«La nostra idea fissa della crescita economica
e il sistema di valori ad essa sotteso hanno creato un ambiente fisico e
mentale in cui la vita è diventata estremamente malsana». Eppure, prosegue
Fritjof Capra, nemmeno l’idea opposta, quella di decrescita sembra in grado di
accompagnarci verso quel «salto di paradigma» che l’odierno contesto di
recessione globale rende non solo auspicabile, ma necessario. L’economia,
osserva Capra, è solo un aspetto di un tessuto ecologico e sociale complessivo
nel quale si sta facendo largo una nuova visione d’insieme che, a dispetto di
cifre, rating e disavanzi di bilancio, oppone una «qualitative growth» – una
crescita qualitativa – ai troppi numeri che «vorrebbero imbrigliare la vita» in
schemi e grafici. Fisico teorico, studioso di teoria della complessità, Capra è
fortemente critico nei confronti di ogni “parcellizzazione” e
“settorializzazione” del sapere.
Oggi il pensiero economico sembra arrivato a quel «punto morto»
che lei descriveva in uno dei capitoli più forti di un suo libro pubblicato
esattamente trent’anni fa, Il punto di svolta. [NOTA1] Che cosa è cambiato da
allora e perché la svolta («turning point») avvenuta nella fisica all’inizio
del XX e tanto attesa in questo inizio di XXI ancora non si è ancora verificata?
The Turning point venne pubblicato nel 1982 e la sua elaborazione mi prese quasi
cinque anni, dal 1978 al 1981. Molte cose discusse e, in un certo senso,
preconizzate in quel libro si sono poi verificate, ma il punto di svolta non è
avvenuto. In questi anni mi sono chiesto molte volte la ragione. Nel 1989 tutto
sembrava propendere per un cambiamento globale, invece… Ci siamo andati vicini,
abbiamo visto sorgere una società civile globale, in particolare a Seattle, in
occasione della manifestazioni di protesta (ma non solo di protesta) contro il
vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization).
Il 30 novembre 1999, più di cinquantamila persone, appartenenti a settecento
organizzazioni non governative presero parte a una protesta pacifica e
costruttiva che ha comunque cambiato per sempre l’orizzonte politico della
globalizzazione. Però la storia non segue un corso lineare, avanza in maniera
caotica e ci sorprende sempre. La diffusione delle nuove comunicazioni e il
pieno sviluppo di quella che Manuel Castells chiama «società informazionale»
(network society) hanno cambiato il contesto, mutando però anche la nostra consapevolezza.
Hanno però anche dilatato i tempi della svolta. Una svolta che, ora, sembra
nuovamente prossima ad arrivare.
La rapida consultazione di un qualsiasi dizionario basterebbe a
ricordarci che “crisi” significa “separazione, scelta, giudizio”, capacità di
cogliere nuove sfide, abbandonando vecchi schemi di pensiero. Qual’è dunque la
sfida che ci pone la crisi che, dalla Grecia a New York, sembra non lasciare
tregua al mondo?
La sfida principale è tutta nel capire “come”
passare da un sistema ancora improntato su un’idea di crescita illimitata a un
altro che preveda un livello ecologicamente sostenibile e socialmente oltre che
economicamente equo. La nostra crisi inizia quando sbagliamo il sistema di
referenza e avanziamo smarriti come su un territorio di cui possediamo la
mappa, ma una macchia precocemente invecchiata. Per quanto attiene la sfida,
occorre un passaggio, una svolta appunto. Ma per compiere questo passaggio, non
basta dire “no” alla crescita o auspicare meno industria, meno consumi, meno
tutto. La crescita è infatti una caratteristica fondamentale della vita e, di
conseguenza, anche della società e dell’economia. Non c’è vita senza crescita e
chi non cresce è destinato, prima o poi, a soccombere. Dobbiamo però intenderci
sul concetto di crescita e, come fisico, devo subito osservare che in natura
essa non è mai un concetto lineare. Anzi, in un ecosistema c’è sempre un gioco
di compensazioni che porta all’equilibrio: qualcosa cresce, qualcosa d’altro
decresce, ma soprattutto si arriva a una crescita qualitativa che aumentare la
complessità e la maturità dell’ecosistema stesso. Questo tipo di crescita non
lineare, sfaccettata e multiforme è ben nota ai biologi e agli studiosi delle
cosiddette scienze naturali, mentre pare ancora lontana dall’essere accolta
dagli scienziati sociali, impregnati come sono di un meccanicismo cartesiano
oramai fuori luogo e fuori tempo massimo. La nostra è una cultura ancora troppo
frammentata, divisa tra infiniti specialismi: il riduzionismo consiste proprio
in questa disposizione culturale volta a ridurre interrelazioni tra fenomeni
complessi a elementi base da studiare solo e soltanto in base ai meccanismo
attraverso i quali interagiscono. È una visione ristretta del mondo alla quale,
purtroppo, spesso si attribuisce l’etichetta del tutto fuori luogo di “metodo
scientifico”. L’attuale crisi finanziaria globale ha reso ancor più evidente
che i maggiori problemi del nostro tempo – energia, ambiente, cambiamento
climatico, sicurezza alimentare e la sicurezza finanziaria – non possono essere
compresi separatamente. Sono problemi sistemici, il che significa che sono
interconnessi e interdipendenti. Proprio per uscire da questo schematismo, alla
crescita e al suo corrispettivo, parimenti riduzionista di decrescita misurate
dal Pil e dal consumo pro capite opporrei la visione di una crescita
qualitativa e non-lineare, basata sulla qualità della vita e sulle relazioni.
Siamo vicini al punto di svolta. [NOTA 2]
Le nuove tecnologie hanno un ruolo ambivalente, in questa crisi.
Aumentano la velocità di circolazione di denaro e titoli, ma al tempo stesso
favoriscono la nascita di inedite solidarietà tra chi rivendica un modello di
sviluppo diversamente partecipato e sostenibile…
Partiamo da una data: il 1989. Con la caduta
del Muro di Berlino. la crisi si è intensificata a tutti i livelli, ecologico,
economico e sociale, ma il sistema ha sostanzialmente retto, anche perché le
nuove tecnologie hanno dato vita a un nuovo materialismo fondato sul diktat
edonistico “consumo, dunque sono” dando così a tutti l’illusione di partecipare
in base alla propria capacità di acquisto. Oggi, venuta meno questa possibilità
di inclusione attraverso il consumo, chi non può più consumare, comincia a
chiedersi come ripartire, come partecipare, come fare rete. Al tempo stesso,
infatti, queste nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso la
costituzione di reti di solidarietà orizzontale e di un pensiero non più
lineare – la rete è, appunto, proprio questo: pensiero che si lega e
interconnette in forma non convenzionale. Oggi c’è una nuova energia, un
movimento civile globale che passa dall’occupazione di Wall Street alle
proteste di piazza a un movimento di uscita dal nucleare che non è puramente
ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per
troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo. Un’economia in
senso stretto dovrebbe uscire dall’ossessione istituzionalizzata della finanza.
Questa ossessione è tutt’uno con la velocità: pensiamo al fatto che se, storicamente,
gli scambi umani hanno sempre subito una certa frizione e un certo attrito – i
trasporti via terra o via mare potevano subire ritardi di ogni tipo – oggi
grazie alle nuove tecnologie di comunicazione la finanza ha velocizzato i
processi di scambio annullando lo spazio tra azione e reazione. Al tempo
stesso, però, queste nuove tecnologie hanno permesso il diffondersi di una
consapevolezza altamente globalizzata, ma al tempo stesso localizzata nella
necessità di azione. Il pensiero deve essere globale, ma l’azione non può
prescindere dalla concretezza del locale. Il vecchio motto di Jacques Ellul,
«pensa globalmente, agisci localmente» ha oramai preso corpo.
Un nuovo attrito potrebbe essere prodotto da un’economia non
monetaria, improntata sul valore anche simbolico del dono e sul recupero di un
tempo più consono alle nostre vite?
Certamente. E una cosa che ritengo importante
è il ritorno alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano
particolarmente il nostro tempo di crisi, dando ad esso una speranza nuova. Una
ragione è legata alla sostenibilità, che non è una proprietà dell’individuo di
una specie. È proprietà di una comunità ecologica o di una comunità sociale. Se
studiamo la vita, possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una
serie di princìpi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire
che la natura sostiene la vita formando e nutrendo comunità. Se vogliamo
sostenere la vita, noi dobbiamo fare la stessa cosa: nutrire le comunità. In
una comunità troviamo piacere nelle relazioni umane. Dobbiamo tornare alle
relazioni umane, nutrirle, svilupparle. Dobbiamo sognare un’economia informale
basata sulla reciprocità, sul dono, su quella shadow economy che, nascosta
dalle statistiche ufficiali, permette a uomini e donne di aiutarsi, di sentirsi
meno soli, di assistersi, di parlarsi, di avere cura di sé, avendo cura degli
altri. La crescita qualitativa di cui parlavamo all’inizio passa proprio da
qui: dall’aver cura di sé, dall’aver cura degli altri, dall’aver cura del mondo.
(*) intervista pubblicata (nel dicembre 2014)
su «Tysm», con il titolo originale «Nutrire la comunità. Dialogo con Fritjof
Capra» e ripresa di recente da «Comune-info» dove Capra è presentato così.
Fisico e teorico dei sistemi, direttore del Center for Ecoliteracy di Berkeley,
in California. Il suo campo di ricerca si estende dai fondamenti della fisica
teorica alle implicazioni socio-filosofiche della scienza moderna. Fra i suoi
libri: «Il Tao della fisica», Adelphi, 1982; «Il punto di svolta», Feltrinelli,
1982; (con Charlene Spretnak); «La politica dei verdi. Cultura e movimenti per
cambiare il futuro dell’Europa e dell’America», Feltrinelli, 1986; «Verso una
nuova saggezza. Conversazioni con Gregory Bateson, Indira Gandhi, Werner Heisenberg,
Krishnamurti, Ronald David Laing, Ernest F. Schumacher, Alan Watts»,
Feltrinelli,1988; (con David Steindl-Rast); «L’universo come dimora.
Conversazioni tra scienza e spiritualità», Feltrinelli, 1993; «La rete della
vita», Rizzoli, 1997; «La scienza della vita», Rizzoli, 2002; «La scienza
universale. Arte e natura nel genio di Leonardo», Rizzoli, 2007.
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