei genitori sono neri. Così evito di pensarci per non stare male».

Tutti vogliono tornare nei loro paesi, ma «con qualcosa». Quel “qualcosa”, come spiega Joan, sono i risparmi per poter costruire una casa o riprendere la coltivazione del pezzo di terra dei propri genitori. «Ma come facciamo a risparmiare se quando ci ammaliamo non veniamo pagati? Se non ne abbiamo il diritto alla disoccupazione? Quando María Teresa Fernández de la Vega venne in Gambia come vicepresidente (del Consiglio dei ministri spagnolo, ndr), disse che avrebbe inviato macchinari e gru per poter migliorare la nostra agricoltura. Ma perché, se poi non ci permettono di esportare?».

Venerdì 31 agosto, Johnny, Joan, Amadou e il resto dei lavoratori confinati nel centro sportivo Torres de Segre riacquisteranno la libertà di movimento dopo aver completato le due settimane di quarantena ed essere risultati negativi al Covid-19. Alcuni di loro rientreranno nei luoghi di residenza abituale e altri nella campagna agricola di Segrià. «Non dimenticherò mai come la gente di Open Arms mi ha trattato. Non mi sono mai sentito trattato così bene dagli spagnoli», ripete Joan entusiasta. Probabilmente perché non aveva mai avuto l’opportunità di condividere spazio e tempo con gli altri. La stessa cosa che è successa alla giovane volontaria di Lleida, Sara Navarro.

4.

A Lleida attivisti di gruppi come “Frutta con Giustizia Sociale” gridano da anni nel deserto contro abusi e maltrattamenti ricevuti dai lavoratori stagionali migranti. Sono riusciti a malapena ad attirare l’interesse di parte dei media. Così come accade a una parte dei lavoratori a giornata, il massiccio arrivo di giornalisti a causa dei focolai di Coronavirus in alcuni genera disagio. Capiscono che la ragione principale non è che queste persone sono state sfruttate per anni e anni, che in alcuni casi devono vivere per strada per la mancata offerta di alloggio da parte di alcune aziende, nonché della difficoltà di accesso a una stanza in affitto, oppure che le norme del lavoro che garantiscono i diritti minimi siano sistematicamente violate. Al contrario, il disagio deriva dalla preoccupazione che questa sovrarappresentazione dei media alimenti lo stigma che è stato creato contro le persone migranti come potenziale di contagio del Covid-19, quando appunto sono stati loro le principali vittime delle reazioni pubbliche avvenute nel mese di luglio che ha portato a un nuovo confinamento nella regione. Paradossalmente, gran parte dell’attenzione sulle condizioni di lavoro è stata posta sui raccoglitori, uomini e donne, perché più visibili, visto che è frequente trovarli in alcune piazze centrali, in attesa di essere assunti per trascorrere la giornata, o in sella sulle loro bici sulla strada per i luoghi della raccolta. Tuttavia, si sa molto meno sulle condizioni di lavoro nei magazzini di frutta, dove di solito lavorano le donne migranti.

Una di loro è Sasha, nata 27 anni fa in Guinea Equatoriale. Da lì si è trasferita a Houston (Texas), dove ha risieduto fino a quando ha deciso di seguire il suo compagno in Spagna. A Madrid, ha studiato per assistente di volo, marketing aziendale e un anno di giornalismo. Da due anni lavora nei magazzini della frutta di Lleida: «Un giorno passi 7 ore a lavorare ma il giorno prima ne hai lavorate 16. Mi hanno licenziato per aver iscritto mio figlio all’asilo. Mi ha fatto molto male perché mi hanno detto che non ero adatta», denuncia. Adesso che ha il permesso di soggiorno non è più disposta a tacere: «Voglio farla finita con gli abusi».

«I neri sono trattati come merde» o «voglio giustizia», sono alcune delle frasi lapidarie che hanno intervallato lo svolgimento di queste interviste in cui si descrivono in dettaglio le condizioni di un’industria che ha un fatturato di oltre 850 milioni annui e che dedica buona parte della propria produzione all’export verso altri Paesi europei, così come verso Israele o l’Arabia Saudita. I frutti, frutto del loro lavoro, vengono venduti liberamente in tutto il mondo, intanto i lavoratori vengono obbligati a migrare, e molte volte a lavorare in clandestinità.

 

L’articolo tratto dalla rivista “La Marea”, 7 agosto 2020.
La traduzione è di Fulvio Perini

 

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