sabato 29 luglio 2017

La guerra invisibile a chi difende la Terra - Francesco Martone

In un suo splendido editoriale sull’ultimo numero della rivista “liberal” statunitense Harper’s la scrittrice ed attivista Rebecca Solnit si cimenta con il tema dello spazio. Spazio fisico di agibilità, e spazio immateriale di compressione dei diritti. Tutto il potere, dice, “può essere inteso in termini di spazi. Spazi fisici, come anche le economie, le conversazioni, la politica – tutto può essere inteso come aree occupate inegualmente. Una mappa di questi territori costituirebbe una mappa del potere e dello status. Chi ha di più e chi ha di meno“, ed il “dominio dello spazio e del territorio da parte di chi ha potere può essere chiamato violenza strutturale”. La teoria basagliana definiva questa violenza strutturale come “crimine di pace”, altri la chiamano semplicemente, “necropolitica” termine coniato dal sociologo africano Achille Mbembe assieme a quello di “biopotere” .

Le cifre sono impressionanti: almeno 200 difensori (uomini e donne) sono stati uccisi lo scorso anno, in 24 paesi. Una scia di sangue che si allarga a macchia d’olio, i paesi dove Global Witness aveva registrato omicidi nel 2015 erano 16. Oggi in testa è il Brasile, seguito dall’Honduras, dal Nicaragua, dalle Filippine, la Colombia, l’India, e la Repubblica Democratica del Congo. Il Brasile del grande latifondo e dei mega-progetti di sviluppo del governo Temer, l’Honduras di Berta Caceres e del COPINH – la figlia Bertita di recente oggetto di minacce di morte mentre il governo annunciava la chiusura del contestatissimo progetto idroelettrico di Agua Zarca. Le Filippine di Duterte, o la Colombia dove dopo la firma dell’accordo di pace tra governo e FARC, e lo smantellamento della presenza delle FARC nei territori da loro controllati, si è scatenata una caccia agli attivisti e leader comunitari da parte di formazioni “neo-paramilitari”. Una maniera di “ripulire” il territorio per permettere poi alle imprese del settore estrattivo di fare i loro affari sporchi.
Il rapporto di Global Witness ci dice che il settore minerario è quello più macchiato del sangue degli attivisti uccisi lo scorso anno, 40% dei quali erano uomini e donne indigene. Il 60% dei 200 omicidi è stato registrato proprio in America Latina. E le responsabilità vanno attribuite direttamente o indirettamente agli apparati dello stato o della sicurezza, a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle imprese. Il numero però potrebbe essere assai maggiore, visto che secondo quanto registrato dall’Atlante per i Conflitti Ambientali (EJAtlas) almeno 2000 sono i conflitti sulla terra nel mondo. E poi molti di questi omicidi non sono stati denunciati o semplicemente derubricati a fatti di criminalità comune. Per non parlare poi della crescente criminalizzazione dei movimenti sociali e ambientali, non solo nel cosiddetto “Mondo di Maggioranza” ma anche in quello di “Minoranza” il ricco ed opulento “Nord”. Uno su tutti il caso della resistenza contro la Dakota Access Pipeline a Standing Rock. Allora risulta evidente che questo spazio che si restringe ha a che vedere con il modello di sviluppo, con i modelli di consumo e estrazione di valore dalla terra. È pertanto uno spazio “politico” di rivendicazione e di conflitto, dove chi ha il monopolio dell’uso della forza, armata o non, prevarica, comprime, marginalizza, uccide.

Questo nel cosiddetto “Sud”. E a parte il caso di Standing Rock che accade altrove, nel nostro “Nord” che si erge a paladino dei diritti umani e della democrazia? Turchia, Egitto ma anche Polonia, Ungheria per fare qualche esempio? Non ci si faccia illusioni: esiste a livello globale una guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti e protezione della terra.
Ad aprile di quest’anno CIVICUS ha reso noti i dati raccolti nel corso del 2016. La loro pubblicazione ha un titolo eloquente People Power under Attack” (il potere del popolo sotto attacco).
Secondo CIVICUS, solo il tre percento della popolazione mondiale vive in paesi dove lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” può considerarsi “aperto”. Sono ben 106 i paesi dove chi si mobilita pacificamente rischia la galera, la morte o la repressione. Dei 195 paesi monitorati da CIVICUS in 20 lo spazio di agibilità è chiuso, represso in 35, ristretto in 63, ed “aperto” in solo 26. Oltre sei miliardi di persone vivono in paesi dove l’agibilità politica e civica è chiusa, repressa o ostruita.
I dati di CIVICUS rivelano con chiarezza la responsabilità degli apparati di stato nell’assalto sistematico a chi, individui o movimenti, critichi l’autorità, svolga attività di monitoraggio dei diritti umani, o rivendichi i proprio diritti sociali ed economici. Il più recente rapporto sullo stato della società civile nel mondo sempre a cura di CIVICUS, va oltre ed identifica nella crescita del populismo e dell’estremismo sciovinista una delle cause dell’aumento della sfiducia verso la società civile, pretesto per attacchi allo spazio di agibilità civica.
E l’Italia? Secondo il rapporto di CIVICUS lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” in Italia si è “ristretto” e tende verso il livello di “ostruzione”, ben lontano dagli standard di “spazio civico aperto” di altri paesi membri della Unione Europea. Altri paesi dove si registra una “restrizione” dello spazio di agibilità sono gli Stati Uniti, il Canada, Cile, Argentina, Spagna, Francia, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica, Australia, Zimbabwe oltre ad altri paesi africani.
In realtà, la recente campagna di criminalizzazione delle organizzazioni non governative e della società civile che fanno soccorso in mare, o solidarietà con migranti e rifugiati sarebbe solo una manifestazione parossistica di un “trend” che si sta insinuando anche nel nostro paese. Dalla criminalizzazione delle proteste dei comitati per la protezione dell’ambiente, alle minacce a giornalisti o avvocati da parte della criminalità organizzata, anche nel nostro paese iniziano a palesarsi i sintomi di una dinamica preoccupante.

Sempre CIVICUS, che assieme a Civil Society Europe ubblicherà in autunno uno studio dettagliato paese per paese, Italia inclusa, nel nostro paese nella prima metà del 2016 le principali libertà civili di associazione, riunione ed espressioni sono generalmente rispettate, ma sussistono alcune problematiche. Dalla discrezionalità nelle operazioni di ordine pubblico, all’uso eccessivo della forza in occasione di proteste di piazza. Occasionalmente difensori e difensore dei diritti umani soffrono minacce e intimidazioni. Nella prima metà del 2016 inoltre sono state registrate ben 221 violazioni del diritto alla libertà di espressione, una situazione ulteriormente aggravata da casi di intimidazione verso giornalisti.
Per tutto questo oggi proteggere i difensori della terra, dell’ambiente, dei diritti umani è un compito urgente, una sfida essenziale anche per la politica e per il settore privato, oltre che per la società civile nel nostro paese, già impegnata nella rete In Difesa Di, per i diritti umani e chi li difende, e più di recente con la campagna “Coraggio” di Amnesty International. Il prossimo anno l’Italia presiederà l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) che attribuisce grande rilevanza al tema dei difensori dei diritti umani nei suoi paesi membri, tra cui vanno annoverati seppur con modalità diverse, paesi come la Turchia, l’Egitto, la Polonia, o l’Ungheria. E non solo, il 2018 marcherà il 20esimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani occasione imperdibile per rilanciare con forza il tema della difesa dei difensori dei diritti umani e della tutela degli spazi di agibilità “civica” chiedendo al governo, al Parlamento ed agli enti locali uno sforzo collettivo per questa importante campagna di civiltà politica e sociale.
(Articolo pubblicato anche sull’ huffingtonpost.it - tratto da http://comune-info.net)


mercoledì 26 luglio 2017

anche papa Francesco parla su TED

Marijuana scontata in farmacia. Uruguay, a ruba l'erba di Stato - Daniele Mastrogiacomo

Da tre giorni la marijuana è libera in Uruguay. Si vende nelle farmacie e costa pochissimo: poco più di un euro al grammo. Si può produrre in casa, si può fumare alla luce del sole. Tranne nei luoghi pubblici dove è proibito anche per tabacco e derivati. Naturalmente non lo possono fare tutti. Il piccolo paese sudamericano non è il paradiso dei consumatori. Non ha alcuna intenzione di diventare l'Olanda del Sudamerica. Ha le sue regole, limiti, divieti e controlli. Ma l'entrata in vigore della seconda parte della legge promossa nel 2011 da Sebastián Sabini, deputato del Frente Amplio, il blocco della sinistra da 15 anni al potere e appoggiata dall'ex presidente José "Pepe" Mujica, ha trasformato l'Uruguay nel primo paese al mondo che detiene il monopolio completo delle foglie della pianta. Lo Stato controllerà la qualità del prodotto e la sua distribuzione. Una garanzia, nelle intenzioni dei promotori, nei confronti dei "tagli" spesso tossici e del mercato illegale che alimenta la criminalità.

Non mancano tuttavia le critiche da parte dei proibizionisti. Pedro Martínez, proprietario di una farmacia di Montevideo che non ha aderito al programma, spiega così i suoi timori: "Con l'erba libera si aprono le porte alle altre droghe. Chi non ci dice che dopo si arriverà a vendere anche la coca, l'ecstasy, la metanfetamina? ".

La maggioranza dei 3,4 milioni di uruguayani resta comunque convinta che si tratti di una scelta positiva. Sono almeno dieci anni che il paese discute sul tema. Fino agli albori del nuovo secolo, l'Uruguay era percorso dal traffico di stupefacenti come il resto dei paesi del Continente sudamericano. Ma essendo piccolo e fuori dalle rotte tradizionali, finiva per essere inondato da merce di pessima qualità. Soprattutto di pasta base della coca. Costava poco, arrivava dalla Bolivia, veniva fumata per stordirsi negli anfratti di Montevideo.

José Mujica decise di troncare questa piaga e suggerì ai parlamentari del suo partito di liberalizzare la marijuana. I dati sul consumo, gli dicevano che almeno 120 mila suoi concittadini si concedevano uno spinello di tanto in tanto. Che un giovane su 3, a Montevideo, fumava erba nel fine settimana. Che il 90 per cento della droga richiesta dal mercato interno era la marijuana. Che il suo business si aggirava su 30 milioni di dollari l'anno.

Il dibattito fu ampio e anche contrastato. Nel dicembre del 2013 si decise così di approvare una legge che andasse per gradi. Nella prima fase venne depenalizzato il suo uso. Si evitò di continuare a riempire le carceri di consumatori e piccoli spacciatori e si iniziò a prosciugare l'acquario in cui sguazzavano narcos e sicari. Solo due anni fa si decise di procedere alla fase due: la piena legalizzazione. Anche per scopo ricreativo.
La nuova legge è chiara: l'erba si compra in farmacia, lo può fare un cittadino uruguayano o un residente abituale e tutti devono registrarsi in un apposito libro. Per dimostrare la propria identità si usa l'impronta digitale. Si possono comprare fino a 40 grammi al mese per 45 dollari: un quinto del prezzo sul mercato clandestino. La qualità è garantita dallo Stato. Chi vuole coltivarla a casa ha diritto a sei piante per uso personale. Ma devi essere iscritto nel registro. Oggi sono già settemila.

Il laboratorio uruguayano stimola molti paesi del Continente. Dopo aver chiesto all'Onu di rivedere la sua politica sulla droga e aver ottenuto solo vaghe risposte, molti Stati hanno deciso di agire in modo autonomo. Così, il Messico ha legalizzato la coltivazione personale in piccole quantità; la Colombia ha avviato la produzione per scopi medici; Il Canada ha in programma di liberalizzarla nel 2018.

martedì 25 luglio 2017

Maxima Acuña ha sconfitto Yanacocha - Aldo Zanchetta


L’espressione “c’è un giudice a Berlino”, attribuita erroneamente a Bertolt Brecht (Umberto Eco dixit!), è riferita alla lunga e penosa vicenda di un mugnaio tedesco del Settecento. Vessato da un potente della sua città, egli venne privato del mulino ma si appellò alla giustizia che però, nei vari gradi di giudizio, gli dette torto. Finché la cosa arrivò alle mani di Federico II, re di Prussia, detto “il Grande”, che sembra fosse un principe “illuminato”. Esaminato il caso, il re dette ragione al povero mugnaio.  Da allora, quando la giustizia falla, come accade spesso per i poveracci, ci si domanda: “Ci sarà un giudice a Berlino?”.
L’espressione si adatta al caso di Máxima Acuña de Chaupe, una contadina peruviana la cui storia Comune-info ha seguito nei molti alti e bassi dei vari gradi di giudizio. La coraggiosa Máxima si è trovata di fronte – non solo figuratamente ma anche fisicamente, subendo minacce, aggressioni violente, ferite – la potente Mining Newmont Corporation, a cui appartiene la locale Yanacocha che, nella miniera Conga, estrae oro a 4mila metri di altezza, nella regione di Cajamarca delle Ande del Nord.
L’incredibile tenacia di una donna indifesa, ma solo apparentemente fragile, come Máxima l’ha resa un simbolo mondiale della resistenza all’”estrattivismo” predatorio. A maggior ragione. in un paese dove il 20,3% del territorio nazionale è coperto da concessioni minerarie di varia natura (in una provincia si è giunti al 95%!), dall’oro al petrolio, e dove la Defensoria del Pueblo, nel 2013, registrava 173 conflitti aperti e 45 latenti, oltre 100 dei quali causati proprio dall’attività mineraria.
Ricordate lo splendido romanzo “Rulli di tamburo per Rancas”?. Una recente indagine in due comunità della regione mineraria di Pasco, quella immortalata dal romanzo di Manuel Scorza, ha rilevato che oltre l’80% dei ragazzi presenta contaminazioni da piombo nel sangue. Il limite tollerato per legge è di 10 microgrammi per decilitro di sangue, ma costì per l’84,7% risulta superiore, con una media di circa 15 microgrammi. Non solo. Oltre il 50% dei bambini presenta una denutrizione cronica e il 23% soffre di anemia. L’attività mineraria distrugge l’agricoltura e la pastorizia, fonte di vita in queste zone di montagna e avvelena l’acqua. Naturalmente l’argomentazione dei politici nel concedere le licenze minerarie è basata sul binomio “sviluppo” e “lavoro”, quando l’odierna “coltivazione” (ironia dei nomi) mineraria, realizzata con le miniere a “cielo aperto”, l’occupazione è limitata a pochissime decine di operatori delle ruspe. Nelle miniere più moderne il materiale viene portato alla zone di ‘trattamento’ da grossi camion teleguidati …
Il progetto Conga è uno dei più contestati del paese e l’ipotesi di ampliamento ha scatenato proteste che durano ormai da oltre 5 anni e a causa delle quali oltre 300 leader popolari sono sotto processo a Cajamarca, la città capoluogo della regione.
La resistenza di Máxima ha fatto conoscere al mondo l’insensatezza di questo progetto e promosso un’ondata di solidarietà, culminata nel 2016 con la consegna all’intrepida contadina del prestigioso premio Goldman per i difensori dell’ambiente.
Comune-info ha seguito negli anni le vicende giudiziarie di Máxima, con la sua intricata sequenza di vittorie e sconfitte, fino a quando la Corte suprema di Giustizia, nel maggio scorso, sembra aver messo la parola fine alla vicenda, riconoscendo alla famiglia Chaupe la proprietà dei 27 ettari di terreno ormai circondato dalle proprietà della miniera. Scriviamo “sembra”, perché dopo la sentenza la Yanacocha ha dichiarato che rispetterà il giudizio ma manterrà aperte altre vertenze intraprese contro Maxima. Nel 2014 avevamo scritto: “Giustizia è fatta: doña Maxima resta a casa” ma nel settembre 2016 avevamo dovuto ammettere: “La persecuzione di Maxima continua”. Altri, su questo sito, nel 2016 avevano scritto: “Maxima ha già vinto”. Ma Yanacocha aveva interposto un nuovo ricorso alla Corte Suprema del Perù.
Per comprendere l’esasperazione degli abitanti della zona minacciata dall’estensione, si deve pensare a cosa sono le miniere a cielo aperto e a come i minerali vengono estratti nonché alla particolare ubicazione dell’attività di estrazione e alla lacunosità degli studi di impatto ambientale in base ai quali le autorità avevano approvato il progetto. Le miniere a cielo aperto si realizzano con enormi sbancamenti della roccia a mezzo di speciali ruspe. La roccia sbancata viene poi frantumata e trattata con soluzioni chimiche che sciolgono il minerale. Nel caso che il minerale sia oro, si usano mercurio, che si amalgama con le particelle di oro, nonché soluzioni di cianuro. Tutti i processi di questo tipo necessitano di grandi quantità di acqua, sottratta all’uso umano e agricolo, acqua che deve poi essere trattata data la sua tossicità. I bacini di contenimento delle acque reflue sono un pericolo permanente. Nei mesi scorsi la rottura della barriera in contenimento di uno di questi bacini in Brasile ha causato decine di morti. Ma le microperdite sono abituali con effetti micidiali.

Gli effetti del mercurio
L’estensione di Conga avverrebbe in un luogo molto delicato: una cabecera de cuenca, ovvero una sorgente di bacino idrico. Nel caso specifico la cabecera è costituita da 4 lagunas, ovvero laghi di montagna che ricevono l’acqua proveniente dai lento sciogliersi dei ghiacciai, che la distribuiscono a 5 vallate, per le quali quest’acqua significa la vita. Questo è un tema aggiuntivo: il Perù è stato classificato al terzo posto fra i paesi più a rischio a causa del cambiamento climatico, proprio per l’alterazione del sistema di regolazione del regime delle acque dovuto ai ghiacciai. E’ di questi giorni la notizia che in Svizzera 20mila mq di teli isolanti sono stati stesi su un ghiacciaio che si sta liquefacendo, mettendo a rischio il sistema idrico della regione sottostante!
Le manifestazioni attorno alle lagunas
Hugo Banco, celebre leader dell’insurrezione contadina che negli anni sessanta del secolo scorso portò nelle valli di La Conveción e Lara alla prima seria riforma agraria in Perù, nel numero di aprile scorso del mensile Lucha Indigena, da lui fondato e diretto, ha scritto:
“L’impresa (Yanacocha, ndt), che cerca soltanto di aumentare i propri guadagni, pretende di far scomparire le lagune di altura che forniscono acqua per bere, per l’agricoltura e gli allevamenti a centinaia di campesinos di 5 vallate. Máxima Acuña, per difendere le lagunas, non accetta di vendere la sua parcella di terreno a nessun prezzo all’azienda. […] Sono molte le persone coscienti che capiscono che dobbiamo mobilitarci in appoggio a lei. Lo si è visto il giorno 12 (di aprile, giorno in cui era prevista la sentenza, poi rinviata al 4 maggio, ndt). Oltre a quanti eravamo all’interno del Palazzo di Giustizia, fuori vi era una moltitudine di persone, alcune delle quali portavano cartelli con scritto: “Máxima no esta sola”. […] Máxima Acuña è il simbolo della nostra ribellione e per questo il nostro periodico Lucha Indigena porta costantemente sulla copertina il suo ritratto. (Lucha Indigena viene pubblicato anche grazie a un modesto aiuto finanziario offerto da alcuni amici italiani, al quale si può contribuire con due o tre decine di euro trimestrali… ).
Mirtha Vásquez, avvocatessa direttrice dell’Associazione Grufides, che ha preso a proprio carico le spese dei vari processi che la famiglia Chaupe non avrebbe potuto sostenere e che la ha difesa dal 2012, dopo la sentenza ha ricordato: “Questi cinque anni sono stati anni di enorme tensione per loro, tutti i giorni vigilati, tutti i giorni minacciati, tutti i giorni con la paura, col timore che vengano a invadere o che li caccino o gli tolgano il terreno o che possano perfino ammazzarli; vivere con questa tensione … Essi hanno deciso di difendere il poco che possedevano anche a rischio della vita, e tutto questo è anche una lezione di molto valore, non solo per loro, ma anche per tutta la gente che ha sempre avuto paura di fronte al potere”.
E come ricorda la stessa Mirtha Vazquez, questa è stata una vittoria al femminile:
Le donne di questa famiglia sono quelle che hanno fatto sì che si facesse giustizia, sono il pilastro della famiglia. La più giovane dei Chaupe, Gilda, quando quelli della miniera circondano la proprietà e entrano con un grosso mezzo meccanico (…) Gilda, la più giovane, aveva 17 anni, si lancia contro la macchina e il guidatore si ferma per paura di ammazzarla, ed è allora che si chiede alla polizia di entrare, e la polizia cerca di trascinarla via con la forza e Gilda si divincola, un poliziotto la colpisce alla testa col fucile e la stordisce, rendendola incosciente. Il poliziotto, credendo di averla uccisa, arretra e la polizia decide di ritirarsi. Questo atto di valore ha impedito lo sfratto. L’altra figlia, Isidora, è quella che filma tutto col suo cellulare ed è grazie a questo che abbiamo la registrazione degli abusi. E’ lei che dice alla famiglia: “Di qui non ci muoviamo, perché se ci portano via non potremo tornare mai più”. E infine Máxima, che difende la propria famiglia come una leonessa. Le tre donne sono state molto valorose in tutto questa faccenda.
“Conga no va” è stato lo slogan di cinque anni di lotta. Ma nelle alte sfere del potere qualcuno insiste.
NB Chi volesse avere notizie più dettagliate sulle vicende giudiziarie e sulle lotte di questi anni può effettuare il link su questi due documenti:
http://www.grufides.org/sites/default/files/Documentos/fichas_casos/CONFLICTO%20MINERO%20CONGA.pdf2 Jun 2015
Minería en Cajamarca: Caso Conga. Miltón Sánchez – Slideshare https://es.slideshare.net/RossanaMendoza/minera-48498149
Sulla figura di Máxima Acuña segnaliamo il bellissimo video di Simona Carnino Aguas de Oro (Italiano) – YouTube https://www.youtube.com/watch?v=f02LbhNniGk


Santa Gilla e Macchiareddu inquinati. L’Arpas minimizza, ma ecco i dati - Alessandra Carta

La laguna di Santa Gilla e l’agglomerato industriale di Macchiareddu sono inquinati. E non da oggi. La prova è scritta negli stessi dati dell’Arpas, l’Agenzia regionale per l’ambiente che la scorsa settimana ha diffuso una nota stampa sulla chiusura del primo monitoraggio straordinario chiesto alla Giunta dai sindaci di Cagliari, Elmas e Assemini dopo l’inchiesta Fluorsid. L’Arpas, attraverso il direttore Alessandro Sanna, ha parlato di “presenza di inquinanti complessivamente invariata” rispetto agli ultimi anni. Ma ciò non significa che sia tutto a posto. Anzi. I dettagli sul monitoraggio, spiegati dall’assessorato regionale all’Ambiente da cui l’Arpas dipende, evidenziano a Santa Gilla la presenza di mercurio, cadmio e zinco oltre la norma e a Macchiareddu un’emergenza tricloroetilene (la comune trielina).
Nella scheda tecnica degli uffici dell’Ambiente si legge in premessa: “I risultati indicano una generale complessiva invarianza della presenza degli inquinanti nelle matrici ambientali nell’area di Macchiareddu e Santa Gilla”. In particolare: per quanto riguarda la laguna, “in relazione alle campionature del monitoraggio straordinario di maggio 2017, effettuate nelle ventiquattro stazioni di Santa Gilla, si registra un lieve superamento per il mercurio”, pari “a 0,019 microgrammi per litro rispetto al valore obiettivo di 0,010”. E ancora: “la soglia di contaminazione è stata superata anche su piombo (sette stazioni su ventiquattro) e zinco (nove su ventiquattro)”, sebbene non siano specificati i dati. Si sottolinea che “i dati 2017 sono in leggero decremento rispetto al 2006”.
Altra cosa sono le responsabilità penali della Fluorsid, in merito al disastro ambientale di cui sono accusati quattro dirigenti della Fluorsid, finiti in carcere lo scorso maggio anche con l’accusa di associazione a delinquere (qui tutti i nomi). Sul punto dalla Regione hanno scritto: “Le aree oggetto di sequestro dovranno essere indagate caso per caso con piani di caratterizzazione specifici finalizzati alla verifica delle situazioni puntuali. Se poi si sono svolte le attività di inquinamento, oggetto di inchiesta, per ora non si rileva la modificazione delle matrici ambientali”. In buona sostanza, l’attività industriale della Fluorsid non ha peggiorato le condizioni della laguna, stando alla ricostruzione dell’Arpas. Ma “si tratta”pur sempre “di un sito inquinato di interesse nazionale”, è scritto ancora nella nota della Regione.
L’aspetto positivo su Santa Gilla è che viene esclusa “la presenza di fluoruri in  concentrazioni superiori ai limiti normativi nelle acque (decreto ministeriale 260/2010) e nei sedimenti (decreto legislativo 152/2006). E si tratta di analisi su cui “non si hanno dati storici di confronto, in quanto i fluoruri non sono inclusi nel set analitico previsto dalla direttiva comunitaria 2000/60″applicata appunto sino a sette anni fa. Dalla Regione valutano con ottimismo anche il fatto che rispetto al 2015 “non sono state registrate concentrazioni di cadmio superiori agli standard di qualità ambientale”.
Quanto all‘area industriale di Macchiereddu, sotto la lente sono finite le acquee sotterranee. E nemmeno qui va tutto bene. Nella scheda della Regione è scritto: “Mostrano in generale presenza di contaminanti in concentrazioni superiori alla soglia fissata dal decreto legislativo 152 del 2006 (tabella 2) per numerosi parametri. In particolare: fluoruri, solfati, metalli e composti organici. Il monitoraggio effettuato dall’Arpas dal 2011 ad oggi non evidenzia tendenze significative generali in miglioramento o in peggioramento del quadro complessivo”. Quindi il passaggio sul monitoraggio 2017: “Le attività effettuate sono in linea con gli anni precedenti, anche se possono essere presenti variazioni di singoli parametri in aree specifiche”. I campionamenti di maggio hanno riguardato “i fluoruri, che entrano nel ciclo produttivo Fluorsid”, più “alcuni metalli, scelti tra i più significativi come l’arsenico e il cadmio” e ancora “un composto organico, il tricloroetilene, considerato tra gli inquinanti organici più rappresentativi, anche se non in relazione con la Fluorsid”.
Questi i risultati: “Nell’area vasta di Macchiareddu le concentrazioni di fluoruri mostrano un andamento stabile, mentre nell’area Fluorsid si osserva un decremento a partire dal monitoraggio del 2012″. Ancora: “Nel 2013 è stata attivata la messa in sicurezza di emergenza delle acque sotterranee nel sito Fluorsid. In particolare, nella stazione 578 (lungo la dorsale consortile), dove nel primo semestre del 2012 erano stati rilevati 1.280 milligrammi per litro, il valore del 2017 è a 365 milligrammi per litro”. Su arsenico e cadmio “non si evidenziano a scala generale tendenze di rilievo”, è scritto ancora nel comunicato della Regione.
A Macchiareddu esiste invece un’emergenza trielina, indicata appunto come un potente inquinante dallo stesso assessorato all’Ambiente. Dalla Regione hanno scritto: “Negli ultimi anni si rileva un incremento della concentrazione di tricloroetilene nell’area Syndial e nella stazione 584. Tale incremento non trova però riscontro in area Fluorsid, dove, nel 2016 e nel 2017, le concentrazioni sono sotto il limite di rilevabilità”. Il tricloroetiline, infatti, non rientra nel ciclo produttivo dell’azienda di Tommaso Giulini. E quindi il risultato era prevedibile.

domenica 23 luglio 2017

Il bagnante furente - Grig



E’ vero, purtroppo il senso civico non è molto diffuso in Sardegna come nel resto d’Italia.E le cafonate abbondano, senza controlli.
Ma qualche volta il cafone di turno – o la cafona di turno, come in questo caso – trovano chi non sta zitto e spiega com’è fatto il mondo.
Così è accaduto qualche giorno fa sulla spiaggia di Porto Pinetto, nel Sulcis (S. Anna Arresi), quando un bagnante sardo ha scoperto una turista continentale a vuotar il resto di una scatoletta di tonno in mare e poi a sotterrarla sotto la sabbia.
Bravissimo!    Esempio da seguire senza se e senza ma, con la speranza che i cafoni imparino qualcosa.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

venerdì 21 luglio 2017

Cybercrimini, allarme dagli esperti: “Social Thiscrush, ragazzi a rischio” - Francesca Mulas

È il nuovo social network dove si ritrovano giovani e giovanissimi, soprattutto 12-14 enni, ed è molto, molto pericoloso: il nuovo strumento per far incontrare i ragazzi si chiama ThisCrush.com, ha appena pochi mesi di vita ma è già stato segnalato come strumento che veicola odio, volgarità, violenza verbale e minacce tra i teenager. L’allarme arriva dall’Osservatorio regionale cybercrime ed è rivolto a chiunque abbia a che fare con ragazzi alle prese con internet.”Abbiamo raccolto la segnalazione di diversi genitori, coinvolti da tempo nell’Osservatorio regionale del Cybercrimine grazie a un corso dedicato a ‘genitori digitali’ per aiutarci a rilevare minacce e comportamenti a rischio dei più giovani su internet”, spiega Luca Pisano, psicologo e psicoterapeuta, consulente per i tribunali di Roma, Cagliari e Tivoli e supervisore dell’Osservatorio.
Dopo la segnalazione degli adulti, gli esperti dell’Osservatorio, istituito da IFOS, Nuovi Scenari, Centro Giustizia Minorile Sardegna, Ministero della Giustizia, Ats Assl Nuoro e specializzato in consulenza e studio attorno a rischi della navigazione in rete, hanno effettivamente verificato che molti ragazzi sardi si stanno registrando sulla piattaforma This Crush, una sorta di bacheca dove si possono ricevere brevi messaggi e ‘crush’, inviti ad avviare una chat personale, anche da anonimi. Ed è proprio la possibilità di scrivere nell’anonimato una delle caratteristiche del sito, che permette di inviare insulti, offese e provocazioni a sfondo sessuale. Alcuni rispondono agli insulti pubblicando su Instagram lo screenshot dei post offensivi letti sul proprio profilo di ThisCrush e le loro repliche ai messaggi diffamatori, e trasferiscono così i messaggi da un social all’altro, rendendo visibili e pubbliche le interazioni offensive.
Abbiamo fatto una breve ricerca per verificare la presenza di ThisCrush tra i ragazzi sardi che frequentano social network: siamo entrati su Instagram da un account personale (Instagram non è accessibile se non dopo registrazione) e da qui abbiamo trovato in un’ora dieci profili di ragazze del Cagliaritano tra i 12 e i 16 anni che hanno collegato l’account Instagram a quello Thiscrush. Il profilo ThisCrush (‘Crushpage’) non è facilmente accessibile ma ci si può arrivare passando da Instagram, dove le ragazze si presentano con nome, cognome, foto e provenienza. Quello che abbiamo letto è sconvolgente: nelle pagine delle giovani compaiono commenti estremamente volgari: “Sei ridicola, hai 12 anni e ti comporti da troia”,”hai il culo e le tette grandi e sei anche bassa?”, “lavori in viale trieste puttana”, “Sei così piccola e carina, datti al porno”, “Che bel culo che hai”, “ma non ti vedi allo specchio quanto cazzo sei troia”, “ti consiglierei di fare dieta perché le cosce tra poco ti scoppiano e non ti starà più la taglia xxl”, “io e un amico vogliamo fare un’orgia con te”, “Fai schifo puttana”, “mi faccio i filmini porno pensando a te”, “tu e la tua amica vi scambiate i perizomi” sono alcuni dei messaggi (non i peggiori, che sono irriferibili) che abbiamo letto nelle pagine delle ragazze, tutti anonimi e tutti visibili a chiunque abbia un account su Instagram.

Da qui l’allarme degli esperti e l’invito ai genitori perché controllino l’attività on line dei figli: “Parlare coi ragazzi e spiegare i pericoli della rete non basta per educarli a un uso consapevole: noi consigliamo di controllare l’attività digitale dei ragazzi. Il suggerimento è quello di iscriversi nei social network e verificare se i ragazzi vengono insultati o minacciati”. Come sottolinea Pisano, la corretta informazione da parte degli adulti non basta: “L’età tra i 12 e i 14 anni è quella in cui non si segue la morale comune o quella dettata dalla legalità ma quella convenzionale: i ragazzini fanno ciò che fanno gli altri, anche contro il parere dei genitori. Dobbiamo poi ricordarci che se anche parlano come noi hanno un modo di ragionare diverso, un diverso sviluppo cognitivo: ecco dove si annida il pericolo, non si rendono conto che certi atteggiamenti sono rischiosi”.
Il portale ThisCrush è registrato come privato, tuttavia partendo dagli annunci pubblicitari presenti sul sito si scopre che sono collegati ad Andrew Gunneson, Michigan (Usa). I termini di servizio sono chiari: il contenuto postato può risiedere nei server del sito o nei server di terze parti; è inoltre specificato che l’account può essere creato solo da maggiorenni o da minori solo con autorizzazione o supervisione dei genitori. Il creatore della pagina sottolinea ancora che non si possono pubblicare contenuti osceni, offensivi, che veicolano odio, minacce o promuovono violenza pena la chiusura dell’account, tuttavia il sito non è responsabile dei contenuti che restano di proprietà dell’autore. Una ricerca più approfondita restituirebbe certamente numeri più precisi, ma dall’Osservatorio regionale sul Cybercrimine hanno stimato che ThisCrush ha già fatto registrare diverse centinaia di ragazzi del Sud Sardegna.
“Ci stiamo interrogando sul perché i giovani siano attratti da uno strumento simile, dato che sanno benissimo che possono ricevere volgarità e insulti – ci spiega ancora Luca Pisano – è una sorta di masochismo virtuale, che io e altri psicologi vediamo simile a quello fisico dei tagli sulla pelle con lamette e coltelli, fenomeno in allarmante crescita. Ragazzi così giovani non tengono conto dei possibili danni: intanto sul piano psicologico, dato che ricevere messaggi umilianti e violenze verbali in un’età in cui si aspettano rassicurazioni e incoraggiamenti può essere devastante per lo sviluppo. E poi per la futura web reputation: immagini e post resteranno per sempre nella rete, anche quando questi ragazzi cresceranno”.

lunedì 17 luglio 2017

Donato, il vigile che vide la mafia a Brescello prima di tutti. E ci ha rimesso il lavoro - Giulio Cavalli


Si chiama Donato Ungaro e oggi guida bus di linea. Non vive più a Brescello, "sono stato abbandonato, semplicemente" racconta al telefono nella pausa veloce tra una corsa e l'altra. Ma non ha rimpianti, quelli no: "sto scrivendo un libro per mettere in fila tutti i fatti che ho vissuto. Quando li racconto ho sempre il timore di non essere creduto". E scrivere, per Donato, è un tarlo a cui non riesce a rinunciare anche se l'ha messo nei guai. Giornalista giornalista, con tanto di esame di stato. Sul pullman 32.

«Nel 1994 vengo a assunto come vigile urbano a Brescello», mi racconta. La Brescello di Peppone e Don Camillo, la Brescello che è diventata notizia nazionale quando un anno fa è stato il primo comune dell'Emilia-Romagna sciolto per mafia: secondo le carte della Prefettura (poi confermate dal governo) a fare da padrone sugli appalti e subappalti pubblici erano i tentacoli della cosca di ‘Ndrangheta guidata da Francesco Grande Aracri che l'ex sindaco Marcello Coffrini non ebbe nessun problema nel descrivere come "una brava persona" che egli stesso aveva "usato per dei lavori a casa mia". «Quando sono stato assunto era sindaco Ermes Coffrini, padre dell'ex sindaco Marcello. Avevo già la passione per il giornalismo e per l'inchiesta e chiesi di avere l'autorizzazione a collaborare con alcune testate. Furono entusiasti. L'8 marzo del 2002 scrissi il mio primo articolo per la Gazzetta di Reggio».

Ma c'era già sentore di mafia?

Sì. Auto rovinate dall'acido. Minacce esplicite. Si diceva che fosse diventata abitudine sparare contro le baracche dei cantieri che non si "allineavano" al volere dei curtensi. E poi c'era Alfonso Diletto (nipote di Grande Aracri, attualmente recluso in regime di 41bis nell’ambito dell’operazione Aemilia nda) che in paese conoscevano tutti per i suoi atteggiamenti. Ricordo in particolare un episodio: un giorno mi strappò davanti alla faccia una multa per divieto di sosta che gli feci. Me lo strappò in faccia, davanti a tutti. Quando poi lo ritrovai a casa sua mi disse che non erano un problema i soldi della contravvenzione ma che non potevo fargli fare una figura del genere davanti alla gente. Per loro contava soprattutto il senso di impunità che dovevano poter esibire. Va detto che, nonostante se ne siano dimenticati in tanti, Brescello è stata teatro di un omicidio di mafia che si inserisce nella guerra tra il clan dei Dragone e i Grandi Aracri. Un omicidio in grande stile, con killer travestiti da carabinieri e addirittura un'auto dei carabinieri, ovviamente finta.

Ma le forze dell'ordine cosa dicevano?

I carabinieri cercavano di convincere la gente a lasciar perdere. Consigliavano di non denunciare. Nel 1997 prende fuoco il garage del mio vicino di casa: sento le urla e scendo per spegnere le fiamme. Arrivano anche i carabinieri. erano evidenti le tracce di cherosene e addirittura anche la strisciata di fiammifero sulla serranda di zinco. Il maresciallo mi chiede se io avevo avuto qualche diverbio con i cutresi in paese e gli rispondo che, da vigile, non tolleravo i loro soprusi. "Allora hanno sbagliato indirizzo, questo era per lei", mi disse. E tutto finì lì.

Tu invece avevi denunciato?

Decine di denunce. Avevo denunciato diverse persone per oltraggio e per minacce. Ma l'aspetto che più di tutti continua a stupirmi è che avevo fatto anche 5-6 segnalazioni per abusi edilizi e di queste segnalazioni non se n'è mai saputo niente. Ne quartiere chiamato "Cutrello" (in quegli anni la comunità vide una forte ondata immigratoria di cittadini cutresi legati all'eccezionale sviluppo edilizio) mi ero reso conto di una palazzina in cui era stata autorizzata la costruzione di 4 appartamenti mentre in realtà ne erano stati fatti il doppio. Il sindaco mi disse di lasciar perdere. Nel 2002 avevo scritto un articolo, con tanto di foto, in cui mostravo anche l'impresa più grande della zona (la Bacchi) che estraeva illegalmente sabbia dal Po. Partì anche un'inchiesta. Qualche settimana dopo mi hanno tagliato le gomme dell'auto. Di Notte. Per ben due volte.

Quando sei stato licenziato?

Il 28 novembre del 2002. Ufficialmente perché, secondo il Sindaco, rischiavo di violare il "segreto d'ufficio". Il mio licenziamento comunque è legato alla mancata costruzione di una centrale elettrica che avrebbe portato al comune qualcosa come 50 milioni di euro oltre alle tasse di concessione (si parlava dai 3 ai 9 miliardi di lire). Scrissi un articolo in cui una dottoressa spiegava che proprio nella zona di Brescello c'era una concentrazione anomala di tumori. Il sindaco si arrabbiò moltissimo. Sulla possibilità di costruzione di quella centrale avevano investito in molti: Claudio Bacchi (titolare della Bacchi) aveva già comprato i terreni agricoli con la promessa che li avrebbero convertiti. Poi Bacchi s'è beccato, con la sua impresa, anche un'interdittiva antimafia dalla Prefettura per contatti con persone di Cosa Nostra e con Grande Aracri.

Possiamo dire che i Coffrini non potevano non sapere che le mafie stavano mettendo le mani sulla città?

Possiamo dire che i Coffrini, padre e figlio, avevano in mano tutte le carte per capire e giudicare. Ma bisogna tenere conto che i Grande Aracri sono clienti proprio dello studio legale Coffrini e abbiamo tutti visto come Marcello Coffrini in video non si faccia problemi nel difendere il boss. In paese i cittadini, passato il rischio della centrale per cui si era anche creato un comitato spontaneo, si sono "dimenticati" del pericolo. ¡E la condizione tipica della colonizzazione: i figli sono compagni di gioco dei ragazzi di Brescello. Addirittura alcuni in paese dicevano che Grande Aracri bisognava lasciarlo in pace perché portava lavoro. E anche il comune godeva di una certa impunità.

In che senso?

Ti racconto un altro episodio: quando sono stato licenziato il mio posto da vigile è stato preso da un dipendentemente comunale che precedentemente guidava lo scuolabus. Dopo qualche mese in paese gira la voce che questo sia dotato di pistola. Per scrupolo vado dai carabinieri e chiedo se gli è stato comunicato che io non ho più in uso l'arma. Mi rispondono che non ne sapevano nulla. Allora faccio una segnalazione in Procura: c'era in giro per Brescello una persona armata che usava una pistola intestata al sindaco e che risultava essere in uso a me. Una cosa gravissima. Roba da galera. Qualche giorno dopo mi arriva una raccomandata dal Comune che mi dice che avevano sistemato tutto. E nessuno è mai stato punito. Nessuno.

Però poi c'è stato lo scioglimento del comune e gli arresti dell'operazione Aemilia. Qualcuno ti ha chiesto scusa?

Nessuno. Tieni conto che io ho perso anche il lavoro con le diverse redazioni con cui collaboravo, come la Gazzetta di Reggio e TeleReggio. Ma il problema è soprattutto politico: qui non ci sono gli anticorpi. Inutile dirlo. Io non sono nemmeno mai stato ascoltato dalla commissione antimafia regionale. Niente. Del resto a Brescello, lo dicono le carte dell'indagine Aemilia, i cutresi spostano qualcosa come 400 voti. Decidi le sorti di un sindaco, con 400 voti. Ma anche fuori da Brescello la musica non è cambiata: quando sono finito a fare l'autista mi è stata affidata la direzione del giornale del Dopolavoro dell'Azienda Trasporto Passeggeri Emilia Romagna, "L'Informatore". Anche qui sono stato licenziato dopo un'intervista a Claudio Fava in cui denunciava la forza delle mafie nella nostra regione. Si dice che l'ordine di licenziarmi sia arrivato direttamente dalla presidenza dell'azienda.

Eppure il tuo licenziamento è stato dichiarato illegittimo, no?

Da tre sentenze. Tre. La prima nel 2010, poi la Corte d'Appello nel 2013 e infine la Cassazione nel 2015. Ma il comune ha fatto un reintegro non regolare: il comune mi ha inviato una raccomandata a mezzogiorno dicendomi che avrei dovuto presentarmi al lavoro alle 7 del mattino dopo. Una cosa ovviamente impossibile e che non rispetta i contratti di lavoro che prevedono un preavviso di almeno 30 giorni. Quando sono arrivati i commissari, dopo lo scioglimento per mafia, ho sperato che ci mettessero una pezza ma niente. Tieni conto che lo scioglimento manda a casa i politici ma rimangono ovviamente tutti i funzionari che quei politici hanno nominato. E anche i sindacati non si sono visti. L'unica che mi è stata vicina è una consigliera comunale della Lega Nord, nonostante le posizioni politiche diametralmente opposte rispetto alle mie. Ora sono qui, ridotto a fare l'autista.

Ma una speranza di avere giustizia?

Dovrei intentare una nuova causata ci ho già rimesso 15 anni della mia vita. Basterebbe annullare il mio licenziamento, come è già avvenuto numerose volte da altre parti. Ma non c'è la volontà. Alla Camera c'è un'interrogazione di Giovanni Paglia a cui il ministro non ha mai risposto.

E quindi?

Quindi scrivo. Sto scrivendo un libro. Racconterò tutto. Ancora.


Cemento Mori - Paolo Biondani

Paolo Biondani ha scritto per L’Espresso attualmente in edicola Cemento Mori, un reportage ragionato e documentato sul nuovo rischio di ulteriore cementificazione che corrono le coste della Sardegna a causa della proposta di nuova legge regionale urbanistica presentata dalla Giunta Pigliaru.
Da leggere, per informarsi.
Nessuno potrà dire che non sapeva…
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus


da L’Espresso15 luglio 2017
Cemento Mori.
«Assalto al litorale della Sardegna. Addio legge salvacoste. La giunta vara la controriforma dell’edilizia. Renato Soru insorge:” Il Pd ha tradito”»(Paolo Biondani)
Il Pd di Berlusconi, pardon, il Pdl ha varato nel 2009 il famoso piano casa: più cemento per tutti, senza regole e senza piani urbanistici, sfruttando un sistema di aumenti automatici di volume per la massa dei fabbricati esistenti. Ora la giunta del Pd che governa la Sardegna progetta un inatteso bis, sotto forma di piano alberghi: via libera con un’apposita legge a nuove costruzioni turistiche, ecomostri compresi, perfino nella fascia costiera finora considerata inviolabile, cioè spiagge, pinete, scogliere e oasi verdi a meno di trecento metri dal mare.

Il programma di questo presunto centrosinistra sardo è di applicare proprio il sistema berlusconiano degli aumenti di volume in percentuale fissa (che premia con maggiori quantità di cemento i fabbricati più ingombranti) a tutte le strutture ricettive, belle o brutte, piccole o enormi, presenti o future, compresi ipotetici hotel non ancora esistenti. Una deregulation edilizia in aperto contrasto con la legge salva-coste approvata dieci anni fa dall’allora governatore Renato Soru e dal suo assessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna, cioè con una riforma targata Pd che nel frattempo è stata presa a modello da una generazione di studiosi, architetti, urbanisti e amministratori pubblici non solo italiani.
La contro-riforma odierna è nascosta tra i cavilli del disegno di legge approvato il 14 marzo scorso dalla giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru, il professore di economia eletto nel 2014 alla testa del Pd. La normativa ora è all’esame finale della commissione per il territorio: l’obiettivo della maggioranza è di portare in consiglio regionale un testo blindato, da approvare in tempi stretti, senza modifiche, subito dopo l’estate.
Sulla carta avrebbe dovuto trattarsi della nuova legge urbanistica che la Sardegna attendeva da un decennio per completare la riforma di Soru, con impegni precisi: stop all’edilizia speculativa, obbligo per tutti i comuni di rispettare limiti chiari anche fuori dalla fascia costiera, per difendere tutto il territorio, fermare il consumo di suolo e favorire il recupero o la ristrutturazione dei fabbricati già esistenti.
All’articolo 31, però, spunta il colpo di spugna: «al fine di migliorare qualitativamente l’offerta ricettiva», si auto-giustifica il testo di legge, «sono consentiti interventi di ristrutturazione, anche con incremento volumetrico, delle strutture destinate all’esercizio di attività turistico-ricettive». Il concetto chiave è l’incremento volumetrico: la norma approvata dall’attuale giunta di centrosinistra, proprio come il piano-casa del governo Berlusconi, autorizza aumenti di cubatura del 25 cento «anche in deroga agli strumenti urbanistici» in vigore, compresa la legge salvacoste. Insomma, se siete in vacanza in una spiaggia immacolata della Sardegna, fatevi un bel bagno: potrebbe essere l’ultimo.
Hotel, alberghi, pensioni, residence, multiproprietà e lottizzazioni turistiche di ogni tipo vengono infatti autorizzati non solo a gonfiarsi di un quarto, cementificando nuovi pezzi di costa, ma anche a sdoppiarsi, spostando gli aumenti di volume in «corpi di fabbrica separati». «In pratica si può costruire un secondo hotel o residence in aggiunta al primo anche nella fascia costiera in teoria totalmente inedificabile», denuncia l’avvocato Stefano Deliperi, presidente del Gruppo d’intervento giuridico (Grig), che per primo ha lanciato l’allarme. «Ma non basta: i nuovi aumenti di volume si possono anche sommare agli incrementi autorizzati in passato, ad esempio con il piano casa o con le famigerate 235 deroghe urbanistiche che furono approvate tra il 1990 e il 1992 dall’allora giunta sarda», sottolinea il legale, che esemplifica: «Un hotel di 30 mila metri cubi che deturpa una spiaggia, per effetto dei due aumenti cumulativi del 25 per cento ciascuno, sale quasi a quota 50 mila: per l’esattezza, si arriva a 46.875 metri cubi di cemento».
L’ex presidente della Regione, Renato Soru, spiega all’Espresso di essere «molto preoccupato per la cecità di una classe dirigente che sta mettendo in pericolo il futuro della Sardegna». «Con l’assessore Sanna eravamo partiti da una constatazione pratica», ricorda Soru: «Grazie ad anni di studi e ricerche abbiamo potuto far vedere e dimostrare che più di metà delle coste della Sardegna, parlo di circa 1.100 chilometri di spiagge, erano già state urbanizzate e cementificate. Di fronte a una situazione del genere, in una regione come la nostra, qualsiasi persona di buonsenso dovrebbe capire che i disastri edilizi del passato non devono più ripetersi.
Oggi tutti noi abbiamo il dovere morale e civile di difendere un territorio straordinario che è la nostra più grande risorsa e la prima attrattiva turistica: le bellissime spiagge della Sardegna sono la nostra vera ricchezza, che va conservata e protetta per le generazioni future. Per questo la nostra legge prevede una cosa molto semplice e logica: nella fascia costiera non si costruisce più niente. Zero cemento, senza deroghe e senza eccezioni per nessuno. E in tutta la Sardegna bisogna invece favorire la riqualificazione dell’edilizia esistente, il rifacimento con nuovi criteri di troppe costruzioni orrende o malfatte. Quindi via libera alle ristrutturazioni, alle demolizioni e ricostruzioni, al risparmio energetico. Con regole certe e uguali per tutti, perché l’edilizia in Italia può uscire veramente dalla crisi solo se viene tolta dalle mani della burocrazia e della politica».

A questo punto Soru confessa di essere uscito dai palazzi della regione, alla fine della sua presidenza, proprio «a causa dei continui scontri sull’urbanistica». E dall’altra parte della barricata, a tifare per il cemento, non c’era solo il centrodestra, ma anche «quella parte del Pd che ora è al potere». Da notare che Soru, per eleganza o per imbarazzo, evita di fare il nome dell’attuale presidente, anche se sarebbe legittimato ad accusarlo di tradimento politico, visto che Pigliaru era stato suo assessore ai tempi della legge salva-coste.
Oggi però lo stop al cemento sulle spiagge più belle d’Italia rischia di trasformarsi in un bel ricordo. Gli avvocati del Grig hanno già catalogato «ben 495 strutture turistico-ricettive della fascia costiera che potrebbero approfittare dell’articolo 31. Stiamo parlando di milioni di metri cubi di cemento in arrivo», rimarca Deliperi, evidenziando che il disegno di legge ha una portata generale, per cui si applica anche, anzi soprattutto alle strutture più contestate, quelle che si sono meritate l’epiteto di ecomostri. Come il residence-alveare “Marmorata” di Santa Teresa di Gallura, l’albergone “Rocce Rosse” a picco sugli scogli di Teulada, la fallimentare maxi-lottizzazione turistica “Bagaglino” a ridosso delle spiagge di Stintino, i turbo-hotel “Capo Caccia” e “Baia di Conte” ad Alghero e troppi altri. Il premio percentuale infatti non dipende dalla qualità del fabbricato, ma dalla cubatura: più l’ecomostro è grande, più è autorizzato a occupare terreno vergine con nuove colate di cemento.

Il progetto di legge, per giunta, equipara agli alberghi da allargare, e quindi trasforma in volumi gonfiabili di cemento, addirittura le «residenze per vacanze», sia «esistenti» che ancora «da realizzare», cioè quelle montagne di seconde case che restano vuote quasi tutto l’anno, arricchiscono solo gli speculatori edilizi, ma deturpano per sempre il paesaggio. Con la nuova dirigenza del Pd, insomma, il vecchio piano casa è diventato un piano seconde case, secondi alberghi e seconde lottizzazioni. E tutto questo in Sardegna, la regione-gioiello che tra il 2004 e il 2006 aveva saputo cambiare il clima politico e culturale sull’urbanistica, spingendo decine di amministrazioni locali di mezza Italia a imitare la legge Soru, fermare il consumo di suolo e limitare finalmente uno sviluppo edilizio nocivo e insensato.
Gianvalerio Sanna, l’ex assessore regionale oggi relegato a fare politica nel suo comune d’origine, ama parlar chiaro: «Questo disegno di legge è una vera porcata. La giunta del Pd sta facendo quello che non era riuscito a fare il governo di centrodestra. Le nostre norme, ancora in vigore, favoriscono con incentivi e aumenti di volume solo la demolizione e lo spostamento dei fabbricati fuori dalla fascia costiera dei 300 metri. Questo vale già adesso anche per gli alberghi e i campeggi. Per allargarli e rimodernarli con criterio non c’è nessun bisogno di cementificare le spiagge».
I dati sono allarmanti già oggi. «Le coste della Sardegna sono invase da oltre 210 mila seconde case: appartamenti sfitti, che mediamente restano disabitati per 350 giorni all’anno», enumera Sanna: «Il nostro obiettivo, condiviso da migliaia di cittadini che proprio per questo hanno votato Pd alle elezioni regionali, era di liberare dal cemento, gradualmente e armonicamente, tutta la zona a mare, che è la più preziosa. La nuova giunta sta facendo il contrario. L’edilizia è tornata merce di scambio: il piano casa, che fu giustificato da Berlusconi come rimedio eccezionale contro la crisi dell’edilizia, diventa la norma. La deroga diventa la regola. Così la politica si mette al servizio delle grandi lobby, degli interessi di pochi, a danno della cittadinanza e di tutte le persone che amano la Sardegna».
Quando allude a scambi, Sanna non usa parole a caso. Nella minoranza del Pd rimasta fedele a Soru sono in molti a evidenziare una singolare coincidenza: la controriforma urbanistica sta nascendo proprio mentre gli sceicchi del Qatar, i nuovi padroni miliardari della Costa Smeralda, annunciano l’ennesima ondata di progetti edilizi per super ricchi, per ora bloccati proprio dalla legge Soru. Per ingraziarsi la classe politica sarda, lo stesso gruppo arabo ha comprato dal crac del San Raffaele anche il cantiere fallimentare del nuovo ospedale di Olbia. E ora gli sceicchi sembrano aspettarsi che i politici, in cambio, aboliscano proprio i vincoli ambientali sulla costa.
«Con questa legge vergognosa il presidente Pigliaru sta contraddicendo anche se stesso», commenta amaramente Maria Paola Morittu, la combattiva avvocata di Cagliari che oggi è vicepresidente nazionale di Italia Nostra: «Per smentire la sua giunta, al professor Pigliaru basterebbe rileggere le proprie pubblicazioni accademiche, in cui scriveva e dimostrava che il consumo di suolo è disastroso non solo per l’ambiente, per il paesaggio, ma anche per lo sviluppo economico».
Carte alla mano, l’avvocata di Italia Nostra e il suo collega Deliperi passano in rassegna la successione di leggi edilizie della Sardegna, per concludere che oggi il Pd sardo sta facendo indietro tutta. La buona urbanistica insegna come e dove costruire case sicure in luoghi vivibili senza distruggere il territorio. In Italia se ne parla solo quando si contano le vittime evitabili di alluvioni, frane, valanghe, terremoti e altri disastri che di naturale hanno solo le cause immediate.

In Sardegna, dopo decenni di edilizia selvaggia, la legge Soru e il conseguente piano paesaggistico regionale – studiato da un comitato tecnico-scientifico presieduto da Edoardo Salzano, un gigante dell’urbanistica – hanno fissato per la prima volta due principi fondamentali: basta cemento a meno di 300 metri dal mare; solo edilizia regolata e limitata in tutta la restante fascia geografica costiera, che di norma si estende fino a tre chilometri dalle spiagge. «In campagna elettorale il Pd guidato da Pigliaru aveva promesso di estendere la legge Soru a tutta la Sardegna, obbligando anche i comuni interni ad applicare i piani paesaggistici», osservano desolati i due avvocati. Passate le elezioni, il vento è cambiato.
In Italia, prima della recessione, venivano cementificati a norma di legge oltre 45 milioni di metri quadrati di terra all’anno. Nel 2015, nonostante la crisi, si è continuato a costruire nuovi appartamenti e capannoni per oltre 12 milioni di metri quadrati (dati Istat). «Con la legge salvacoste la Sardegna ha saputo lanciare un nuovo modello di sviluppo sostenibile», rivendica Soru. Ora la grande retromarcia della giunta seduce le lobby dei grandi albergatori, che organizzano convegni esultanti contro «l’ambientalismo che danneggia il turismo». Resta però da capire se, alle prossime elezioni, la maggioranza dei cittadini sardi si fiderà ancora di un Pd che imita il berlusconismo, col rischio di riabilitarlo.


domenica 16 luglio 2017

Basta vivere di speranze smetto con la ricerca per vendere ricambi d'auto - Massimo Piermattei

Pubblichiamo un estratto della lettera con cui Massimo Piermattei, storico dell'Integrazione europea, ha dato l'addio alla ricerca e all'Università. Alla lettera è seguito su social network e siti specializzati un dibattito virale, che ha coinvolto centinaia di studiosi italiani e dall'estero, sullo stato di salute dell'università italiana e sulle difficoltà che incontra chi ambisce alla carriera accademica in Italia. (da Repubblica del 12-07-2017)

Ciao, sono Massimo. Ero uno storico dell'Integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l'Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto, inizierei così. Ma è solo la mia storia. La racconto, sì, anche a scopo terapeutico. Per me stesso, o forse non solo. Ho iniziato a studiare Storia dell'integrazione europea all'università, e fu un colpo di fulmine. Dopo il dottorato ho iniziato a farmi le ossa: un periodo all'estero, un assegno di ricerca, i contratti. Da allora ho scritto due monografie e più di 25 saggi e articoli in italiano e inglese; ho partecipato a seminari e convegni portando in giro per il mondo il nome dell'università per cui lavoravo. Ma non è di questo che voglio parlare. In questi giorni ho trovato la forza di portare a termine un percorso travagliato in cui mi dibattevo da anni. Ho sempre rinviato, nella speranza che qualcosa cambiasse. Ma la svolta non c'è stata, e la scelta si è fatta improrogabile: restare o andar via?

Noi siamo diversi Chi prova a entrare nell'Accademia conosce già le sue regole, scritte e (soprattutto) non scritte. Perciò nessuno può dire: "Io non sapevo". Si accetta liberamente, sperando che i finali amari riguardino gli altri: perché noi siamo diversi, o perché il merito, alla lunga, viene fuori. È vero, il sistema sa sedurti con mille promesse: contratti, pubblicazioni, convegni. Gli anni passano, e quando la speranza inizia a vacillare, ti ripeti: basta ingoiare ancora un po'. E giù appelli, seminari, lezioni gratuite: così l'ordinario di turno appalta gran parte delle ore che gli spettano e per le quali, tra l'altro, è pagato. Lui, non tu.

La costante riduzione di fondi per l'Università, unita alla crescente chiusura del reclutamento, ha fatto sì che i professori ordinari abbiano visto crescere in modo esponenziale il loro potere. Sono come un imperatore che decide, con un gesto del pollice: tu sì, tu no. Certo, ci sono le "lotterie" dei bandi nazionali ed europei, ma siamo appunto nel mondo del gratta e vinci. Le tante riforme varate per premiare il merito hanno finito per danneggiare solo i più deboli. E anche quello sul merito è un ritornello stucchevole: la scarsità di soldi e di posti scatena la guerra tra chi è dentro e chi è fuori e, ancor peggio, tra poveri.

Maestri e orfani Di fatto, per entrare hai bisogno di un "maestro" che ti aiuti a costruire un curriculum spendibile e di un "tutore" che ti faccia passare i concorsi, o comunque ti garantisca posizioni e risorse: due figure che spesso coincidono. Le eccezioni ci sono, ma confermano la regola, e permettono al sistema di giustificarsi: "Vedete? È tutto trasparente". Se non li hai, un maestro e un tutore, sei orfano, e per gli orfani non c'è futuro. Magari qualcuno ti aiuterà per un po', ma finisce lì. E io, da un po' di tempo a questa parte, ero orfano. Circondato da sorrisi al motto "non aderire e non sabotare", che è poi, alla prova dei fatti, un sabotaggio. Ma pilatesco, perché manca il coraggio di dirti: "Per te non c'è posto, fai altro".

Cosa può fare un orfano testardo che voglia comunque provare a costruirsi una carriera? Si dibatte tra i contratti d'insegnamento e le collaborazioni. I primi, in cambio dell'opportunità di tenere un piede dentro e farti chiamare "professore", garantiscono pochi soldi in cambio di un'enorme mole di lavoro (l'ultimo che ho avuto era di 1.500 euro lordi per 60 ore di lezione e una decina di appelli d'esame). Le seconde, oltre a essere tassate in modo clamoroso, portano via tempo ed energie. A perderci, naturalmente, è la ricerca. Il bisogno di soldi spiega tra l'altro la figura del "marchettaro", il fenomeno per cui uno studioso precario scopre un improvviso interesse per un argomento di cui non gli importa nulla, ma se lo studia gli danno 500 o mille euro. Spesso mesi o anni dopo la consegna del lavoro. Il tutto in un contesto umiliante, in cui si aspetta mesi un appuntamento cruciale. E chi sta dall'altra parte finge di non sapere che un intoppo burocratico può avere per te conseguenze devastanti: "Ti avevo detto che l'assegno non sarà rinnovato?".

La retorica della fuga Conosco il ritornello: si può sempre partire, no? Comprendo bene le ragioni di chi lascia l'Italia per l'estero, ma su questo punto ha preso piede una retorica imbarazzante. È passata l'idea per cui se lavori fuori sei bravo; se hai scelto l'Italia sei, come minimo, complice del sistema. Non c'è spazio per l'ipotesi che tu sia rimasto perché non potevi espatriare o per provare a cambiare le cose. Invece sarebbe bello raccontare anche le storie di chi dedica tempo ed energie alle università italiane. Che, se continuano a popolare il mondo di eccellenze, forse così male non sono. Certo, direte: chi non riesce a entrare può sempre giocarsi le sue competenze fuori.

Peccato che i formulari degli uffici pubblici propongano sempre le stesse laconiche opzioni: diploma, laurea, altro. Ecco cos'è il dottorato di ricerca per il mondo del lavoro e per le istituzioni italiane: altro. Un pezzo di carta. Un errore di gioventù. E cosa succede al "giovane" studioso che a quasi 40 anni non ha ancora una prospettiva? Semplice: si trova a un bivio. Se insiste con la carriera, sa che una famiglia la costruirà, forse, molto più in là. Se privilegia la famiglia, le opportunità di lavoro si riducono drasticamente. I figli, poi, una catastrofe.

Quanti sacrifici hanno fatto mia moglie e i miei due bimbi perché io potessi ancora tentare. Chi si occupa di discipline umanistiche è un orfano tra gli orfani. Nel discorso pubblico, ormai da anni, vale solo la "tecnica", la ricerca "vera". E la Storia? Roba per perditempo. Lo studio del passato è scomodo perché mette a nudo il presente, e poi non è pop, non è fatto di anglicismi, slogan, formule. Lungi da me il denigrare la scienza: viva le macchine! Viva i laboratori! (Da qualche settimana, per vivere, vendo ricambi d'auto). Ma il nostro rifiuto della Storia è vergognoso.

E ciò che soprattutto rimane inaccettabile è lo spreco di risorse di un'intera generazione. Quante persone ho incontrato in dieci anni; quanti talenti. Quanta rabbia nel vederli appassire.Oggi sono uno di loro. Me ne vado per dignità. Non rinnego quel che ho fatto, perché mi ha fatto crescere come persona e come uomo. Non è una resa, ma un issare le vele per tornare in mare aperto. "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede". Smetto quando voglio.