mercoledì 30 settembre 2015

L’orto comunitario di Berlino - Elena Chiocchia

Il Prinzessinnengarten è un orto urbano di circa 6.000 metri quadrati in pieno centro a Berlino, nel cuore di Kreuzberg (a Moritz Platz), nato nel 2009 dal progetto dell’associazione Nomadisch Grün (Verde Nomade) che ha riconvertito un luogo abbandonato in un polmone verde all’interno della città.
La zona dove è sorto il giardino era di proprietà pubblica ed è stata inizialmente noleggiata dal Fondo immobiliare Berlino. Nel giugno 2012, l’area doveva essere venduta al miglior offerente ma una lettera aperta al senato e il sostegno di più di 30.000 persone hanno impedito la privatizzazione. Attualmente il Prinzessinnengarten ha ottenuto l’estensione dell’utilizzo per ulteriori cinque anni.

Il nome dell’associazione (Verde Nomade) racchiude il concept del progetto: l’agricoltura mobile. Infatti le piante ornamentali, gli ortaggi e le erbe aromatiche vengono coltivati in cassette di plastica, in cartoni del latte o in sacchi di riso in modo tale che tutto sia facilmente trasportabile in altri angoli della città e le eventuali contaminazioni degli inquinanti con il suolo vengano evitate. In questo modo da un primo orto urbano si possono creare altre aree di coltivazione urbana.

Come organizzazione non-profit, la Nomadisch Grün ha iniziato con la “guerrilla gardening” trasformando terreni inutilizzati in giardini dove coltivare biodiversità come strumento di interazione sociale.
L’obiettivo dell’associazione era quello di creare un luogo di scambio e di apprendimento sui temi della coltivazione locale e biologica degli alimenti, sulla biodiversità (nel Prinzessinnengarten sono state impiantate cinquecento differenti tipi di colture), sul consumo sostenibile e sullo sviluppo urbano.

L’idea del giardino si è espansa diventando qualcosa di più complesso: all’interno di questo ampio giardino sono stati aperti infatti una caffetteria che propone bevande biologiche e un ristorante dove alla base delle ricette ci sono i prodotti freschi coltivati nell’orto stesso. Ci sono inoltre un’area per le api, unazona gioco sugli alberi, un piccolo circo, un mercatino delle pulci (Kreuzboerg Flowmarkt) e una biblioteca sulla sostenibilità ricavata all’interno di un container (per restare in linea con l’agricoltura dinamica).

Chiunque può diventare giardiniere a Prinzessinnengarten (il giovedì dalle 15 alle 18 e il sabato dalle 11 alle 14) e per gli inesperti sono numerosi anche iworkshop a cui partecipare per saperne di più. Altrimenti sarete i benvenuti aifestival, i concerti e le mostre che soprattuto in estate animano l’orto urbano considerato il più bello al mondo.

Il funzionamento del giardino dipende esclusivamente dal volontariato e dalle donazioni. Se volete contribuire alla causa potete farlo donando anche una piccola quota sul sito a questo link.
Oggi la storia di questo felice progetto è racchiusa in un libro che ben racconta tutti gli sforzi che sono stati necessari alla realizzazione di questo sogno.

domenica 20 settembre 2015

Nutrire le comunità, curare il mondo - Marco Dotti

«La nostra idea fissa della crescita economica e il sistema di valori ad essa sotteso hanno creato un ambiente fisico e mentale in cui la vita è diventata estremamente malsana». Eppure, prosegue Fritjof Capra, nemmeno l’idea opposta, quella di decrescita sembra in grado di accompagnarci verso quel «salto di paradigma» che l’odierno contesto di recessione globale rende non solo auspicabile, ma necessario. L’economia, osserva Capra, è solo un aspetto di un tessuto ecologico e sociale complessivo nel quale si sta facendo largo una nuova visione d’insieme che, a dispetto di cifre, rating e disavanzi di bilancio, oppone una «qualitative growth» – una crescita qualitativa – ai troppi numeri che «vorrebbero imbrigliare la vita» in schemi e grafici. Fisico teorico, studioso di teoria della complessità, Capra è fortemente critico nei confronti di ogni “parcellizzazione” e “settorializzazione” del sapere.
Oggi il pensiero economico sembra arrivato a quel «punto morto» che lei descriveva in uno dei capitoli più forti di un suo libro pubblicato esattamente trent’anni fa, Il punto di svolta. [NOTA1] Che cosa è cambiato da allora e perché la svolta («turning point») avvenuta nella fisica all’inizio del XX e tanto attesa in questo inizio di XXI ancora non si è ancora verificata?
The Turning point venne pubblicato nel 1982 e la sua elaborazione mi prese quasi cinque anni, dal 1978 al 1981. Molte cose discusse e, in un certo senso, preconizzate in quel libro si sono poi verificate, ma il punto di svolta non è avvenuto. In questi anni mi sono chiesto molte volte la ragione. Nel 1989 tutto sembrava propendere per un cambiamento globale, invece… Ci siamo andati vicini, abbiamo visto sorgere una società civile globale, in particolare a Seattle, in occasione della manifestazioni di protesta (ma non solo di protesta) contro il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization). Il 30 novembre 1999, più di cinquantamila persone, appartenenti a settecento organizzazioni non governative presero parte a una protesta pacifica e costruttiva che ha comunque cambiato per sempre l’orizzonte politico della globalizzazione. Però la storia non segue un corso lineare, avanza in maniera caotica e ci sorprende sempre. La diffusione delle nuove comunicazioni e il pieno sviluppo di quella che Manuel Castells chiama «società informazionale» (network society) hanno cambiato il contesto, mutando però anche la nostra consapevolezza. Hanno però anche dilatato i tempi della svolta. Una svolta che, ora, sembra nuovamente prossima ad arrivare.
La rapida consultazione di un qualsiasi dizionario basterebbe a ricordarci che “crisi” significa “separazione, scelta, giudizio”, capacità di cogliere nuove sfide, abbandonando vecchi schemi di pensiero. Qual’è dunque la sfida che ci pone la crisi che, dalla Grecia a New York, sembra non lasciare tregua al mondo?
La sfida principale è tutta nel capire “come” passare da un sistema ancora improntato su un’idea di crescita illimitata a un altro che preveda un livello ecologicamente sostenibile e socialmente oltre che economicamente equo. La nostra crisi inizia quando sbagliamo il sistema di referenza e avanziamo smarriti come su un territorio di cui possediamo la mappa, ma una macchia precocemente invecchiata. Per quanto attiene la sfida, occorre un passaggio, una svolta appunto. Ma per compiere questo passaggio, non basta dire “no” alla crescita o auspicare meno industria, meno consumi, meno tutto. La crescita è infatti una caratteristica fondamentale della vita e, di conseguenza, anche della società e dell’economia. Non c’è vita senza crescita e chi non cresce è destinato, prima o poi, a soccombere. Dobbiamo però intenderci sul concetto di crescita e, come fisico, devo subito osservare che in natura essa non è mai un concetto lineare. Anzi, in un ecosistema c’è sempre un gioco di compensazioni che porta all’equilibrio: qualcosa cresce, qualcosa d’altro decresce, ma soprattutto si arriva a una crescita qualitativa che aumentare la complessità e la maturità dell’ecosistema stesso. Questo tipo di crescita non lineare, sfaccettata e multiforme è ben nota ai biologi e agli studiosi delle cosiddette scienze naturali, mentre pare ancora lontana dall’essere accolta dagli scienziati sociali, impregnati come sono di un meccanicismo cartesiano oramai fuori luogo e fuori tempo massimo. La nostra è una cultura ancora troppo frammentata, divisa tra infiniti specialismi: il riduzionismo consiste proprio in questa disposizione culturale volta a ridurre interrelazioni tra fenomeni complessi a elementi base da studiare solo e soltanto in base ai meccanismo attraverso i quali interagiscono. È una visione ristretta del mondo alla quale, purtroppo, spesso si attribuisce l’etichetta del tutto fuori luogo di “metodo scientifico”. L’attuale crisi finanziaria globale ha reso ancor più evidente che i maggiori problemi del nostro tempo – energia, ambiente, cambiamento climatico, sicurezza alimentare e la sicurezza finanziaria – non possono essere compresi separatamente. Sono problemi sistemici, il che significa che sono interconnessi e interdipendenti. Proprio per uscire da questo schematismo, alla crescita e al suo corrispettivo, parimenti riduzionista di decrescita misurate dal Pil e dal consumo pro capite opporrei la visione di una crescita qualitativa e non-lineare, basata sulla qualità della vita e sulle relazioni. Siamo vicini al punto di svolta. [NOTA 2]
Le nuove tecnologie hanno un ruolo ambivalente, in questa crisi. Aumentano la velocità di circolazione di denaro e titoli, ma al tempo stesso favoriscono la nascita di inedite solidarietà tra chi rivendica un modello di sviluppo diversamente partecipato e sostenibile…
Partiamo da una data: il 1989. Con la caduta del Muro di Berlino. la crisi si è intensificata a tutti i livelli, ecologico, economico e sociale, ma il sistema ha sostanzialmente retto, anche perché le nuove tecnologie hanno dato vita a un nuovo materialismo fondato sul diktat edonistico “consumo, dunque sono” dando così a tutti l’illusione di partecipare in base alla propria capacità di acquisto. Oggi, venuta meno questa possibilità di inclusione attraverso il consumo, chi non può più consumare, comincia a chiedersi come ripartire, come partecipare, come fare rete. Al tempo stesso, infatti, queste nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso la costituzione di reti di solidarietà orizzontale e di un pensiero non più lineare – la rete è, appunto, proprio questo: pensiero che si lega e interconnette in forma non convenzionale. Oggi c’è una nuova energia, un movimento civile globale che passa dall’occupazione di Wall Street alle proteste di piazza a un movimento di uscita dal nucleare che non è puramente ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo. Un’economia in senso stretto dovrebbe uscire dall’ossessione istituzionalizzata della finanza. Questa ossessione è tutt’uno con la velocità: pensiamo al fatto che se, storicamente, gli scambi umani hanno sempre subito una certa frizione e un certo attrito – i trasporti via terra o via mare potevano subire ritardi di ogni tipo – oggi grazie alle nuove tecnologie di comunicazione la finanza ha velocizzato i processi di scambio annullando lo spazio tra azione e reazione. Al tempo stesso, però, queste nuove tecnologie hanno permesso il diffondersi di una consapevolezza altamente globalizzata, ma al tempo stesso localizzata nella necessità di azione. Il pensiero deve essere globale, ma l’azione non può prescindere dalla concretezza del locale. Il vecchio motto di Jacques Ellul, «pensa globalmente, agisci localmente» ha oramai preso corpo.
Un nuovo attrito potrebbe essere prodotto da un’economia non monetaria, improntata sul valore anche simbolico del dono e sul recupero di un tempo più consono alle nostre vite?
Certamente. E una cosa che ritengo importante è il ritorno alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano particolarmente il nostro tempo di crisi, dando ad esso una speranza nuova. Una ragione è legata alla sostenibilità, che non è una proprietà dell’individuo di una specie. È proprietà di una comunità ecologica o di una comunità sociale. Se studiamo la vita, possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una serie di princìpi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire che la natura sostiene la vita formando e nutrendo comunità. Se vogliamo sostenere la vita, noi dobbiamo fare la stessa cosa: nutrire le comunità. In una comunità troviamo piacere nelle relazioni umane. Dobbiamo tornare alle relazioni umane, nutrirle, svilupparle. Dobbiamo sognare un’economia informale basata sulla reciprocità, sul dono, su quella shadow economy che, nascosta dalle statistiche ufficiali, permette a uomini e donne di aiutarsi, di sentirsi meno soli, di assistersi, di parlarsi, di avere cura di sé, avendo cura degli altri. La crescita qualitativa di cui parlavamo all’inizio passa proprio da qui: dall’aver cura di sé, dall’aver cura degli altri, dall’aver cura del mondo.
(*) intervista pubblicata (nel dicembre 2014) su «Tysm», con il titolo originale «Nutrire la comunità. Dialogo con Fritjof Capra» e ripresa di recente da «Comune-info» dove Capra è presentato così. Fisico e teorico dei sistemi, direttore del Center for Ecoliteracy di Berkeley, in California. Il suo campo di ricerca si estende dai fondamenti della fisica teorica alle implicazioni socio-filosofiche della scienza moderna. Fra i suoi libri: «Il Tao della fisica», Adelphi, 1982; «Il punto di svolta», Feltrinelli, 1982; (con Charlene Spretnak); «La politica dei verdi. Cultura e movimenti per cambiare il futuro dell’Europa e dell’America», Feltrinelli, 1986; «Verso una nuova saggezza. Conversazioni con Gregory Bateson, Indira Gandhi, Werner Heisenberg, Krishnamurti, Ronald David Laing, Ernest F. Schumacher, Alan Watts», Feltrinelli,1988; (con David Steindl-Rast); «L’universo come dimora. Conversazioni tra scienza e spiritualità», Feltrinelli, 1993; «La rete della vita», Rizzoli, 1997; «La scienza della vita», Rizzoli, 2002; «La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo», Rizzoli, 2007.

sabato 19 settembre 2015

quando Shira era felice con Tandu

È uno strazio vedere Shira aggirarsi tenendo in braccio il suo cucciolo senza vita. La gorilla dello zoo di Francoforte non si rassegna alla morte del suo piccolo, e da una settimana lo tiene sempre con sé perché non riesce ad accettarne la fine prematura e improvvisa. Era già accaduto a Shira di perdere un cucciolo, e anche la volta precedente lo aveva abbracciato per giorni, prima di abbandonarlo tra le rocce. Gli operatori dello zoo tedesco ora aspettano che la gorilla si rassegni alla perdita e riesca a staccarsi dal corpicino, anche se gli esperti avvertono:  "Le mamme di questa specie arrivano a vegliare i loro morti anche fino alla decomposizione dei corpi.






martedì 15 settembre 2015

Perché la desertificazione ci riguarda - Annamaria Testa

Anna Luise ha gli occhi azzurri dietro gli occhiali con la montatura colorata e lo sguardo aperto. È napoletana e, nonostante viva a Roma, quando si accalora il suo accento rotondo viene fuori. È un’esperta di desertificazione e lavora per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Ce l’ho di fronte e la sto intervistando.
Di cosa si occupa esattamente?
Mi occupo di lotta alla desertificazione. Che non riguarda, come molti credono, i deserti, ma i territori fertili che perdono la loro produttività biologica e diventano inadeguati a sostenere la vita e a far crescere prodotti agricoli.
Quali sono le conseguenze?
La desertificazione fa perdere ad amplissime porzioni di territorio il loro valore economico, estetico, socioculturale e religioso.
Un territorio può avere un valore religioso?
Il caso tipico è quello di Uluru (Ayers rock) in Australia. Ma anche nelle religioni animiste africane molti territori sono considerati aree sacre e la loro distruzione ha ricadute drammatiche sulle comunità perché ne scardina i valori. Da noi, molti territori hanno grande rilievo non religioso ma socioculturale: se vengono distrutti, l’impatto può risultare ugualmente grave.
A cosa serve studiare la desertificazione?
Dobbiamo capire come conservare l’equilibrio degli ecosistemi. Se questo è pregiudicato, la qualità della vita di tutti noi peggiora. La desertificazione è provocata da due categorie di fenomeni: gestione non sostenibile del suolo e cambiamenti climatici.
Lottare contro la desertificazione vuol dire promuovere pratiche agricole sostenibili, che impediscano per esempio al suolo di compattarsi o di avere tassi di salinità troppo alti, e aiutino a tenere sotto controllo l’erosione eolica e idrica, provocata dalla forza del vento e dell’acqua che dilava e corrode lo strato superiore fertile del terreno.
Cioè, è tutto un problema di suolo troppo duro?
Troppo duro, o troppo fragile e non coeso. Il suolo reso fertile dai microrganismi è profondo in media trenta centimetri. Se diventa duro come il cemento o se, al contrario, si sgretola e diventa polvere, quando piove, ammesso che piova, non riesce a bagnarsi a sufficienza perché l’acqua, non trattenuta, se ne scivola via. Così il suolo smette di essere produttivo.
Quindi la sopravvivenza alimentare del genere umano è legata a una buccia di terra della giusta consistenza e profonda trenta centimetri?
La profondità può variare, ma la media è questa. È abbastanza impressionante. Il suolo è stato definito “la pelle della nostra terra”: è il luogo dove si verificano gli scambi biochimici che permettono alle colture di crescere.
Quando si è cominciato a parlare di desertificazione, e quando a cercare di contrastarla?
La desertificazione è un fenomeno lento e non sappiamo bene quando sia cominciata. Se ne è parlato per la prima volta nel corso della conferenza di Stoccolma del 1972, che ha lanciato l’idea di sviluppo sostenibile, cioè di equilibrio tra società, economia e ambiente. La prima decisione politicamente importante è stata presa nel 1992 a Rio de Janeiro, con una convenzione delle Nazioni Unite (Unccd) entrata in vigore nel 1996, fortemente voluta dai paesi africani soprattutto dell’area maghrebina e subsahariana per i quali la desertificazione è una diretta minaccia alla sopravvivenza. L’Italia ha aderito nel 1997. Oggi aderiscono 198 paesi.
Quanto pesa globalmente il rischio di desertificazione?
Diciamo che nel mondo il suolo fertile è il 75 per cento delle terre emerse. Di questo 75 per cento, almeno il 40 per cento è variamente degradato, anche perché è inquinato o contaminato, e si trova in gran parte nelle zone aride o semiaride: non stiamo, lo ripeto, parlando di deserti, ma di zone in cui l’acqua c’è ma è scarsa.
La desertificazione è definita come il livello estremo del degrado del suolo, ed è, insieme al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità, uno dei tre grandi fattori di rischio di rottura dell’equilibrio ecosistemico. E quando si rompe un equilibrio così complesso, mica lo sappiamo quali possono essere le conseguenze: le variabili sono talmente tante che, come si dice in fisica, il sistema diventa caotico e del tutto incontrollabile.
Qui in Italia abbiamo rischi seri di desertificazione, o possiamo preoccuparci del solo cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico aggrava la desertificazione perché fa crescere le temperature e altera il regime delle acque: teniamo presente che il Mediterraneo è considerato un hot spot, cioè un punto di particolare intensità dei cambiamenti climatici.
Circa il 20 per cento del nostro territorio nazionale è già stato riconosciuto come interessato da fenomeni di desertificazione tra il 1961 e il 2000, e un altro 20 per cento è a rischio di desertificazione nel giro dei prossimi venti o trent’anni. Nelle nostre regioni meridionali, ma anche in aree dell’Emilia Romagna, delle Marche o del Molise, i segni di desertificazione sono già evidenti. E non dimentichiamo che nel suolo “sano” è conservato il carbonio organico.
… cioè?
Il suolo contiene il doppio dell’anidride carbonica che troviamo nell’atmosfera, il triplo di quello che troviamo nei vegetali. Il soil organic carbon potrebbe mitigare i cambiamenti climatici dovuti all’eccesso di emissioni di anidride carbonica sequestrandola. Ma questo avviene, appunto, se il suolo è “sano”, e non eccessivamente sfruttato dall’agricoltura intensiva.
Come se ne esce?
Se ne esce facendo ricerca, sperimentazione ed educazione ambientale. Attivando politiche locali, regionali e nazionali: vuol dire, per esempio, razionalizzare l’uso delle risorse idriche, oppure riforestare. Oggi stiamo andando nella direzione dell’agroecologia: un’agricoltura che esercita meno pressione sul suolo impiegando meno fertilizzanti e passando, per esempio, da cinque a due raccolti di grano all’anno. Tra l’altro, qui in Italia avremmo mille buoni motivi per passare da un’agricoltura di quantità a un’agricoltura di qualità.
Che cosa può fare un singolo cittadino che si proccupa per la desertificazione?
Non dimentichiamo che i singoli individui indirizzano il mercato, per esempio comprando prodotti di stagione e prodotti locali: non pretendere di mangiare i peperoni a Natale è già qualcosa, perché evita che porzioni di territorio siano coperte da serre, in cui si usano troppi fertilizzanti e il terreno è eccessivamente sfruttato e danneggiato. E poi non bisogna stancarsi di fare opera di divulgazione e sensibilizzazione: è quello che stiamo facendo proprio adesso.

lunedì 14 settembre 2015

Quel che mi fai mangiare, mica me lo dai a bere! - Pietro Ratto

Scatolette ammaccate, pacchi e pacchetti sgualciti, banane sempre un po’ verdastre, pomodori sospettosamente rubicondi, verniciati di fresco… Sfilano tutti così, davanti ai miei occhi, spintonandosi l’un l’altro, tutti i prodotti variopinti e chiassosi che mi sono trascinato fin sul nastro trasportatore. Che inesorabile, li spinge dritti dritti nelle sapienti mani dell’annoiata cassiera di turno, ad uno ad uno marchiati da un inesorabile beep. Ha la tessera? Servono sacchetti?  Due. Anzi: tre, grazie! La solita routine della spesa al supermercato, insomma..
Poi, improvvisa, fa il suo ingresso la “novità”. Voce impostata, finta cortesia da vero commerciante: ecco i buoni! Li consegni pure alla segreteria della scuola di suo figlio. Serviranno a comprare le attrezzature didattiche necessarie..
E così che, come per magia, le lavagne e i registri, le apparecchiature per i laboratori, i computer.. tutte le cose di cui, da tanti anni, soffriamo la mancanza, ora compariranno magicamente nelle nostre aule. Pagate dal mio affezionato supermercato!
Lo sapevo già, è inutile fingere.. Nell’ultimo collegio docenti, a giugno, un dirigente scolastico insolitamente imbarazzato aveva accennato all’eventualità di avvalersi di questi finanziamenti privati. La risposta di molti insegnanti, però, si era rivelata ancora più sconvolgente della sua timida proposta, superando ogni sua aspettativa:ma perché mai abbiamo aspettato finora?
Mia moglie li afferra un po’ incerta, li ficca rapidamente in borsa guardandomi con serietà. Sa fin troppo bene cosa penso, lei, di tutta ‘sta storia. Perché in effetti, c’è poco da dire. Possibile che nessuno si renda conto del pericolo che incombe? Che nessuno intuisca come queste aziende, che ormai così prepotentemente entrano in settori pubblici “delicati” come quelli della Sanità o della Scuola, costituiscano un rischio enorme per quel che resta della nostra democrazia, per le pari opportunità e la libertà delle persone? I signori X fanno più spesa dei genitori di Y perché se lo possono permettere. Dunque, contribuiscono di più al miglioramento della scuola. Trattatemelo bene, il loro figliolo! Con un occhio di riguardo, mi raccomando! Se il nostro istituto adesso ha un laboratorio di Scienze, è più merito loro, che dei signori Y, che – da pezzenti – si servono al Discount. No? Possibile che non ci si chieda cosa spinga Coop o Esselunga a finanziare le scuole? Quali obiettivi di profitto? E con quali soldi? Non vien da pensare che quei buoni scuola saltino fuori da un generalizzato ritocco all’insù dei prezzi? Non vien da riflettere sul fatto che, quindi, le nostre scuole le si stia ristrutturando noi, da bravi “cittadini-consumatori”? Con tutte le tasse che paghiamo per godere di un servizio pubblico “gratuito”, con tutti i ticket sanitari che aumentano di giorno in giorno, con le centinaia di euro di contributo volontario obbligatorio che siamo subdolamente costretti a pagare quando iscriviamo a scuola i nostri figli, con tutto ciò, voglio dire, le nostre aule e i nostri ospedali li stiamo rattoppando coi soldi che ogni giorno spendiamo, facendo la spesa. No?
Li sento già, tutti quanti, gridare al complottista.. Ma che problema c’è? Non è stato proprio il Ministero a dichiarare che i soldi pubblici non basteranno mai a provvedere al fabbisogno della scuola? E allora meno male che ci pensa la Coop, no?
Siamo davvero sicuri che i soldi privati facciano così bene al “pubblico” ed alla collettività? Qualche settimana fa mi sono avventurato nella lettura di The China Study. Dirompente, impressionante! Uno studio capillare, monumentale, fondato su decine di migliaia di dati empirici, che dimostra come le proteine animali in eccesso (a differenza di quelle vegetali) possano esercitare un ruolo determinante nella proliferazione dei tumori. Dieta vegana, ecco l’unica vera, efficace risposta. E non solo al tumore: al diabete, alle malattie auto-immuni, alla leucemia.. Colin Campbell, lo scienziato che così diligentemente, così coraggiosamente, ha condotto gli studi di cui parla nel suo importante saggio, si dilunga proprio sull’influenza che, in America, le case farmaceutiche e le aziende alimentari esercitano sulla ricerca scientifica, sulla formazione dei medici e l’educazione alimentare e sanitaria dei cittadini, sulle teorie nutrizioniste a cui la gente quotidianamente si affida. Risultato? Tutte le sue ricerche boicottate alla grande, a fronte di un continuo lavaggio del cervello dell’opinione pubblica: la carne fa bene, il latte fa bene, una dieta esclusivamente vegetariana non è sufficiente al nostro fabbisogno quotidiano, ecc. La teoria Campbell, insomma, non fa bene. Soprattutto ai bilanci delle multinazionali. Non fa bene a Coca-Cola, a Nestlè,a Mac Donald, ai grandi produttori di carne..
E’ davvero tutta una questione made in USA?
Il 30 marzo scorso Fabio Volo, a Radio Deejay, proprio citando Campbell ha avuto l’ardire di sostenere: il latte fa male. Ha detto proprio così, Volo, collegando il consumo di caseina alla progressione del cancro, così come Campbell sostiene. Ebbene, in men che non si dica si è trovato addosso il Presidente di Assolatte Giuseppe Ambrosi, che ha minacciato querele milionarie alla direzione, con conseguente dietrofront dello stesso dj: Ambrosi, ti prego, ho un bimbo di un anno e mezzo, una donna incinta, ci ho messo tanto a comprare quella casetta… ti do la possibilità di chiamare qui in diretta, così non solo rettifico che non è vero che il latte fa male, ma tu puoi intervenire e mi insegni anche qualcosa..
Come vanno, allora, le cose da noi? Come funziona l’educazione alimentare nelle nostre scuole? Chi sta dietro la cosiddetta Educazione alla Salute da qualche anno così in voga nei nostri istituti pubblici?
Ebbene, sappiate che in prima linea nell’educazione scolastica ad una sana alimentazione risulta esserci una Fondazione chiamata Food Education Italy. Nel 2011, istituendo il Comitato Tecnico Scientifico Scuola e Cibo, il MIUR ha di fatto affidato a questo gruppo, affiancato da altri esperti, l’Educazione alimentare nella Scuola statale. All’interno del Comitato Scuola e Cibo possiamo trovare noti nutrizionisti, a cominciare dalla Presidente FEI Evelina Flachi, docente di Nutrizione per il benessereall’Università di Milano, nonché partecipante al “Tavolo dell’Educazione Alimentare“ della CARTA DI MILANO per EXPO (avevate qualche dubbio?) e membro del Tavolo EXPO SALUTE e del Tavolo EXPO AGROALIMENTARE. Ma tra un tavolo e l’altro, si muovono anche imprenditori come Riccardo Garosci, Forza Italia, già consigliere delegato di Federdistribuzione (nel cui comitato esecutivo spiccano, tra gli altri, marchi come Carrefour, Bennet, Pam, Selex, Esselunga e Auchan), attuale presidente della Commissione ministeriale per l’educazione scolastica alimentare, sì, ma anche ai vertici – così come tutta la sua potente famiglia, un tempo titolare dei supermercatiVèGè, poi venduti a Carrefour – della Casa editrice Largo Consumo (ex Cash and Carry), che pubblica l’omonima rivista di alimentazione. Troppi interessi in gioco, pensate? Che dire allora di Giorgio Antonio Arturo Donegani, che di Food Education Italy è l’ex presidente, ma che attualmente è membro dell’Osservatorio Nestlé  (laNestlè, sì: proprio lei; quella delle ripetute infrazioni al codice alimentare dell’OMS, quella che nel 2002 ha addirittura fatto causa all’Etiopia, uno dei Paesi più poveri del mondo, chiedendo un risarcimento di 6 milioni di dollari), nonché del comitato scientifico di Wise Society, magazine diretto dall’editrice Antonella Di Leo, proprietaria di Life Solutions Wisdom ma anche ex direttore marketing della Edilnord(sì, avete capito bene: la mitica società immobiliare di Berlusconi!), attualmente alla guida del settore marketing del Gruppo Paolo Berlusconi e già account supervisor diLivraghi, Ogilvy & Mother, una tra le più grandi agenzie pubblicitarie del mondo, che tra i suoi clienti vanta (ma dai?) Coca-Cola e Nestlé. E’ questo, insomma, il Comitato scientifico che dovrebbe insegnare ai nostri ragazzi, in maniera “indipendente”,  il corretto modo di alimentarsi? Certo, vi fanno capolino autorevoli esperti come il nutrizionista Paolo Paganelli, ma anche nomi di studiosi forse un po’ meno “disinteressati”, come Cristiano Federico Sandels Navarro, professore universitario ma anche project & business manager presso il Gruppo Gate14 (che si occupa anche di ristorazione), di proprietà dell’imprenditore Mauro Cervini, il quale, tra i molti incarichi, ricopre anche quello di amministratore delegato del Gruppo Montenegro (in mano alla potente Simonetta Seragnoli), che oltre a produrre il noto amaro, controllaBrandy Vecchia Romagna, Olio Cuore, Camomilla Bonomelli, Thé Infré, Polenta Valsugana, Pizza Catarì, Spezie ed Erbe Aromatiche Cannamela. E c’è Francesco Leonardi, dietista ma anche membro del CdA di ADI Onlus, società legata a doppio filo (e ci risiamo) con l’Osservatorio Nestlè. O la partecipante onoraria Anna di Vittorio, insegnante e ricercatrice, ma anche scrittrice di un sacco di testi sull’alimentazione rigorosamente editi dalla Coop. Libri come: Educazione al consumo consapevole: le proposte Coop, uscito nel 1998. Per non parlare di chi figura tra i “Donors” della nostra FEI. Come non notare, ad esempio, la presenza dell’Abbott Laboratories, il colosso farmaceutico di Chicago che ha sedi e stabilimenti in tutti i continenti e che tre anni fa è finito alla sbarra, costretto a sborsare 1,6 miliardi di dollari (comunque non più del 4% del suo bilancio annuale), per aver commercializzato l’antiepilettico Depakote, risultato poco efficace ma, soprattutto, rischioso per la salute?
I soldi privati nella cosa pubblica? Un problema enorme, altroché! Perché mai uno Stato sovrano (ma è proprio questo il punto, no?) dovrebbe delegare alle multinazionali il finanziamento della sua Istruzione o della sua Sanità? Perché non può sovvenzionare direttamente questi delicati settori? (Come dite? “Perché dovrebbe poter esercitare una sovranità sulla propria moneta”?.. Bingo! L’hanno studiata bene, la cosa, no?) Perché uno Stato non può avvalersi di studiosi indipendenti (nutrizionisti, dietisti, ricercatori, scienziati..), svincolati da qualunque contratto o interesse economico nei confronti di aziende private? Un’industria deve far profitti, no? Anche a costo della salute, della verità scientifica, dell’autonomia della ricerca e dell’insegnamento.. Sarà mica per questo che anche i nostri ospedali, le nostre scuole, sono ormai Aziende?
Ma torniamo ancora alla nostra FEI, al Comitato Scuola e Cibo e all’Educazione alimentare a scuola.
Ecco: i protocolli d’intesa, per esempio.. Vediamo un po’.. Ne sono stati firmati molti, per la questione dell’educazione alimentare a scuola, in questi anni.. Con la Coop(l’ultimo nel 2010, siglato dalla Gelmini, ministro di un governo che diceva peste e corna di quelle Coop con cui, evidentemente, non disdegnava fare accordi); conConfindustria, con Expo 2015, con Barilla (ma daiii!).. Ma nel 2011, quando nascono leLinee guida per l’Educazione alimentare nella scuola italiana, con chi lo stipula ilprotocollo d’intesa la Gelmini, per dare il via al suo Progetto Scuola e Cibo? Ma conFederalimentare, no? Quella presieduta da Luigi Pio Scordamaglia, amministratore delegato di INALCA, società leader in Europa nel settore delle carni bovine (fatturato da 1,3 miliardi di euro) di proprietà del Gruppo Cremonini, nonché vicepresidente diAssocarni e membro del Consiglio di Amministrazione dell’IMS, l’Associazione Mondiale della Carne. Scordamaglia, manco a dirlo, è stato anche consigliere del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali per quanto attiene le politiche agroindustriali, con i ministri Gianni Alemanno, Paolo De Castro e Luca Zaia. E che tipo di consigli poteva dare costui ai vari ministri? Incentivare la produzione di soia?
Detta di passaggio, oltre che Federalimentare quel protocollo coinvolge ancheAssolatte (il cui presidente, come abbiamo visto, è quel signore pronto a denunciare chiunque sostenga che il latte fa male), Assobibe, Aidepi, Assocarni..
Un bel pasticciaccio, insomma. L’apoteosi del conflitto d’interessi. E noi lì ad aspettar per anni che risolvessero il problema Berlusconi premier/Berlusconi imprenditore?!Ma questi ci sguazzano, ormai, in roba di questo tipo!
Nel suo The China Study Campbell spiega chiaramente come, nel corso delle sue sperimentazioni, egli abbia riscontrato che le proteine animali (presenti nella carne, nelle uova, nei formaggi..), possono essere usate come una specie di interruttore: le inserisci nella dieta e il tumore avanza; le sospendi e il tumore si arresta. E, in molti casi, recede. Ora, mi chiedo: cosa se ne fa, uno Scordamaglia, di un tipo come Campbell, a parte una bella porzione di carne tritata all’albese? Come possiamo aspettarci che una ricerca come quella dello scomodo scienziato americano (che, per inciso, si avvale di una caterva di studi precedenti in perfetta linea con quanto sostiene), possa anche solo esser presa in considerazione da associazioni ed aziende come quelle a cui il MIUR si affida per educare i nostri ragazzi ad una giusta alimentazione? Come potrebbe essere vagliata in modo scientifico e indipendente, da questi signori, l’opportunità di insegnare ai nostri figli a consumare meno carne, latte e formaggi, qualora Campbell avesse davvero ragione? E che speranza abbiamo di veder soddisfatto il nostro diritto di capire, chiaramente e incontrovertibilmente, se studiosi come lui abbiano ragione oppure no? Il nostro diritto a non ammalarci, accidenti! Chi ci può aiutare davvero a comprendere, insomma, quale sia l’alimentazione più corretta e sana da adottare per noi e per i nostri figli, se ad insegnarlo a scuola sono proprio quegli stessi individui che con il cibo – soprattuttocerto cibo – costruiscono i loro giganteschi imperi finanziari?
Abbiamo ancora una possibilità di accedere alla verità, nell’era dell’informazione?

venerdì 11 settembre 2015

Era una fredda sera dell’inverno del 1941, la commovente storia di Fido



Era una fredda sera dell'inverno 1941 quando Carlo Soriani sentì un guaito.... L'operaio stava tornando da San Lorenzo alla sua casa nella frazione di Luco quando nel greto di un torrente trovò un cucciolo ferito. Lo portò a casa e divenne il suo cucciolo. Il piccolo cagnolino Fido non era bravo a caccia e non sapeva neppure fare la guardia, ma ogni mattina alle 5,30 svegliava il padrone per accompagnarlo alla corriera, poi lo salutava e faceva ritorno a casa. Aspettava paziente per tutto il giorno che arrivasse la sera per ritornare lì, in piazza, ad attendere l'arrivo il padrone. Alcune volte Carlo Soriani per fargli uno scherzo, non scendeva dalla corriera. Fido, dopo qualche minuto, correva a cercarlo e lo trovava lì, nascosto dietro un sedile. Tutto questo durò due anni, fino alla sera del 30 dicembre, quando le bombe distrussero la fabbrica dove lavorava Soriani.
Fido, come sempre fedele al suo appuntamento, era lì ad aspettare anche quella sera. Gli operai scesero in silenzio, con facce pallide... Fido esaminò uno ad uno tutti i viaggiatori poi saltò sulla corriera e invano cercò fra i sedili Carlo Soriani. Tornò a casa da solo e la famiglia Soriani capì che Carlo non sarebbe più tornato.
Da quel giorno, nella piazzetta di Luco, tutti cominciarono a notare questo cane che aspettava.... Da allora, puntualmente, ripeté ogni pomeriggio per quasi quattordici anni questo suo viaggio da casa alla piazza. Il giorno lo passava sul cocuzzolo davanti a casa, con il naso in su, rivolto verso Borgo San Lorenzo. Anche negli ultimi anni di vita, quando le zampe non lo sorreggevano più, con gli occhi annebbiati, le orecchie ciondoloni, era sempre lì ad aspettare.
Il sindaco di Borgo ordinò che Fido fosse esentato dalla tassa sui cani e che potesse circolare liberamente senza museruola. Il 9 novembre 1957 il cane venne premiato con una medaglia d'oro, durante una cerimonia in Comune. L'annuncio della sua morte - avvenuta l'8 giugno 1958 - venne data da "La Nazione" a quattro colonne: "Fido è morto. Sarà sepolto all'esterno del piccolo cimitero di Luco di Mugello dove riposano le spoglie del suo padrone". "Fido è stato trovato morto sul ciglio di un podere ieri alle sedici, poco lontano dalla sua casa di Luco di Mugello. La scoperta l'hanno fatta due ragazzini che tornavano da scuola. Lo hanno riconosciuto subito e sono corsi a dare la notizia alla signora Soriani, che è scoppiata in lacrime. In breve, gli abitanti del borgo erano radunati quasi al completo intorno al povero corpicino inerte, semi nascosto dall'erba alta". Pochi mesi dopo fu inaugurato il monumento, opera dello scultore Salvatore Cipolla.
Ora il monumento di Fido è davanti al municipio di Borgo San Lorenzo, proprio sotto la lapide che ricorda il "conte Francesco Pecori Giraldi/colonnello della Milizia Toscana". 
È un cane in bronzo che guarda in alto e sembra annusare l'aria, per riconoscere l'odore del suo padrone. "A Fido, esempio di fedeltà".
QUI IL MONUMENTO E ALCUNE IMMAGINI DELLA STORIA DI FIDO:
http://www.repubblica.it/…/ga…/cronaca/monumento-fido/1.html

Il bastardino toscano, bianco con macchie nere, con l'arrivo del "collega" giapponese sugli schermi, forse verrà chiamato "l'Hachiko italiano", ma non tutti sanno che Fido già era famoso quando ancora era in vita, con i settimanali che gli dedicavano le copertine. La Domenica del Corriere, Gente e Grand Hotel fra il 1957 ed il 1958 fecero commuovere milioni di italiani con "la storia della fedeltà di un cane".

sabato 5 settembre 2015

I lecci del Marganai non seguono i tempi elettorali – Giorgio Todde

Oggi la Sardegna è ricoperta per un terzo da boschi. Ottomila chilometri quadrati. Le Lannou scriveva che l’isola non ne è mai stata molto ricca. Altri dicono che un tempo i nostri boschi erano molto più estesi e incolpano la deforestazione ottocentesca. Una responsabilità dei signori del carbone ma anche dei garçon pipì locali. E con i mezzani se la prendeva in quegli anni il poetaPeppino Mereu: “Vile chie sas giannas at apertu a s’istranzu pro venner chin sa serra e fagher custu locu unu desertu”.
Per tanti, dolorosi motivi la sofferenza continua anche se il bosco riconquista spazi naturali, non per un progetto, però, ma per l’abbandono delle campagne e la diminuzione del pascolo brado. E ora sono in pericolo 500 ettari del Marganai, metafora del rapporto insostenibile tra noi e la natura che non aveva previsto il sindaco di Domusnovas. Sindaco e vice vogliono segare lecci per trasformarli in pellet e il vice racconta intrepido che il pellet rappresenta una boccata di ossigeno. Respirano e assicurano che il taglio lo farà a regola d’arte una cooperativa secondo la pratica della ceduazione che tanto buona non dev’essere se per secoli in Sardegna abbiamo perso boschi.
Anche il commissario dell’Ente foreste – ente in via di privatizzazione e più sofferente delle foreste – dice di fidarsi dei dottori agronomi regionali perché lui è uno zootecnico e di alberi non ne sa. Zitto l’assessore all’ambiente.
Però esiste un piano di gestione del Monte Linas Marganai che smentisce sindaco, vice sindaco, commissario e tecnici tagliatori. Dice il piano che nel Marganai “è rigorosamente vietata la conduzione a ceduo in qualsiasi forma”.  E non lo “assicura sulla parola”, lo dimostra. Dimostra che nel Marganai non è possibile il detto: “Tanti ne taglio, tanti ne vengono su”.
I lecci sono pigri e ricrescono lentamente, in più di un giro elettorale. Nel frattempo catturano meno anidride carbonica, le acque seguono altri corsi e i suoli mutano. Oltretutto i cervi, che non sanno di sindaco, pellet e cooperativa, si rimpinzano con i germogli che riscoppiano dalle ceppaie del leccio. E il tagliato sarà maggiore della ricrescita. Alla faccia della sostenibilità. Il suolo si impoverirà, foglie e terra non formeranno più l’essenza che lo rende vivo, la varietà delle specie microscopiche che lo popolano diminuirà, gli uccelli voleranno altrove, le acque dilaveranno la roccia, i suoli scivoleranno via e sarà un deserto di calcare per sempre. Dateci il tempo.
Noi viviamo in un’area in via di desertificazione però continuiamo a tagliare alberi e ripetiamo il solito ritornello del lavoro per la comunità. D’altronde anche i carbonai toscani parlavano di ricchezza per tutti mentre radevano al suolo foreste. Il legno è sempre stato un affare importante.
Però il piano di gestione c’è, zittisce i padroncini in casa loro e non lo si può ignorare.
La biodiversità non è roba da signorine e senza biodiversità non si campa ma noi ragioniamo misurando il tempo misero di una generazione o peggio di un’elezione. Noi pinocchietti sardi crediamo all’albero degli zecchini d’oro però nel nostro campo dei miracoli non cresce nulla perché trasformiamo i boschi in terra desolata. Illusi che tanto un rimedio si troverà.
Era il 1899: “Le foreste si frantumano sotto le asce, muoiono migliaia di alberi, si devastano i rifugi di belve e uccelli, i fiumi si insabbiano e si seccano, spariscono per sempre paesaggi meravigliosi”. Tutto già visto e scritto. E ci fermeremo solo quando boschi e campagne saranno un deserto e il paesaggio una compiuta rappresentazione di noi stessi. Unica specie che da sola si caccia via dalla propria terra. Punizione cercata con ostinazione, ambita e meritata.

venerdì 4 settembre 2015

Bubba, il gatto studente che tutti vorrebbero avere a scuola


Molti ragazzi non vedono l’ora di scappare dai banchi di scuola.
Ma nella Leland High School di San Jose, in California, c’è chi ci rimane ben volentieri: è il gatto Bubba, una sorta di “studente” modello che non si perde un giorno di scuola.
Bianco e arancione, il micione vive con la sua proprietaria, Ambra Marienthal, nei pressi della scuola e ogni mattina miagola alla porta per farsi aprire: vuole farsi trovare sul posto prima dell’arrivo degli studenti bipedi.
Non avendo mai saltato un giorno di presenza, la scuola lo ha “nominato” membro a pieno titolo del corpo studentesco con tanto di tessera ufficiale per studenti realizzata apposta per lui ed è finito nell’annuario scolastico. Così Bubba può vagare per i corridoi della scuola e stare nelle aule…