Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più
comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di
immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e
cosmopolita”. (…) “La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa,
plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità,
non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si
dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in
situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per
ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.
Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo
per la convivenza interetnica, uno dei suoi testi più profondi e generativi
che, fosse per me, lo ripubblicherei
di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In
uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori
di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Occorrono “traditori
della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.
In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le
regioni dell’ex Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei a
impegnarsi, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere
aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita
con altri al Verona forum per la pace e la riconciliazione nei territori
dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla
guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.
Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel
1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era
ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica.
Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo
italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua
prima rivista, Offenes Wort (parola aperta) e, più tardi, Die Brücke (il
ponte): un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia
del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del
cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per
tenere su l’arco.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è
stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita
Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto
Adige-Südtirol lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni
interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.
Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che
passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un
piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni
dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a “ripristinare,
nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è
stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.
Quando studiava nella Firenze di La Pira e della comunità del dissenso
cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una
professoressa, scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani.
La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in
simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici
dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero buffo, al
tempo della sua tournée in Germania.
Alex era profondamente convinto che una “storia” unica e condivisa da tutti
non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al
loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione
plurietnica lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.
Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso
insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il suo
campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti
scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto
ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa, al di là di
ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a
fianco di chi era più fragile e vulnerabile.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano
e intellettuale che ha dato forma alla sua vita.
Ascoltate per esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti:
Popolo mite
e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli
e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo
sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono
territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte
della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom
e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e
sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi,
e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno.
La
distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il
loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i
pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una
volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di
‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia
posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli
stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati
Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento
per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai
abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo
carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini”
di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual era.
Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte
Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi
non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i sei
miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al
tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché
chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi
privilegi.
Eppure, “perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, spiega Langer
in un altro suo scritto, “è necessaria una conversione ecologica della
produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della
vita quotidiana. Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi
di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di
produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni
forma di violenza)”. Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più
veloce, più alto, più forte, da trasformare in “più lentamente, più
profondamente, più dolcemente e soavemente”.
Continuare in ciò che è giusto
Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a
cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza
istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di
scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare
posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto
apprezzato per il suo lavoro nel parlamento europeo, in quel luogo sentiva di
essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno,
attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.
Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a
Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero
presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di
Berlino.
E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe
piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago
di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per
ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica
nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex
premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario
perché le idee di trasformazioni radicali, sentite come necessarie, avessero il
tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di
sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.
Quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro
senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità
diventa assoluta
Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è
sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze
sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro
senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità
diventa assoluta.
Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente
la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze.
Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il
bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti
bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.
Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra
Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole: “Forse è troppo arduo essere
individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza:
troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che
inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa
oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e
non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce
a compiere”.
Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica,
un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel
paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di
pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8.372 musulmani
di Bosnia commesso dalle truppe di Ratko Mladić.
Vent’anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici,
ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio
credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo
viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’egomania
collettiva più diffusa oggi”.
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Un’antologia dei suoi scritti è Il viaggiatore leggero (Sellerio). Altri materiali e una
ricca documentazione si possono trovare sul sito alexanderlanger.org.
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