Sono passati cinque anni dallo scoppio nel golfo del
Messico. Mi ricordo dove ero quel 20 aprile – era mattina ed ero a casa e mi
chiamò il mio amico Tom Chou, lo stesso con cui scrissi l’articolo
dell’idrogeno solforato, per dirmi di questo disastro in Louisiana.
In questi cinque anni, articoli di stampa, articoli scientifici, leggi,
decisioni di corti di vario livello, miliardi di dollari pagati e richiesti –
con l’ultimo pagamento di 18.7 miliardi che la BP dovrà versare al governo
federale per i danni causati e che vanno ad aggiungersi agli altri 30 già
pagati.
Dopo cinque anni delle tante cose che si possono dire, quella più vera è
che siamo solo all’inizio e che ci vorranno anni ed anni per arrivare ad
una qualche semblanza di normalità per chi ha perso salute, stile di vita e a
volte anche lavoro.
Una delle lezioni piu interessanti arrivano dall’incidente della Exxon Valdez, nel1989. Dopo neanche
trent’anni, quasi tutti coloro che hanno lavorato alle operazioni di pulizia
sono tutti morti o malati.
La vita media per chi ha lavorato in Alaska dopo lo
scoppio è stata di cinquantuno anni.
I pochi rimasti in vita soffrono di tossi persistenti, lacrimazione agli
occhi, nausea, vomito e dolori in tutto il corpo. La persona tipica che si rese
disponibile ad aiutare nelle operazioni di pulizia in Alaska era economicamente
in difficoltà (e chi sennò andrebbe di sua spontanea volontà in mezzo al
petrolio?) che per sei settimane ha spruzzato acqua bollente in mare e lungo la
sabbia con evaporazione di petrolio in atmosfera. Che ha ovviamente inalato.
Al tempo dello scoppio, la ditta e i lavoratori la chiamavano “Exxon crud”.
Era una specie di tosse petrolifera, visto che era diffusissima fra gli
addetti. E siccome era consierata una specie di influenza, nessuno ci pensò
troppo. La Exxon ha eseguito nel corso degli anni ogni tipo di studio su ogni
tipo di animali ed esseri viventi entrati a contatto con il petrolio: granchi,
cozze, pesci, papere, aquile e pure cervi ed orsi, ma mai persone.
Fra chi è rimasto in vita Roy Dalthorp, a suo tempo disoccupato e che dopo
le sue seti settimane ha sviluppato problemi di respiro e di lacrimazione che
durano tuttoggi. Nessuno della Exxon l’ha mai esaminato, né durante né dopo le
operazioni di pulizia. Lui dice di
essere stato lentamente
avvelenato.
“I had no choices,
because I was behind on my house payments, and no health insurance”.
Entra in scena Dennis Mestas, avvocato che inizia a indagare le cartelle
cliniche dei lavoratori della Exxon a Houston. Su 11.000 lavoratori della Exxon
con sede in Alaska, 6,722 si sono ammalati. Decide che uno dei casi più
lampanti era quello di Gary Stubblefield, con la stessa storia di Roy Dalthorp:
problemi di respiro e di generale cedimento fisico. La Exxon lo paga 2 milioni
di dollari, pur di non andare a processo. Pochi altri ex lavoratori hanno avuto
la stessa “fortuna” di essere risarciti.
D’altro canto, la Exxon ribadisce che non può commentare o confermare
le cifre dei lavoratori ammalati perché questi erano temporanei e non si
sa che malattie avessero sviluppato prima o dopo. E aggiungono che nessuno si è
lamentato con loro. E quindi… tuttapposto.
E per le operazioni di pulizia della BP? I lavoratori della BP hanno
respirato metano, benzene, idrogeno solforato e il dispersante Corexit e
secondo il tossicologo Ricki Ott, fra i lavoratori della Louisiana ci sono
stati gli stessi esatti sintomi che in Alaska nel 1989. Ci si lamenta di mal di
testa, fatica, problemi intestinali e di concentrazione e memoria, irritazione
alla gola e agli occhi, mancanza di respiro, tosse e nausea. Esiste pure una
nuova malattia: Tilt, toxicant-induced loss of tolerance, per descrivere i
malati delle operazioni di pulizia petrolifera.
Fra i lavoratori della BP almeno in 160 si sono ammalati
e in venti sono finiti all’ospedale. Ma la BP specifica: “per poco tempo”.
Non abbiamo imparato niente. Evviva.
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