Anna Luise ha gli occhi azzurri dietro gli occhiali con la montatura
colorata e lo sguardo aperto. È napoletana e, nonostante viva a Roma, quando si
accalora il suo accento rotondo viene fuori. È un’esperta di desertificazione e
lavora per l’Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Ce
l’ho di fronte e la sto intervistando.
Di cosa si occupa esattamente?
Mi occupo di lotta alla desertificazione. Che non riguarda, come molti
credono, i deserti, ma i territori fertili che perdono la loro produttività
biologica e diventano inadeguati a sostenere la vita e a far crescere prodotti
agricoli.
Quali sono le conseguenze?
La desertificazione fa perdere ad amplissime porzioni di territorio il loro
valore economico, estetico, socioculturale e religioso.
Un territorio può avere un valore religioso?
Il caso tipico è quello di Uluru (Ayers rock) in
Australia. Ma anche nelle religioni animiste africane molti territori sono
considerati aree sacre e la loro distruzione ha ricadute drammatiche sulle
comunità perché ne scardina i valori. Da noi, molti territori hanno grande
rilievo non religioso ma socioculturale: se vengono distrutti, l’impatto può
risultare ugualmente grave.
A cosa serve studiare la desertificazione?
Dobbiamo capire come conservare l’equilibrio degli ecosistemi. Se questo è
pregiudicato, la qualità della vita di tutti noi peggiora. La desertificazione
è provocata da due categorie di fenomeni: gestione non sostenibile del suolo e
cambiamenti climatici.
Lottare contro la desertificazione vuol dire promuovere pratiche agricole
sostenibili, che impediscano per esempio al suolo di compattarsi o di avere
tassi di salinità troppo alti, e aiutino a tenere sotto controllo l’erosione
eolica e idrica, provocata dalla forza del vento e dell’acqua che dilava e
corrode lo strato superiore fertile del terreno.
Cioè, è tutto un problema di suolo troppo duro?
Troppo duro, o troppo fragile e non coeso. Il suolo reso fertile dai
microrganismi è profondo in media trenta centimetri. Se diventa duro come il
cemento o se, al contrario, si sgretola e diventa polvere, quando piove,
ammesso che piova, non riesce a bagnarsi a sufficienza perché l’acqua, non
trattenuta, se ne scivola via. Così il suolo smette di essere produttivo.
Quindi la sopravvivenza alimentare del genere umano è
legata a una buccia di terra della giusta consistenza e profonda trenta
centimetri?
La profondità può variare, ma la media è questa. È abbastanza
impressionante. Il suolo è stato definito “la pelle della nostra terra”: è il
luogo dove si verificano gli scambi biochimici che permettono alle colture di
crescere.
Quando si è cominciato a parlare di desertificazione,
e quando a cercare di contrastarla?
La desertificazione è un fenomeno lento e non sappiamo bene quando sia
cominciata. Se ne è parlato per la prima volta nel corso della conferenza di
Stoccolma del 1972, che ha lanciato l’idea di sviluppo sostenibile, cioè di
equilibrio tra società, economia e ambiente. La prima decisione politicamente
importante è stata presa nel 1992 a Rio de Janeiro, con una convenzione delle Nazioni Unite (Unccd)
entrata in vigore nel 1996, fortemente voluta dai paesi africani soprattutto
dell’area maghrebina e subsahariana per i quali la desertificazione è una
diretta minaccia alla sopravvivenza. L’Italia ha aderito nel 1997. Oggi
aderiscono 198 paesi.
Quanto pesa globalmente il rischio di
desertificazione?
Diciamo che nel mondo il suolo fertile è il 75 per cento delle terre
emerse. Di questo 75 per cento, almeno il 40 per cento è variamente degradato,
anche perché è inquinato o contaminato, e si trova in gran parte nelle zone
aride o semiaride: non stiamo, lo ripeto, parlando di deserti, ma di zone in
cui l’acqua c’è ma è scarsa.
La desertificazione è definita come il livello estremo del degrado del
suolo, ed è, insieme al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità,
uno dei tre grandi fattori di rischio di rottura dell’equilibrio ecosistemico.
E quando si rompe
un equilibrio così complesso, mica lo sappiamo quali possono essere
le conseguenze: le variabili sono talmente tante che, come si dice in fisica,
il sistema diventa caotico e del tutto incontrollabile.
Qui in Italia abbiamo rischi seri di desertificazione,
o possiamo preoccuparci del solo cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico aggrava la desertificazione perché fa crescere le
temperature e altera il regime delle acque: teniamo presente che il
Mediterraneo è considerato un hot spot, cioè un punto di
particolare intensità dei cambiamenti climatici.
Circa il 20 per cento del nostro territorio nazionale è già stato
riconosciuto come interessato da fenomeni di desertificazione tra il 1961 e il
2000, e un altro 20 per cento è a rischio di desertificazione nel giro dei
prossimi venti o trent’anni. Nelle nostre regioni meridionali, ma anche in aree
dell’Emilia Romagna, delle Marche o del Molise, i segni di desertificazione
sono già evidenti. E non dimentichiamo che nel suolo “sano” è conservato il
carbonio organico.
… cioè?
Il suolo contiene il doppio dell’anidride carbonica che troviamo
nell’atmosfera, il triplo di quello che troviamo nei vegetali. Il soil organic carbon potrebbe
mitigare i cambiamenti climatici dovuti all’eccesso di emissioni di anidride
carbonica sequestrandola. Ma questo avviene, appunto, se il suolo è “sano”, e
non eccessivamente sfruttato dall’agricoltura intensiva.
Come se ne esce?
Se ne esce facendo ricerca, sperimentazione ed educazione ambientale.
Attivando politiche locali, regionali e nazionali: vuol dire, per esempio,
razionalizzare l’uso delle risorse idriche, oppure riforestare. Oggi stiamo
andando nella direzione dell’agroecologia: un’agricoltura che esercita meno
pressione sul suolo impiegando meno fertilizzanti e passando, per esempio, da
cinque a due raccolti di grano all’anno. Tra l’altro, qui in Italia avremmo
mille buoni motivi per passare da un’agricoltura di quantità a un’agricoltura di
qualità.
Che cosa può fare un singolo cittadino che si proccupa
per la desertificazione?
Non dimentichiamo che i singoli individui indirizzano il mercato, per
esempio comprando prodotti di stagione e prodotti locali: non pretendere di
mangiare i peperoni a Natale è già qualcosa, perché evita che porzioni di
territorio siano coperte da serre, in cui si usano troppi fertilizzanti e il
terreno è eccessivamente sfruttato e danneggiato. E poi non bisogna stancarsi
di fare opera di divulgazione e sensibilizzazione: è quello che stiamo facendo
proprio adesso.
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