mercoledì 29 luglio 2015

intervista a Vandana Shiva (di Piero Loi)

Ci può spiegare quali sono le relazioni tra queste crisi? E perché i più poveri sono anche i più colpiti?
I problemi che oggi ci troviamo ad affrontare sono intimamente collegati ad un’economia basata sul petrolio. E non ci sono solo le aree in cui il greggio viene estratto, come la zona del delta del Niger in cui mi trovavo fino a ieri. Sebbene quei territori siano tra i più compromessi, il punto è che l’intero mondo è dipendente dall’industria petrolifera. Inclusa l’agricoltura che utilizza pesticidi e fertilizzanti prodotti dal petrolio. Va da sè che gli effetti combinati dell’industria estrattiva, delle guerre che si combattono per le risorse naturali (e delle divisioni religiose alimentate ad hoc per accaparrarsele), delle emissioni legate alla combustione dei fossili e dell’utilizzo di prodotti e semi geneticamente modificati che impoveriscono il suolo coincidono con lo spopolamento e la desertificazione di intere aree geografiche. Le masse rurali finiscono per abbandonare le campagne, perché vengono private delle loro fonti di sostentamento e del loro stesso lavoro. E finiscono per riversarsi nelle città, dove le tensioni sociali si acuiscono.
Questa è ciò che lei definisce l’economia lineare. Si esce da questo stato di crisi con l’economia circolare. Di cosa si tratta?
L’economia circolare è un imperativo per evitare il disastro ecologico e il collasso sociale che da questo deriva. Questo modello economico è socialmente sostenibile perché si fonda su un intrinseco equilibrio: ciò che viene preso dalla natura ritorna ad essa (esattamente come avviene nel mondo vegetale, dove la C02 presente in atmosfera viene utilizzata per generare il glucosio, fondamentale per la vita delle piante, da cui viene poi liberato l’ossigeno). Tutto il contrario, insomma, delle emissioni o dei rifiuti generati dai fossili estratti dalla terra. Vale a dire che l’economia circolare non produce né inquinamento né rifiuti. Da un punto di vista sociale, l’economia lineare si basa sull’azzardo, non c’è ritorno perchè gli strati più poveri vengono prima sfruttati poi messi da parte: sono una vera e propria eccedenza generata da un sistema economico che non soddisfa i reali bisogni delle popolazioni. Anzi, distrugge lavoro per le ragioni che abbiamo visto prima e rende le persone dipendenti dal denaro e dallo sfruttamento. All’opposto, l’economia circolare mette al centro i reali bisogni delle persone, e per questo punta a ridurre il ruolo della finanza.
Se applicassimo questo ragionamento alla Sardegna, dovremmo imputare l’attuale disastrosa situazione socio-economica dell’isola alle industrie inaugurate tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60. Possibile?
Tutto il mondo oggi sta pagando  il prezzo della falsa convinzione che l’industrializzazione significasse esclusivamente un’economia basata sul petrolio. D’altra parte, ogni società ha sempre prodotto il proprio cibo, si è dotata di beni materiali e mezzi di comunicazione. Anche dove non ci sono auto esistono sistemi di mobilità. Basare la modernità e la globalizzazione sull’utilizzo delle fonti fossili mette ogni economia locale all’interno di un sistema che finge di soddisfare i bisogni delle popolazioni. Ma questo è un mondo in cui c’è un enorme speco di energia con troppe persone che non possiedono forme di energia, troppo spreco di cibo e molte persone che non hanno cibo, spreco di acqua da parte di una minoranza e la maggioranza delle persone che ne è priva.
Con una sovrapproduzione energetica pari a circa il 50% del proprio fabbisogno, nuove centrali elettriche alle porte e tre poligoni militari tra i più grandi d’Europa, la Sardegna oggi appare come un hub energetico al confine sud dell’Europa e una grande portaerei al centro del Mediterraneo. Quale ruolo potrebbe invece giocare oggi la Sardegna in quest’area del globo attraversata dalla guerra?
Non solo il Mediterraneo, non solo l’Asia o l’Africa sono in guerra. Gli stati uniti sono forse una società pacificata? Solo pochi giorni fa è stata uccisa una giovane donna per motivi razziali, ogni giorno le città degli U.s.a bruciano. Questo perchè l’economia lineare basata sul petrolio è un’economia militarizzata che finisce per distruggere la democrazia. Ma ogni singolo individuo, ogni comunità e ogni paese può giocare un ruolo per interrompere questo processo. Da un lato quindi la guerra, dall’altro la pace. Pace con la terra, pace tra la gente, ottenuta con la lotta contro le discriminazioni, per la democrazia. E una scelta può compierla anche la Sardegna. Gandhi ha detto: “Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere”. Il cambiamento inizia quando ogni villaggio si pone dalla parte della terra, rifiutando il petrolio.
Oggi in nome delle energie rinnovabili si avvalla di tutto: grandi centrali a biomassa, land grabbing per l’agro-industria,impianti fotovoltaici di grossa taglia, tagli a raso di centinaia di ettari di foreste centenarie per l’industria del pellet. Questo è quanto accade in Sardegna e in numerose altre terre del mondo. A quali condizioni le fonti rinnovabili sono una parte della soluzione? E in quali altri casi non lo sono?
Da quando l’estrazione del petrolio ha raggiunto il suo picco massimo si parla di green economy, che non è un’economia circolare, visto che funziona così: “Bisogna prepararsi  – si domandano i grandi trusts – alla fine del petrolio?”. Questa la risposta che si danno: “Ok, accaparriamoci le terre africane!”.  In altri termini, omettono di dire che la vera soluzione al problema è consumare meno energia. Si tratta di un’evidenza: se continuiamo a sviluppare società ed economie energivore e finisce il petrolio, sfrutteremo dalle terre delle popolazioni povere per generare combustibile. A quanto vedo, anche in Sardegna si tenta questa falsa soluzione. Ma la transizione energetica non può passare esclusivamente attraverso un cambio di combustibile da fossile a rinnovabile, non funzionerebbe: bisogna, piuttosto, costruire economie locali senza petrolio  in cui ogni utilizzo legittimo delle rinnovabili non replichi un’ estrazione centralizzata e di consumo massiccio di energia. Spazio, dunque, all’autoproduzione da fonti rinnovabili e alla generazione distribuita.

martedì 28 luglio 2015

Vandana Shiva in Sardegna



ISDE Italia e ISDE Sardegna, Associazioni Medici per l’Ambiente, organizzano con la collaborazione di Navdanya International per il 28 luglio 2015, il V° Workshop Nazionale sulla Salute Globale con "Sardegna Terra Viva/Sardigna Terra Bia”. L’evento si è svolto in Sardegna, presso il centro servizi del Nuraghe Losa, Abbasanta (Oristano) con la partecipazione di Vandana Shiva l'attivista e ambientalista indiana, leader dell'International Forum on Globalization,e Presidente Navdanya International. 

era ora!

Svolta nelle abitudini alimentare degli italiani: per la prima volta la spesa per frutta e verdura sorpassa quella della carne. Lo rileva la Coldiretti in occasione della 'Festa della frutta e della verdura' a Expo. L'associazione che riunisce gli agricoltori italiani parla di una "rivoluzione epocale" per le tavole nazionali, che non era mai avvenuta in questo secolo.

La spesa degli italiani per gli acquisti di frutta e verdura rappresenta il 23% del budget delle famiglie per il cibo, per un importo di 99,5 euro al mese, contro i 97 euro della carne (22%). L'analisi di Coldiretti si basa su dati Istat. "E' in atto a livello globale una tendenza al riconoscimento del valore alimentare della frutta e verdura alla quale dobbiamo saper dare una risposta concreta - ha sottolineato il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo -. L'Italia ha il primato europeo nella produzione che genera un fatturato di 13 miliardi, con 236.240 aziende che producono frutta, 121.521 che producono ortaggi, 79.589 patate e 35.426 legumi secchi".

Gli italiani non sono diventati solo più salutisti a tavola ma sono sempre più appassionati anche degli orti 'fai da te': si stima che siano quasi 20 milioni quelli che aspirano ad avere il pollice verde (indagine Coldiretti/Censis). Una passione che contagia soprattutto i più giovani. La passione crescente per frutta e verdura ha fatto nascere nuove figure professionali: dal "sommelier della frutta", allo scultore che crea opere d'arte con le verdure, al "personal trainer dell'orto".

Tutti hanno partecipato alla coloratissima festa sul Cardo, dove per l'occasione Coldiretti ha distribuito ai visitatori 50 quintali di frutta fresca. "Dobbiamo andare avanti valorizzando sempre più le nostre produzioni e lavorando sull'organizzazione della filiera - ha sottolineato il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina - promuovendo qualità ed eccellenza e penso che Expo sia un'occasione anche per dimostrare ai 140 Paesi presenti la forza di questa produzione".

Il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, ha aperto la giornata di festa facendosi fotografare con le mascotte di Coldiretti vestite da frutta e verdura. Cuore della festa è stato il cluster Frutta e Legumi dove i Paesi hanno proposto cocktail e succhi di frutta particolari, come quello al mango e zafferano, o al baobab e all'ibisco. Qui Sala ha chiuso la Giornata: "Straordinaria partecipazione, grande successo" ha detto gustando un succo di frutta.(ANSA)

lunedì 27 luglio 2015

Due proverbi rom sul pane


Se vi fosse pane sufficiente per tutti, le chiese e i tribunali andrebbero deserti.

Il pane può fare ciò che Iddio non vuole, e l’imperatore non riesce.



(dal prologo di Predrag Matvejević a Non chiamarmi zingaro, di Pino Petruzzelli)

domenica 26 luglio 2015

le belve umane

L'associazione Sea Shepherd ha denunciato l'arresto di tre attivisti (ed il fermo di altri due) durante le proteste alle isole Faroe dove si erano recati per difendere le balene pilota dal tradizionale massacro. Circa 250 mammiferi marini, secondo l'associazione, sarebbero stati crudelmente uccisi nelle due baie dove si è svolta la battuta di caccia. La pratica, illegale secondo la Comunità Europea e la Danimarca, è consentita nelle Isole Faroe dove è considerata una caccia tradizionale da tutelare.


Era il 1974 quando il New York Blood Center strappò dal loro habitat naturale 66 cuccioli di scimpanzé per trapiantarli in un laboratorio sperduto nella giungla liberiana, a 40 chilometri dalla capitale Monrovia. Per tre decenni gli scimpanzé sono stati utilizzati come cavie per una ricerca sui vaccini di malattie infettive mortali, come l'epatite e la "cecità fluviale" (Oncocercosi). Nel 2005 il laboratorio medico ha sospeso la ricerca per mancanza di finanziamenti e, nonostante avesse assicurato di prendersi cura delle scimmie, ha pensato bene di abbandonare i 66 esemplari, ormai adulti e infetti, in sei piccole isole a largo della Liberia, le cosiddette "Monkey Island", con poco cibo e circondate da imbevibile acqua salata. Per gli scimpanzé, cresciuti a contatto diretto con l'uomo, il ritorno alla natura è stata un'ulteriore tortura, perché totalmente incapaci di difendersi e procurarsi il cibo autonomamente. La società statunitense di protezione degli animali Humane Society è al momento l'unica ancora di salvezza per questi animali: ogni giorno i volontari portano cibo fresco e acqua, un lavoro che al mese costa ben 20mila dollari. Così l'associazione ha aperto una campagna fondi per raccogliere 150mila dollari, cifra che garantirebbe l'assistenza agli scimpanzé per cinque mesi. In poco più di un mese la Human Society ha raccolto già 130mila dollari grazie alla sensibilità delle persone, quella sensibilità che invece è mancata al New York Blood Center quando decise di sfruttare gli animali prima di abbandonarli.


mercoledì 22 luglio 2015

Exxon Valdez, la strage lenta - Maria Rita D'Orsogna

Sono passati cinque anni dallo scoppio nel golfo del Messico. Mi ricordo dove ero quel 20 aprile – era mattina ed ero a casa e mi chiamò il mio amico Tom Chou, lo stesso con cui scrissi l’articolo dell’idrogeno solforato, per dirmi di questo disastro in Louisiana.
In questi cinque anni, articoli di stampa, articoli scientifici, leggi, decisioni di corti di vario livello, miliardi di dollari pagati e richiesti – con l’ultimo pagamento di 18.7 miliardi che la BP dovrà versare al governo federale per i danni causati e che vanno ad aggiungersi agli altri 30 già pagati.
Dopo cinque anni delle tante cose che si possono dire, quella più vera è che siamo solo all’inizio e che ci vorranno anni ed anni per arrivare ad una qualche semblanza di normalità per chi ha perso salute, stile di vita e a volte anche lavoro.
Una delle lezioni piu interessanti arrivano dall’incidente della Exxon Valdez, nel1989. Dopo neanche trent’anni, quasi tutti coloro che hanno lavorato alle operazioni di pulizia sono tutti morti o malati.
La vita media per chi ha lavorato in Alaska dopo lo scoppio è stata di cinquantuno anni.
I pochi rimasti in vita soffrono di tossi persistenti, lacrimazione agli occhi, nausea, vomito e dolori in tutto il corpo. La persona tipica che si rese disponibile ad aiutare nelle operazioni di pulizia in Alaska era economicamente in difficoltà (e chi sennò andrebbe di sua spontanea volontà in mezzo al petrolio?) che per sei settimane ha spruzzato acqua bollente in mare e lungo la sabbia con evaporazione di petrolio in atmosfera. Che ha ovviamente inalato.
Al tempo dello scoppio, la ditta e i lavoratori la chiamavano “Exxon crud”. Era una specie di tosse petrolifera, visto che era diffusissima fra gli addetti. E siccome era consierata una specie di influenza, nessuno ci pensò troppo. La Exxon ha eseguito nel corso degli anni ogni tipo di studio su ogni tipo di animali ed esseri viventi entrati a contatto con il petrolio: granchi, cozze, pesci, papere, aquile e pure cervi ed orsi, ma mai persone.
Fra chi è rimasto in vita Roy Dalthorp, a suo tempo disoccupato e che dopo le sue seti settimane ha sviluppato problemi di respiro e di lacrimazione che durano tuttoggi. Nessuno della Exxon l’ha mai esaminato, né durante né dopo le operazioni di pulizia. Lui dice di essere stato lentamente avvelenato.
“I had no choices, because I was behind on my house payments, and no health insurance”.
Entra in scena Dennis Mestas, avvocato che inizia a indagare le cartelle cliniche dei lavoratori della Exxon a Houston. Su 11.000 lavoratori della Exxon con sede in Alaska, 6,722 si sono ammalati. Decide che uno dei casi più lampanti era quello di Gary Stubblefield, con la stessa storia di Roy Dalthorp: problemi di respiro e di generale cedimento fisico. La Exxon lo paga 2 milioni di dollari, pur di non andare a processo. Pochi altri ex lavoratori hanno avuto la stessa “fortuna” di essere risarciti.
D’altro canto, la Exxon ribadisce che non può commentare o confermare le cifre dei lavoratori ammalati perché questi erano temporanei e non si sa che malattie avessero sviluppato prima o dopo. E aggiungono che nessuno si è lamentato con loro. E quindi… tuttapposto.
E per le operazioni di pulizia della BP? I lavoratori della BP hanno respirato metano, benzene, idrogeno solforato e il dispersante Corexit e secondo il tossicologo Ricki Ott, fra i lavoratori della Louisiana ci sono stati gli stessi esatti sintomi che in Alaska nel 1989. Ci si lamenta di mal di testa, fatica, problemi intestinali e di concentrazione e memoria, irritazione alla gola e agli occhi, mancanza di respiro, tosse e nausea. Esiste pure una nuova malattia: Tilt, toxicant-induced loss of tolerance, per descrivere i malati delle operazioni di pulizia petrolifera.
Fra i lavoratori della BP almeno in 160 si sono ammalati e in venti sono finiti all’ospedale. Ma la BP specifica: “per poco tempo”.
Non abbiamo imparato niente. Evviva.

martedì 21 luglio 2015

Insetti a tavola - Agnese Codignola

Come è noto da alcuni anni, le fonti di proteine per uso umano stanno cambiando in fretta e cambieranno sempre più nei prossimi anni. La produzione alimentare globale dovrà adattarsi alle esigenze di una popolazione che secondo le stime toccherà i nove miliardi di individui nel 2030. In Congo si sta per attivare la sperimentazione di un farming di insetti con una programmazione sostenibile alle spalle, che desta un grande interesse a livello internazionale. Lo illustra Aaron Ross, giornalista della Reuters, in un reportage da Kinshasa, che spiega come in quella zona gli insetti siano una tradizione culinaria da centinaia di anni: sia come street food sia prelibatezza da riservare alle occasioni speciali. Cucinati con aglio, limone, cipolle e pepe, possono costare anche più della carne proprio per l’elevato prezzo di acquisto. Per fare un esempio, un chilo di grilli si paga circa 50 dollari, il doppio del manzo.
Tuttavia, nella Repubblica Democratica del Congo si consumano circa 14.000 tonnellate di insetti ogni anno, con una media di 300 grammi a settimana per abitante. Dal punto di vista della salute si tratta di un’ottima abitudine, dal momento che gli insetti, com’è ormai noto, rappresentano una eccellente fonte di proteine alternative alla carne e offrono anche sali, vitamine e fibre. Ma in Congo (dove tuttora in alcune zone da anni è in corso una guerra civile che prosegue a bassa intensità), tutti gli insetti o quasi vengono raccolti a mano nella boscaglia, in base alle disponibilità stagionali, e solo raramente allevati in piccolissime aziende. Per questo costano molto.
La FAO, insieme con alcuni ministeri locali, ha  deciso di avviare un progetto di allevamento industriale di grilli e bruchi e di affidarlo a 200 persone in diverse fattorie, quasi tutte donne debitamente formate. In  parallelo verrà fondato un istituto nazionale per gli insetti commestibili da raccogliere e da allevare in maniera sostenibile, e saranno emanate norme generali per la raccolta. L’iniziativa dovrebbe assicurare sviluppo a basso impatto ambientale: mettere su un allevamento costa poco. Inoltre, dovrebbe contribuire in maniera importante ad abbattere la malnutrizione ancora diffusa nel Paese, grazie alla maggiore disponibilità di materia prima e alla diminuzione dei prezzi al consumo.
Gli insetti sono stati anche tra i protagonisti del meeting annuale organizzato dall’Institute of Food Technologies di Chicago dedicato ai cibi di domani. Oltre ad essi, due sono le fonti considerate più promettenti: le alghe e la quinoa, insieme ai legumi. Le prime, come hanno ricordato alcuni ricercatori al congresso, sono ben accette dai consumatori, che sono pronti a farle entrare nei propri menu. Esse contengono, in media, il 63% di proteine, il 15% di fibre, l’11% di lipidi (tra i quali molti buoni anche per il cuore), il 4% di carboidrati, il 4% di micronutrienti (minerali e vitamine) e il 3% di altre sostanze facili da digerire. Si trovano già in alcune cucine nazionali, mentre in commercio, in vari Paesi, sono già disponibili centinaia di prodotti tra i quali barrette, succhi salse e dressing, simil-cereali e prodotti da forno. Le alghe sono facili da coltivare e hanno un basso impatto ambientale; in più, le specie note sono oltre mille, e questo amplia molto le possibilità, tanto dal punto di vista nutrizionale quanto da quello delle possibili combinazioni di prodotti.
La quinoa, invece, è una pianta originaria delle Ande e usata da millenni dalle popolazioni locali soprattutto di Perù e Bolivia. Attualmente in commercio ci sono già oltre 1.400 prodotti a base di quinoa in tutto il mondo, e il loro numero è destinato a crescere. Anche in questo caso si tratta di proteine nobili e a basso impatto. Infine si è parlato dei legumi, la carne dei vegetariani da sempre, anche perché privi di allergeni e di glutine e coltivati con basso impatto ambientale.
Chi è troppo affezionato ai gusti tradizionali o, peggio, al junk food, dovrà probabilmente rivedere le proprie abitudini molto presto. Per farlo senza troppa fatica, dovrebbe sempre pensare che queste novità potrebbero far bene alla  salute e al pianeta.

giovedì 16 luglio 2015

Miele, sì o no? Cinque cose da sapere per scegliere - Valentina Ravizza

Perché i vegani non mangiano il miele? La risposta più immediata è che si tratta di un prodotto che deriva dallo sfruttamento delle api, soprattutto a causa degli stressanti metodi industriali che arrivano a causare la morte di questi animali. Ma la questione è più complessa e non sempre quello che si legge online è corretto. Per fare maggior chiarezza abbiamo fatto un fact-checking con Francesca Gobbo, giornalista e apicoltrice biologica cresciuta a pane e miele a Bressa di Campoformido, in provincia di Udine, dove la sua famiglia, titolare dell’azienda Miele Dal Cont (www.mieledalcont.it), alleva api dagli anni Settanta. E siamo partiti proprio dalle informazioni più diffuse sui vari forum e blog vegani.
È vero che nel processo di estrazione del miele molte api vengono uccise?
«Negli ultimi 15 anni si è assistito in tutto il mondo a un’ingente moria di api: non a causa delle tecniche usate dagli apicoltori, ma piuttosto per i cambiamenti climatici e gli agro farmaci. Fattori come le temperature molto più alte della media e le piogge improvvise hanno in alcuni casi inficiato completamente le fioriture (come quella dell’acacia nel maggio 2014), togliendo alle api il loro sostentamento. Inoltre l’uso di farmaci per proteggere le colture, penso per esempio ai neonicotinoidi utilizzati come concianti delle sementi di mais o irrorati sui meleti del Trentino, ha avvelenato moltissime api. Agli apicoltori non è rimasto che raccogliere i cadaveri delle api, congelarle e inviarle in laboratori (come quelli del Progetto BeeNet) per cercare di capire le cause della moria. C’è poi il caso dellosfruttamento delle api come insetti impollinatori, come avviene per esempio nei fragoleti o nelle distese di mandorli in California (guardatevi il documentario Un mondo in pericolo www.morethanhoneyfilm.com). Questo periodo di attività frenetica, durante il quale l’animale si nutre di un solo tipo di polline è fortemente stressante: è come se noi ci abbuffassimo solo di pasta per settimane. In questo caso però non ci sono favi dove le api possono tornare: il miele non c’entra, lo scopo per cui vengono utilizzate è solo aiutare l’impollinazione, poi vengono lasciate a morire nei campi».
È vero che gli apicoltori imbottiscono le api di farmaci per tenerle in vita?
«Come tutti gli animali anche le api possono ammalarsi, ma questo non significa che vengano tenute in cattive condizioni dagli apicoltori. Le patologie più comuni sono le virosi, paragonabili alle nostre influenze, e gli attacchi dell’acaro Varroa destructor, che fa nascere api deformi. In questi casi l’apicoltura tradizionale usa dei farmaci, come gli acaricidi nebulizzati, che però si depositano nella cera dell’alveare rischiando che dei residui contaminino il miele, mentre quella biologica sceglie dei trattamenti “meccanici”: si eliminano le uova e le larve malate, in alcuni casi siamo costretti a sacrificare l’intera famiglia».

È vero che alle api viene sottratto tutto il miele e vengono nutrite con sciroppo di zucchero?
«A livello industriale e in alcune apicolture artigianali sì: una famiglia di api consumerebbe circa 150 kg l’anno del proprio miele, molti apicoltori, soprattutto in inverno quando le scorte si assottigliano, lo sostituiscono con zucchero bianco candito o sciroppo di zucchero di canna, ma questa alimentazione indebolisce gli animali. Non tutti gli apicoltori però si comportano così: noi per esempio scegliamo di lasciare alle nostre api abbastanza scorte di miele per nutrirsi tutto l’inverno, questo le rende più sane e forti e ci ha permesso addirittura di raddoppiare la produzione. Per me le api sono prima di tutto degli esseri viventi, che vanno trattati con coscienza e con rispetto: la cosa più importante è il loro benessere, e se questo non è anti-economico ma anzi aiuta l’azienda tanto meglio, c’è chi invece ragiona sulla stagione e preferisce vedere i soldi subito, anche se significa ricomprare nuove famiglie di api in primavera perché le proprie non hanno superato l’inverno».
È vero che a livello industriale le api regina vengono selezionate dall’uomo e fecondate meccanicamente?
«Si tratta di una pratica poco comune anche a livello industriale, legata alla selezione genetica della razza. Ma gli apicoltori artigianali, che in Italia sono la maggioranza, lasciano che la fecondazione avvenga in modo naturale e che l’ape regina (che vive fino a cinque anni) venga naturalmente sostituita, alla morte, da un’altra di quelle allevate dall’alveare all’interno delle celle reali».
Come posso essere sicuro di acquistare miele prodotto in modo etico?
«Sconsiglio di comprarlo al supermercato, dove spesso si trovano mieli non italiani (o in cui il miele italiano è miscelato con quello proveniente da altri Paesi) e termotrattati per restare sempre liquidi, con la conseguente distruzione di enzimi che li rende praticamente degli sciroppi di zucchero. L’acquisto ai mercatini di prodotti artigianali è un buon compromesso, ma la cosa migliore è sempre rivolgersi direttamente all’apicoltore: basta guardarsi attorno o fare una ricerca su internet per scoprire che, senza andare troppo lontano, ce ne sono anche appena fuori dalle città. In questo modo potrete vedere con i vostri occhi come vengono trattate le api e fare tutte le domande per essere davvero consumatori consapevoli».

martedì 14 luglio 2015

Jordan e Athena, orsi da ammazzare

Si è rifiutato di uccidere due cuccioli di orso rimasti orfani della madre, abbattuta perché razziava continuamente una cella frigorifera nei pressi di Port Handy, città della British Columbia. E per questo Bryce Casavant, guardia forestale canadese, è stato sospeso dal lavoro e non percepirà lo stipendio. L'uomo, nonostante avesse ricevuto ordine dai suoi superiori di eliminare gli orsetti, ha deciso di affidarli a una struttura che si occupa di curare animali: la North Island Wildlife Recovery Association, situata sull'isola di Vancouver. Dopo la notizia della sospensione, sul web è stata lanciata una petizione all'indirizzo del Ministro dell'Ambiente canadese, Mary Polak, affinché Casavant venga reintegrato immediatamente. "E' una situazione spiacevole e triste - ha dichiarato la Polak - Sebbene le nostre guardie forestali debbano a volte abbattere animali selvaggi per il bene della comunità, comprendo quanto questo sia complicato per tutti i soggetti coinvolti". I due cuccioli, un maschio e una femmina, sono in buone condizioni di salute e hanno ricevuto anche un nome: Jordan e Athena. Appena saranno in grado di cavarsela da soli


lunedì 13 luglio 2015

Saperi medici plurali (2) - Giulio Angioni

Studiare come si mantengano ancora modi e mestieri di cura tradizionale è dovere non solo di chi si propone di estirpare le consuetudines non laudabiles e gli errores, che da secoli in Europa sono oggetto della lotta della medicina ufficiale contro l’empiria, l’ignoranza, la magia.
Anche le varie forme di cristianesimo hanno lottato contro concezioni e pratiche mediche tradizionali, specie contro le pratiche coreutiche di guarigione, quali il tarantismo, in Puglia oggi mobilitato in funzione identitaria. Ma questa costruzione dell’identità locale comporta un rovesciamento di prospettiva del tarantismo stesso, sindrome considerata vergognosa dal punto di vista sociale: ma oggi, sull’onda della rivalutazione neo-tradizionalista, si assiste a rappresentazioni dove attrici riproducono il mesto corteo che, nel giorno di S. Paolo, riuniva a Galatina le tarantate per chiedere la grazia. Così per l’àrgia sarda, terapia coreutico-musicale cui si ricorreva per guarire dal morso di un ragno: esperienza angosciosa e dispendiosa, oggi danza e musica sono espressioni gioiose in concerti e in feste di piazza, avvertite come specificità locale identitaria. Se in Sardegna il bisogno di eutanasia non ha prodotto una figura ‘professionale’ come la cosiddetta acabbadora, ha però prodotto la figura dell’acabbadora, cioè la personificazione di un problema sempre e dappertutto sentito e patito. Etnografie spontanee su questa figura sono mosse dal bisogno di credere nella sua esistenza reale, e questo è aspetto importante del fenomeno, anche dal punto di vista della bioetica che si occupi di fine vita, che da noi ha prodotto la personificazione fantastica di un problema sempre e dappertutto sentito e patito, forse per metabolizzare una responsabilità morale, individuale e collettiva come quella del volere porre fine a interminabili sofferenze finali. Il bisogno di un “buon fine vita” in Sardegna ha creato la figura mitica di chi vi provvedeva.
Il lungo osservare vecchi e nuovi percorsi di guarigione, paralleli o intrecciati alla medicina ufficiale, l’interrogarsi sul senso e sull’efficacia delle azioni curative dei guaritori, ha documentato come queste pratiche curative popolari tradizionali riescano a dare senso alla sofferenza attraverso processi di riconoscimento e quindi di cura del male; e che così come non è possibile rinunciare a forme di gestione domestica e familiare della malattia, così non è possibile per molti, non solo nelle nostre campagne in quanto luogo di una probabile maggiore conservatività, non è possibile rinunciare a una gestione comunitaria della malattia, dove il guaritore più che uno specialista è portatore di un sapere e di un agire comuni e condivisi.
Un problema è anche l’efficacia di questi modi tradizionali di prendersi cura del sofferente. Gli antropologi hanno elaborato la nozione di efficacia simbolica, insita nello stesso processo di conferimento di senso alla sofferenza, che sia sacro o profano o entrambi, soprattutto nel rapporto empatico tra malato e guaritore, efficacia spesso carente nel rapporto odierno tra malato e apparato medico.
È anche un dato del nostro senso comune che la guarigione come la malattia siano qualcosa di non confinabile in uno dei due ambiti che diciamo mente e corpo, soma e psiche, in cui siamo soliti scindere il nostro vivere. Si parla volentieri di mali psicosomatici e di effetti placebo e nocebo, mentre trovano operatori e clienti le medicine orientali più olistiche, come lo yoga e lo shiatsu. L’antropologia medica tende a pensare in generale la guarigione non meno della malattia come un insieme complesso di elementi che diciamo biologici o corporei e simbolici o mentali. È nota l’opinione di Claude Lévi-Strauss che l’efficacia simbolica di una terapia, altrimenti inefficace secondo il punto di vista biomedico, è il risultato della proiezione di pensieri, emozioni e malesseri individuali in un quadro mitico di simboli e metafore condivise da una comunità di cultura. Si tratterebbe di una dimensione operativa governata appunto dal gesto rituale e dalla parola mitica, sacra, dove si stabilisce un nesso efficace tra rituale, racconto ed esperienza del malessere, secondo concezioni e processi riconoscibili anche nelle varie forme di psicoterapia occidentale, ridotte troppo però a una precaria dimensione individuale di senso e di cura. Il divano dello psicologo è infatti una metafora di quanto il malessere e la sua cura sono diventati, da eventi collettivi, problema individuale.
La guarigione è simbolica e collettiva, anche senza Lourdes o Padre Pio, secondo un andamento nel quale il guaritore (medico o altro) media nel paziente la definizione di un mondo simbolico interiore fatto anche di “simboli terapeutici”, dove il gesto, la parola, lo strumento, il farmaco, il rito, la comunicazione e i rapporti sociali giocano tutti insieme la loro parte. Il buon terapeuta è sempre stato un buon manipolatore sia dei mezzi materiali sia dei mezzi simbolici della cura. Nel guaritore tradizionale, nel mago, nello stregone, nell’empirico, il ‘popolo’ o il ‘nativo’ ricerca soprattutto un tale tipo di terapeuta, che è sentito carente nell’apparato biomedico istituzionale.
Quando si fa attenzione al rapporto fra operatore terapeutico e paziente nel suo ambiente sociale, ci si accorge di tutti quei “manipolatori dell’invisibile” quali osservatori di corpi, sciamani, divinatori, medium, maghi anche televisivi, che si muovono nei dintorni della terapia egemoni, a distanze più o meno decise dalla biomedicina e dalla taumaturgia religiosa. A parte la loro professionalizzazione anche nel compenso a tariffa, un aspetto che ricorre e s’impone, come nel caso dei guaritori tradizionali, è l’uso del termine e delle modalità del dono. Dono è la capacità di guarire acquisita dal mediatore di guarigione (molto più spesso, anche in Sardegna, guaritrice), dono è la sua prestazione, dono è la sua remunerazione qualunque essa sia. Ancora oggi molti guaritori tradizionali sembrano usare il termine dono in tutti questi sensi, con la tendenza a intendere una zona di scambio sociale dove la gratuità circola come un bene impagabile e non oggetto di scambio mercantile, ma soggetto all’obbligo umano del dare, del ricevere, del contraccambiare, dove il risultato finale e generale è la guarigione. Il dono terapeutico risulta pensato come il risultato di una mutua assunzione di responsabilità della cura, una vera, antica, sperimentata “cassa mutua” in cui tutti più o meno danno, ricevono, contraccambiano e aumentano insieme il capitale terapeutico comune
Molti documenti mostrano che ancora nelle nostre campagne c’è in forma residuale un’efficacia terapeutica del dono come fatto sociale totale, con la sua gratuità, cioè con la grazia in tutta la sua carica di sensi, grazia richiesta data e ricevuta attraverso la mediazione di un qualcosa o un qualcuno, o meglio forse di un tutt’uno, comunque pensato, di cui specialmente la salute individuale è dono o risultato, in fondo gratuito, sebbene in qualche modo meritato, mediato e impetrato, come per altro e solo in parte testimoniano dappertutto nel mondo cattolico le collezioni esposte di ex-voto per grazia ricevuta, nei santuari come anche oggi a volte nell’“ambulatorio” del guaritore o del mago, e molto meno nello studio del medico. I molti mediatori e la folla di fruitori del guarire tradizionale e/o ‘alternativo’ ribadiscono che il rapporto terapeutico più soddisfacente è un evento collettivo, un processo interumano, guidato al meglio dal gratuito, non riservata solo ai luoghi e ai modi impersonali della sanità ufficiale, tanto più se orientata dal mercato, incapace talvolta del dono della parola e del gesto curativamente efficaci.
da qui

domenica 12 luglio 2015

Saperi medici plurali (1) - Giulio Angioni

Poche altre cose umane mobilitano la totalità del fare, del dire e del sentire quanto la malattia e la guarigione, il malessere e la sua risoluzione. E ne mettono in evidenza il carattere di collettività, di fatto sociale totale.
L’antropologia medica (o del corpo o della malattia o della salute) insiste sulla pluralità dei modi anche compresenti di gestione e di trattamento della malattia, oltre che sulla diversità dei tipi di addetti, dei rapporti, dei saperi, dei contesti culturali che danno senso e sollievo al malessere. Oggetto principale di un’antropologia medica è la coesistenza di sistemi medici diversi, di diversi tipi di concezioni e di pratiche di guarigione, cosa molto tipica, da tempo, anche della nostra cultura occidentale come di tante altre in ogni tempo e luogo.
Oggi le concezioni e le pratiche mediche non possono che essere viste come una pluralità in coabitazione più o meno difficile, anche presso di noi in Occidente dove domina e intende dominare ciò che diciamo biomedicina scientifica, o meglio, forse, le varie biomedicine scientifiche, anch’esse piuttosto plurali nella loro articolazione interna, e tra l’altro oscillanti fra pubblico e privato, welfare e mercato, e nell’asimmetria delle possibilità di accesso alle cure e ai farmaci.
Molti studi e ricerche di etnomedicina e di demoiatria offrono documenti della pluralità di pratiche, di concetti, di terapeuti, di sistemi medici riscontrabili in varie parti del mondo, anche da noi quando documentano ciò che rimane come ‘medicina popolare’, mentre oggi la pluralità medicale interna ed esotica si assomma nelle nostre città plurali, dove la diversità e la pluralità del mondo si riproduce in ogni luogo. Gli studiosi, compresi i raccoglitori locali di medicina popolare, non sono alieni dal pensare questa loro documentazione (che è anche documentazione della pluralità medica interna a un contesto sociale) come una prova di ricchezza piuttosto che di confusione, arretratezza, contraddittorietà. Documentare l’esistenza di modi di guarigione ereditati per vie non ufficiali e perfino illegali, nelle campagne del Terzo Mondo e non solo, oggi come ieri, dà conto della varietà odierna dei modi di concepire la malattia e di guarirne, con la possibilità di confronti e comparazioni, come nel caso della fenomenologia dell’efficacia simbolica dei gesti di cura o degli stati alterati di coscienza.
Ancora oggi come in altri tempi in Europa i guaritori sono in parte manipolatori e/o erboristi e spesso anche ‘esorcisti’. In luoghi come la Sardegna era diffusa la credenza in individui, soprattutto donne ‘spiritate’ (spiridadas), capaci di operare diagnosi e guarigioni prodigiose con l’aiuto di uno spirito aiutante, come pure di far ammalare per suo tramite. Nel mondo cattolico e ortodosso anche i preti erano considerati in grado di esercitare il bene (la guarigione, l’esorcismo) o di infliggere il male (la malattia soprattutto) con l’intermediazione di questi spiriti, qualificati variamente come anime dannate o beate, diavoli o angeli o santi. I sinodi condannano spesso gli abusi della credulità popolare da parte del basso clero, i cui membri soprattutto nelle campagne e sulle montagne erano considerati i massimi esperti nel fare e nello sciogliere malefici.
I guaritori odierni operano con varie commistioni di pratiche e credenze popolari di lunga tradizione locale o di recente importazione (comprese pranoterapia e perfino omeopatia), anche quando si definiscono maghi o maghe. La giustapposizione delle cure e delle concezioni (magismo residuale o nuovo, cristianesimo popolare, spiritismo, esoterismo) sono tipiche di questi terapeuti, che sembrano prediligere l’efficacia dei simboli, cioè delle liturgie del gesto e della parola, anche in quanto capaci di rafforzare le difese reattive dell’organismo.
Il tema più importante e più proprio dell’antropologia medica sembra quello della pluralità dei ‘percorsi di guarigione’, ai quali i malati ricorrono con disinvoltura. Anche studi italiani recenti documentano come la medicina popolare tradizionale, così come sussiste e persiste ancora oggi specialmente nel Sud e nelle isole e nella montagna più a lungoisolata, ha suoi modi di concepire il malessere e suoi modi di efficacia terapeutica, degni di studio, dalle eziologie alle diagnosi alle terapie e alle prevenzioni in quanto sapere sia comune, sia di specializzazioni individuali a volte col sigillo del segreto di mestiere. Di solito il malato e i suoi parenti e sodali si trovano, forse oggi più di ieri, di fronte a una pluralità di visioni e di pratiche, e quindi di scelte più o meno sovrapposte dove trovare senso e rimedio.
Come ogni crisi, la malattia è anche crisi di senso, anche in quanto vissuta in pluralità di riferimenti, di concezioni e di pratiche in cui configurare il malessere e rispondergli. E se l’esperienza della malattia è vissuta in modi diversi, essi però convergono nell’emergenza di un individuo sofferente, devono convergere con la duttilità imposta dalle situazioni, dove i diversi percorsi di senso e di cura non devono contraddirsi, ma la flebo, la preghiera cattolica e lo scongiuro ‘pagano’ devono fare sinergia con le spiegazioni della malattia basate sul destino non meno che sulla provvidenza.
Il pluralismo è già nel sistema biomedico ufficiale, non solo risultato delle diverse medicine compresenti. La medicina tradizionale, popolare e subalterna spesso non appare meno sicura di sé, di fronte ai poteri di controllo del corpo da parte dello Stato, del mercato, delle istituzioni religiose e di fronte alla tendenza della biomedicina a imporsi come unica legittima e valida. La capacità della medicina tradizionale subalterna (e quindi del guaritore tradizionale) di dare senso al malessere e sollievo al sofferente risiede nella sua sicurezza di esserne capace; e in ciò si distingue dallo sperimentalismo della medicina ufficiale, che sa ammettere le sue impotenze.
La contrapposizione tra sistemi medici spesso non è esplicita. La medicina popolare non muove attacchi critici alla biomedicina, si estranea dalle complesse questioni giuridiche, etiche e morali. Ma il guaritore tradizionale è in un campo di rapporti di forza dove il malato (o chi per lui) fa le scelte del caso sul proprio corpo e sulla propria salute. E queste scelte, che tra l’altro hanno a che fare con rapporti di potere sia locali che più vasti, non tengono conto di distinzioni nette tra razionale e irrazionale, empirico e scientifico, sacro e profano, magico e scientifico ecc, se non altro perché soprattutto il dolore non si lascia distinguere in e da questi ambiti e non si presta a partizioni nette tra concezioni e relative pratiche, e neppure tra azione e comprensione. Tenere la mano e parlare a chi soffre è spesso meglio di un farmaco, come sappiamo tutti, meno, a volte, gli operatori della medicina ufficiale.

sabato 11 luglio 2015

In Amazzonia - Christiana de Caldas Brito

Vi racconto, senza bisogno di commenti, una storiella brasiliana.
Siamo in Amazzonia. Non lontano dal grande fiume. Nella foresta, si sviluppa un terribile incendio.

Le fiamme cominciano la loro distruzione. Il fuoco si propaga, fa ardere la vegetazione, provoca la caduta degli alberi.
Un uccellino vola, in mezzo al fumo provocato dall’incendio. Si avvicina al fiume, prende con il becco una goccia d’acqua, vola verso la zona dell’incendio e fa cadere la goccia d’acqua. Ritorna al fiume, prende un’altra goccia, vola verso l’incendio e la butta giù. Ripete questo in continuazione. Gli altri animali vedono l’uccellino indaffarato e uno di loro gli grida: “Guarda che non serve a nulla quello che stai facendo! Non riuscirai mai a spegnere l’incendio. Le fiamme vanno avanti lo stesso. Le gocce che mandi giù sono inutili!”
Senza fermarsi, l’uccellino risponde: “Non so se riuscirò a spegnere l’incendio, solo so che sto facendo la mia parte.”

venerdì 10 luglio 2015

Arrivano i nostri

Si intitola Arrivano i nostri!, vede la partecipazione straordinaria di Elio, ed è un brillante, provocatorio cartone animato diffuso da Survival International per denunciare la distruzione dei popoli indigeni del mondo, spesso operata nel nome dello “sviluppo”.
In soli due minuti, il cartone animato mostra come lo “sviluppo” possa privare popoli indigeni autosufficienti delle loro terre, delle loro risorse e della loro dignità, trasformandoli in mendicanti.
Basato sul fumetto omonimo di Oren Ginzburg, già pubblicato da Survival, il film racconta con illustrazioni brillanti e umorismo tagliente l’arrivo di alcuni “esperti” in una immaginaria comunità della foresta, che rapidamente si ritroverà senza più nulla, ai margini di una baraccopoli.
Messaggio cardine del cortometraggio è quello che i popoli indigeni sanno decidere da soli cos’è meglio per loro stessi, e che l’imposizione di certe forme di sviluppo può finire solo col distruggerli.
“Che razza di progresso è quello che ti fa vivere meno di prima?” ha chiesto il boscimane Roy Sesana a Survival.
Arrivano i Nostri! si ispira a storie reali. In India, in Etiopia, in Canada e in altre parti del mondo, l’imposizione dello “sviluppo” ai popoli indigeni continua ancora oggi, con conseguenze devastanti.
Il governo etiope, per esempio, sta sfrattando e reinsediando a forza oltre 200.000 indigeni della bassa valle dell’Omo, con l’obiettivo dichiarato di dare loro una “vita moderna”. I diritti delle tribù alla consultazione a al libero, prioritario e informato consenso – sanciti dalla Dichiarazione ONU sui popoli indigeni, dalla legge internazionale e anche dalla stessa Costituzione etiope – sono brutalmente ignorati.
“Stiamo aspettando di morire. Siamo disperati” racconta un uomo Mursi. “Quando il governo ci avrà messi tutti in un villaggio, non ci sarà più spazio per le coltivazioni; i miei figli avranno fame e non ci sarà cibo.”
La Cooperazione italiana mantiene da anni un rapporto privilegiato con l’Etiopia, che recentemente è stata riconfermata come uno dei paesi prioritari per il triennio 2013-2015, con un raddoppio dei fondi stanziati rispetto al triennio precedente.
Survival sta quindi sollecitando i suoi sostenitori a scrivere alla Farnesina per scongiurare qualsiasi forma di complicità nella catastrofe umanitaria che incombe nella Valle dell’Omo, e per chiedere che l’erogazione degli aiuti italiani sia subordinata al rispetto dei diritti dei popoli indigeni e all’interruzione degli sfratti da parte delle autorità etiopi.
“Non è che gli Yanomami rifiutino il progresso o che non vogliano le cose che hanno i Bianchi" spiega Davi Kopenawa. “Vogliamo solo avere la possibilità di scegliere, senza essere costretti a cambiare a tutti i costi, volenti o nolenti.”
“Portare lo ‘sviluppo’ ai popoli tribali contro la loro volontà è un’abitudine antica” ha dichiarato Stephen Corry, direttore generale di Survival. “Risale all’epoca coloniale e giunge fino ai giorni nostri camuffata negli eufemismi del ‘politically correct’. Il suo obiettivo è però sempre lo stesso: permettere a qualcuno di appropriarsi delle terre e delle risorse altrui.”
“I popoli indigeni sono perfettamente in grado di valutare e decidere da soli quale direzione dare al proprio sviluppo” aggiunge Francesca Casella direttrice di Survival Italia. “Interferire nelle loro vite ‘per il loro bene’, senza il loro consenso, è una presunzione razzista e devastante. La storia dimostra ampiamente che chi viene sfrattato e costretto a cambiare stile di vita contro la propria volontà finisce inesorabilmente per soffrire un peggioramento sotto ogni punto di vista: fisico, economico e psicologico. Governi e società non possono accampare alibi”.

sabato 4 luglio 2015

Un filo di lana guida l’Isola verso il futuro. A Guspini un distretto industriale ecosostenibile - Piero Loi


Un filo di lana conduce la Sardegna verso un futuro più sostenibile fatto di risparmio di energia, bonifica delle aree inquinate, prevenzione dal dissesto idrogeologico. Fino a pochi anni fa non sarebbe stato possibile immaginare le mille applicazioni che la lana di pecora (razza sarda) può avere. Nè scommettere che il Medio Campidano avrebbe ospitato un distretto industriale capeggiato dalla Edilana di Daniela Ducato e composto ormai da diverse aziende che uniscono innovazione, sostenibilità ambientale e vecchi saperi.
Chi l’avrebbe mai detto, infatti, che il vello degli ovini può ripulire i terreni contaminati dalle sostanza inquinanti? E in quanti avrebbero potuto prevedere che l’utilizzo della lana in agricoltura riduce drasticamente (fino al 60%) il consumo di acqua? Proprio così, tutto vero. Soprattutto, qui non c’è niente di taumaturgico, ma solo scienza applicata a un materiale su cui si pensava di sapere tutto. E che invece possiede delle proprietà che permettono di neutralizzare gas nocivi e metalli pesanti come formaldeide, ossidi di azoto e di zolfo. E la capacità di trattenere l’umidità del terreno, favorendo il risparmio dell’acqua. Oltretutto, una volta sistemata sottoterra,  non c’è neanche bisogno di levarla via: la lana è biodegradabile. A indicare questa nuova frontiera è stata l’Edilana, che nel frattempo ha inaugurato una nuova linea di produzione che va sotto il nome di Edilatte. Cosa c’entra l’edilizia con il latte? C’entra eccome, visto che dagli scarti della lavorazione del latte l’azienda di Daniela Ducato ottiene pregiati intonaci
Tra i materiali ecosostenibili oggi impiegati dall’industria, non c’è dunque solo la lana. Né una sola azienda. Sempre lì, a Guspini (dov’è di casa la stessa Edilana) c’è anche la Nuove Tecnologie di Graziella Caria che oltre a fabbricare forni solari si occupa di coibentazione degli interni, utilizzando la lana insieme al sughero, alle fibre di legno e alla canapa. Al posto del polietilene e altri prodotti provenienti dai poli petrolchimici. Anche l’azienda Venas, sempre di Guspini, utilizza la lana per confezionare oggetti che sono qualcosa di più di semplici gadget. Ecco, infatti, l’I-sheep, un porta cellulare che sfrutta una virtù del vello ovino poco conosciuta: la lana di pecora blocca infatti le onde elettromagnetiche generate dagli smartphone. Insomma, se si parla di eco o bio-sostenibilità a Sinnova ce n’è davvero per tutti i gusti, ma un minimo comune denominatore emerge con forza: spesso è il passato a guidare le traiettorie del futuro. Vale a dire che le pecore continueranno ad essere una risorsa preziosissima nella Sardegna di domani, anche per ragioni diverse dalla produzione del latte.

I sogni senza limiti di Alexander Langer - Franco Lorenzoni

Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita”. (…) “La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.
Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, uno dei suoi testi più profondi e generativi che, fosse per me, lo ripubblicherei di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.
In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le regioni dell’ex Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei a impegnarsi, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita con altri al Verona forum per la pace e la riconciliazione nei territori dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.
Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel 1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica.
Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua prima rivista, Offenes Wort (parola aperta) e, più tardi, Die Brücke (il ponte): un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per tenere su l’arco.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita
Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto Adige-Südtirol lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.
Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a “ripristinare, nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.
Quando studiava nella Firenze di La Pira e della comunità del dissenso cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una professoressa, scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani. La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero buffo, al tempo della sua tournée in Germania.
Alex era profondamente convinto che una “storia” unica e condivisa da tutti non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione plurietnica lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.
Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il suo campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa, al di là di ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a fianco di chi era più fragile e vulnerabile.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita.
Ascoltate per esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti:
Popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno.
La distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati
Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini” di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual era.
Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i sei miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi privilegi.
Eppure, “perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, spiega Langer in un altro suo scritto, “è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza)”. Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.
Continuare in ciò che è giusto
Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto apprezzato per il suo lavoro nel parlamento europeo, in quel luogo sentiva di essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno, attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.
Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di Berlino.
E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario perché le idee di trasformazioni radicali, sentite come necessarie, avessero il tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.
Quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta
Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta.
Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze.
Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.
Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole: “Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”.
Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica, un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8.372 musulmani di Bosnia commesso dalle truppe di Ratko Mladić.
Vent’anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici, ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’egomania collettiva più diffusa oggi”.

·         Un’antologia dei suoi scritti è Il viaggiatore leggero (Sellerio). Altri materiali e una ricca documentazione si possono trovare sul sito alexanderlanger.org.

venerdì 3 luglio 2015

Rifiuti (molto) speciali

Mettendo ordine ho trovato tre barattoli mezzi vuoti, uno di acquaragia e due di vernice, mezzo litro in tutto.
Li ho messi in una scatola e li ho portati, in macchina, all’ecocentro (una struttura fra più comuni per i rifiuti che non passano abitualmente a prendere fuori casa), per lo smaltimento.
Questi rifiuti non possiamo ritirarli, mi dicono, non siamo autorizzati, sono altamente tossici e inquinanti, neanche i barattoli vuoti, possiamo prendere, mi dicono, Cosa ne faccio, chiedo all’operaia, Provi all’impresa qui vicino, che tratta rifiuti tossici e pericolosi.
Risalgo in macchina, arrivo, e al citofono, neanche fosse una caserma, spiego la situazione. Mi dicono che loro fanno quel servizio, ma che fra analisi e tutto mi costerebbe un centinaio di euro, non le conviene, risolva in altro modo, mi dicono.
Torno a casa, faccio un giro di telefonate, Comune, struttura consortile, la risposta è la stessa, quei materiali sono tossici e pericolosi, non possiamo prenderli.
A questo punto posso fare tre cose:
1 – buttare i barattoli in campagna
2 – versare il contenuto nel wc
3 – pagare 100 euro
4 – altro che non so?

Due domande:
1 - se quelle sostanze sono tossiche, pericolose, inquinanti, perché non venderle solo a operatori e imprese qualificate, che si faranno carico anche dello smaltimento dei residui?

2 –perché non obbligare i venditori di vernici e affini a vendere a prezzi comprensivi dello smaltimento e a ricevere residui dei barattoli e i barattoli?

giovedì 2 luglio 2015

L’umanità è in pericolo - João Pedro Stedile

Durante il periodo della Guerra Fredda, tra gli anni 1945-1990, i giornali annunciavano ogni giorno che l’umanità si trovava di fronte al pericolo di una guerra nucleare, che avrebbe distrutto il nostro pianeta. Per fortuna questo non è avvenuto. Tuttavia, ora, ci troviamo di fronte ad un pericolo simile, che non arriverà dalle bombe o dalle guerre, con la loro stupida distruzione. Ora siamo di fronte a una distruzione lenta, graduale, ma permanente, dei nostri popoli. Una distruzione prodotta dall’uso di veleni agricoli e dal controllo che le multinanzionali hanno degli alimenti di tutta l’umanità.
Con l’egemonia del neoliberismo e del capitale finanziario, negli ultimi venti anni,l’economia mondiale è stata dominata dal capitalismo e controllata da non più di cinquecento imprese transnazionali. Queste detengono il 58 per cento di tutta la ricchezza, ma danno lavoro solo all’8 per cento della popolazione. E questa forza egemonica controlla anche l’agricoltura e la produzione alimentare. Meno di cinquanta imprese controllano in tutto il mondo la produzione di veleni agricoli, la costruzione di macchine agricole, controllano l’agroindustria e il commercio degli alimenti. Ci hanno imposto una matrice tecnologica basata sui semi geneticamente modificati, sulla meccanizzazione su larga scala e l’uso intensivo di veleni.

Espellono manodopera dalle campagne, che va a gonfiare le città e a migrare verso altri paesi. Le imprese multinazionali di Expo Milano sono quelle che producono Lampedusa! Questo modello dell’agrobusiness è anti-sociale, è insostenibile a medio termine sotto l’aspetto economico ed ecologico.
Perché è un modello che distrugge la natura ed esclude le persone dal loro sviluppo. Come diciamo in Via Campesina è una agricoltura senza agricoltori! E questo non ha futuro. Le conseguenze sono lì davanti ai nostri occhi, denunciate anche da papa Francesco, nella sua enciclica (leggi anche Il Cantico che non c’era di Paolo Cacciari) e nelle sue dichiarazioni.
Questo modello distrugge la biodiversità, perché i pesticidi uccidono ogni essere che vive in quello spazio, siano essi piante, batteri o animali. Contaminano l’aria e l’acqua. E i loro residui vanno negli alimenti, che, consumati quotidianamente, si trasformano in malattie di ogni genere, e in particolare generano cancro, perché distruggono le cellule del corpo umano.
Qui in Brasile, dopo aver implementato questo modello, sono state espulse quattro milioni di famiglie contadine. E il paese è diventato il più grande consumatore al mondo di veleni agricoli. E ogni anno, ci sono 500.000 nuovi casi di cancro tra la popolazione, come ha denunciato l’Istituto nazionale del cancro, del ministero della salute. Questo è il costo che il popolo paga, per permettere che alcune aziende facciano soldi esportando soia, cellulosa, etanolo e carne di manzo.

Ma al capitale non interessa la vita umana, lo stare bene, l’equilibrio della natura. Al capitale interessa solo il profitto, l’accumulazione di ricchezza. Per tutto questo noi ci uniamo a tutte le voci del mondo, ora in questo Convegno alternativo di Milano, per dire che l’Expo di Milano è l’esposizione del profitto e della morte.
È l’Expo dell’esibizionismo di una mezza dozzina di imprese transnazionali, che lo usano come propaganda ideologica per giustificare, legalizzare il loro modello che concentra, esclude e si impadronisce di tutti gli alimenti nel mondo, che elimina le abitudini culturali dei popoli.
Non dobbiamo scoraggiarci davanti alla dimensione del potere economico. Le sue contraddizioni stanno già evidenziandosi in tutto il mondo, e la società sta divenendo cosciente che questo modello non serve all’umanità. Sono sicuro che nei prossimi anni avremo molte manifestazioni in tutto il mondo, perchè ci siano cambiamenti, e possiamo costruire un altro modo di produrre cibo, nel rispetto della natura e delle abitudini alimentari di ogni territorio.
Il futuro non è a Milano e nei loro conti bancari. Il futuro è nell’agricoltura che produce cibo sano.