Oggi la
Sardegna è ricoperta per un terzo da boschi. Ottomila chilometri quadrati. Le Lannou scriveva che l’isola non
ne è mai stata molto ricca. Altri dicono che un tempo i nostri boschi erano
molto più estesi e incolpano la deforestazione ottocentesca. Una responsabilità
dei signori del carbone ma anche dei garçon pipì locali. E con i mezzani se la prendeva in quegli anni
il poetaPeppino Mereu: “Vile chie sas giannas at apertu
a s’istranzu pro venner chin sa serra e fagher custu locu unu desertu”.
Per
tanti, dolorosi motivi la sofferenza continua anche se il bosco riconquista
spazi naturali, non per un progetto, però, ma per l’abbandono delle campagne e
la diminuzione del pascolo brado. E ora sono in pericolo 500 ettari del Marganai, metafora del rapporto
insostenibile tra noi e la natura che non aveva previsto il sindaco di Domusnovas. Sindaco e vice vogliono
segare lecci per trasformarli in pellet e il vice racconta intrepido che il
pellet rappresenta una boccata di ossigeno. Respirano e assicurano che il
taglio lo farà a regola d’arte una cooperativa secondo la pratica della
ceduazione che tanto buona non dev’essere se per secoli in Sardegna abbiamo
perso boschi.
Anche
il commissario dell’Ente foreste – ente in via di
privatizzazione e più sofferente delle foreste – dice di fidarsi dei dottori
agronomi regionali perché lui è uno zootecnico e di alberi non ne sa. Zitto
l’assessore all’ambiente.
Però esiste un piano di gestione del Monte Linas Marganai
che smentisce sindaco, vice sindaco, commissario e tecnici tagliatori. Dice il
piano che nel Marganai “è rigorosamente vietata la conduzione a ceduo in
qualsiasi forma”. E non lo “assicura sulla parola”, lo dimostra. Dimostra
che nel Marganai non è possibile il detto: “Tanti ne taglio, tanti ne vengono
su”.
I
lecci sono pigri e ricrescono lentamente, in più di un giro elettorale. Nel
frattempo catturano meno anidride carbonica, le acque seguono altri corsi e i
suoli mutano. Oltretutto i cervi, che non sanno di sindaco, pellet e
cooperativa, si rimpinzano con i germogli che riscoppiano dalle ceppaie del
leccio. E il tagliato sarà maggiore della ricrescita. Alla faccia della
sostenibilità. Il suolo si impoverirà, foglie e terra non formeranno più
l’essenza che lo rende vivo, la varietà delle specie microscopiche che lo
popolano diminuirà, gli uccelli voleranno altrove, le acque dilaveranno la
roccia, i suoli scivoleranno via e sarà un deserto di calcare per sempre.
Dateci il tempo.
Noi viviamo in un’area in via di desertificazione però continuiamo a
tagliare alberi e ripetiamo il solito ritornello del lavoro per la comunità.
D’altronde anche i carbonai toscani parlavano di ricchezza per tutti mentre
radevano al suolo foreste. Il legno è sempre stato un affare importante.
Però
il piano di gestione c’è, zittisce i padroncini in casa loro e non lo si può
ignorare.
La
biodiversità non è roba da signorine e senza biodiversità non si campa ma noi
ragioniamo misurando il tempo misero di una generazione o peggio di
un’elezione. Noi pinocchietti sardi crediamo all’albero degli zecchini d’oro
però nel nostro campo dei miracoli non cresce nulla perché trasformiamo i
boschi in terra desolata. Illusi che tanto un rimedio si troverà.
Era
il 1899: “Le foreste si frantumano sotto le asce, muoiono migliaia di alberi, si
devastano i rifugi di belve e uccelli, i fiumi si insabbiano e si seccano,
spariscono per sempre paesaggi meravigliosi”. Tutto già visto e scritto. E ci
fermeremo solo quando boschi e campagne saranno un deserto e il paesaggio una
compiuta rappresentazione di noi stessi. Unica specie che da sola si caccia via
dalla propria terra. Punizione cercata con ostinazione, ambita e meritata.
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