domenica 31 maggio 2020

Il caporalato, il caporale e i protettori - Mimmia Fresu

A seconda dei periodi, nei campi occorre maggiore manodopera e occorre averla in tempi brevi; a questo compito provvede il caporale che rifornisce il committente di uomini e mezzi in tempi rapidissimi, andando all’alba a selezionare nei punti di ritrovo stabiliti decine di lavoratori per essere trasportati nei campi e poi riportarti indietro la sera.
Il caporale è un anello importante della catena dello sfruttamento, un’economia parallela al sistema del lavoro nero e dello sfruttamento della manodopera. Uno sfruttatore dentro il sistema di sfruttamento che prende soldi dall’azienda committente e anche dal singolo lavoratore.
Scrive la Flai-Cgil: “Un caporale è un parassita che vive del lavoro degli altri, ed è questo il vero business dell’immigrazione. Sono centinaia e migliaia di persone senza diritti che vivono a ridosso delle campagne, nelle bidonville, che si muovono di provincia in provincia seguendo le campagne di raccolta, nell’indifferenza generale perché fa comodo a tutti, anche all’economia del territorio.”
Un sistema che conviene a tutti, aziende e caporali, anche alla politica, gli unici che ci rimettono sono quelli che si rompono la schiena per 20 euro, dall’alba al tramonto, e le poche aziende oneste che devono fare i conti con la concorrenza sleale di chi risparmia sul costo della manodopera.
Seconda la Flai, il sistema del caporalato è un vero business: usano pullmini da 15-30 posti, fanno 4 o 5 viaggi al giorno compreso il ritorno, 15 euro a persona trasportata, per tre mesi. Quindi, 15 persone X 5 viaggi X 15 € fanno 1.125€ al giorno X 90 giorni= 100mila euro”. Da non trascurare che la platea degli schiavi si aggira sulle 450mila persone; da Sud a Nord, dai pomodori del Salento alle mele del Trentino.
Al netto della sottrazione dei diritti ai lavoratori e del danno erariale e contributivo del lavoro nero, il costo pagato dallo Stato per il caporalato è intorno a 3,5 miliardi di €.
È questa mafia, questa montagna di merda, per dirla con Peppino Impastato, con i cui metodi, nell’Italia del terzo millennio, sono organizzati mezzo milione di schiavi, cio che la destra – Salvini, Meloni e l’isteria sentita in parlamento della Gelmini, la cosiddetta destra moderata – intendono difendere col ricorso alla piazza, se necessario?
La legge 199 contro il caporalato è nata nel 2016, eppure, nell’epoca dei droni che scovano tra le vie della città chi viola i vincoli da coronavirus; dei satelliti intorno al globo capaci di leggere la targa dell’auto; i caporali operano indisturbati, nel reclutamento nei luoghi e ore a tutti noti, lungo tragitti che tutti conoscono, grazie alla copertura di una parte della politica complice e l’altra pusillanime, con i calzoni pisciati.
da qui

sabato 30 maggio 2020

La tecnologia: soluzione o parte della malattia? - Francesco Fantuzzi



La Zona rossa ci ha offerto, in questi due interminabili mesi, una straordinaria opportunità di mutamento delle nostre modalità di lavoro e di azione. Telelavoro, riunioni on line, lavoro agile dalle proprie abitazioni rappresentano, infatti, non soltanto una modalità essenziale per evitare il contagio, ma anche un fondamentale ripensamento della nostra operatività in chiave ambientale: meno autovetture in giro significa meno CO2 prodotta, polveri sottili, code interminabili, meno impatto sul pianeta, più qualità della vita.
Ma siamo certi che sia tutto così chiaro e lineare? Non sarà forse che anche la tecnologia, quella stessa tecnologia che ora ci offre le soluzioni, sia parte del problema?
Non occorre essere virologi (ma oggi pare lo siano tutti) per cogliere nel cosiddetto spillover, ovvero nel salto di specie, una conseguenza dell’accorciamento delle distanze tra uomo e animali generata dall’inesorabile azione umana sull’ambiente, dove le devastazioni causate dall’avanzamento tecnologico rappresentano una parte rilevante: disboscamenti e urbanizzazioni di vario genere per accogliere le mirabolanti tecnologie del futuro, come il 5G, le cui conseguenze sulla nostra salute non sono state adeguatamente sperimentate.
Come diversi studi testimoniano, è ormai certo un legame tra la diffusione del virus e i livelli di inquinamento, che non a caso sono più pesanti dove i territori sono più antropizzati. L’antropizzazione non è legata soltanto alla presenza di agglomerati urbani con relativa concentrazione abitativa e consumo di suolo, ma anche agli insediamenti industriali e agli allevamenti sempre più automatizzati, senza dimenticare i vari supporti tecnologici per la diffusione di internet.
Ne deriva che, dove è maggiormente presente lo sviluppo tecnologico, è ragionevolmente più probabile l’attecchimento del virus. Come può allora, quella che è essa stessa parte della malattia, rappresentare la medicina?
Possiamo essere certi che le tecnologie siano meri e neutri strumenti o che basti monitorarne e tenerne sotto controllo gli effetti?
La storia recente, purtroppo, ci mostra diversi casi in cui la malattia è stata confusa, non è dato sapere se volutamente o meno, con la soluzione.
Il lavoro a casa può offrire una soluzione per proteggerci dal contagio e ridurre l’inquinamento. Ma se poi, nell’attrezzare le nostre case con la tecnologia adeguata, devastiamo l’ambiente, rischiamo di accorciare ulteriormente le distanze con le specie animali? E se, per diffondere le applicazioni che pare tracceranno i contatti col virus, abbatteremo alberi per renderne possibile lo sviluppo?
Quesiti cui ho cercato di avvicinarmi con un approccio non “complottistico”, col quale ormai si bolla ogni teoria non mainstream, ma improntato a un sano principio di precauzione e prudenza.
Sono pervicacemente convinto che  occorra un cambio di visione del nostro essere e stare sul pianeta, al fine di decolonizzare l’effetto del ricatto del PIL, ridurre i consumi, modificare gli stili di vita che rendano possibile a tutti l’accesso all’acqua, al cibo, alla sanità, alla stessa tecnologia. Quella tecnologia che dovrà essere sempre più lo strumento e non il fine, spesso del profitto di pochi.
Altrimenti, ci farà ammalare ancor più.

venerdì 29 maggio 2020

Ripartire all’insegna del cemento? - Tomaso Montanari



C come coronavirus: o come cemento? Vuoi vedere che – dopo aver toccato con mano cosa potrebbero essere le nostre città, il nostro Paese, il nostro pianeta se solo allentassimo un poco la morsa del dominio (dis)umano – la nostra prima reazione sarà rovesciare su quella povera natura appena risvegliata una colata di cemento? Sembra questa la strada annunciata in Senato dal presidente del Consiglio evocando «un iter semplificato su un elenco di opere strategiche con poteri derogatori» che fa il paio con la richiesta ultimativa di Renzi di «un piano shock per grandi infrastrutture e cantieri».
Una delle pessime conseguenze della pessima metafora del «siamo in guerra» è che immaginiamo una ripartenza come quella dei Trenta Gloriosi: i tre decenni che andarono dal 1945 al 1973, splendidi per l’economia e letali per l’ambiente.
Possibile non essere capaci di immaginare una ricostruzione che non sia all’insegna del mattone? Perché nessuna forza politica, in queste settimane, ha proposto di ritirare su l’economia nazionale con un mega-piano neokeynesiano di messa in sicurezza del suolo italiano? Sanare il dissesto idrogeologico, sradicare il cemento abusivo, manutenere corsi d’acqua, litorali e boschi. E poi l’enorme capitolo della prevenzione antisismica. Tutti capitoli di spesa per i quali non c’erano mai soldi. Come per la ricerca: oggi tutti si chiedono perché non riusciamo ad avere pronto un vaccino, ma pochissimi ricordano che solo pochi mesi fa si è dimesso il ministro della ricerca, Lorenzo Fioramonti, proprio perché i soldi per la ricerca non c’erano.
E invece niente: cemento, cemento e ancora cemento. In Sardegna, in piena emergenza, la giunta regionale approva (e dieci giorni dopo ritira, travolta dalle critiche) la costruzione di un resort di 8340 metri cubi sul mare, accanto a un nuraghe. «Dovevamo aspettarcelo – ha commentato Sandro Roggio –. Il sentimento della destra sarda (più edilizia = più turisti) era esibito in campagna elettorale. E incoraggiato dallo smarrimento del centrosinistra isolano a guida PD, in gran parte ostile alle norme di tutela paesaggistica del 2006, e fautore di norme (un po’ meno peggio?) che hanno aperto la strada al sempre peggio». Questo è il punto: di fronte alla speculazione edilizia non c’è destra e non c’è sinistra, c’è il partito unico del cemento.
Anche la Toscana un tempo rossa appare oggi color grigio cemento. Il 23 marzo, già in piena pandemia, la Regione pubblica il progetto per un mega-impianto eolico sul crinale dell’Appennino, tra Vicchio e Dicomano, in Mugello: inizia quindi il conto alla rovescia di 60 giorni in cui cittadini e associazioni ambientaliste, tutti reclusi in quarantena, dovrebbero presentare le osservazioni. Di fronte all’indisponibilità del Governo regionale a incontrarli, i comitati dei cittadini hanno scritto: «Possiamo solo sperare che abbiate preso visione dei tanti documenti che dimostrano, dati alla mano, che questo tipo di impianti non risolvono nemmeno in minima parte la difficoltà energetica del paese, e anzi, sottraggono risorse e finanze pubbliche che potrebbero essere investite per migliorare la qualità di vita di un territorio già provato e disagiato come il nostro». Destino vuole che proprio a Dicomano sia la RSA su cui la Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta per i quindici anziani morti per coronavirus: quasi ci volesse ricordare che ben altra è la cura di cui abbiamo bisogno. Non nuovo cemento sui crinali, ma nuova umanità nell’accudimento dei più fragili.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, perché non solo il virus non ferma le betoniere, ma rischia appunto di farle girare più veloci. Di fronte al crollo del ponte di Aulla, Matteo Renzi non invoca la manutenzione, o la ricerca delle responsabilità, ma il suo chiodo fisso, lo Sblocca Italia: «Se non ci mettiamo SUBITO a lavorare sui cantieri con il piano shock ‒ presentato ormai da molti mesi ‒ ogni anno andrà peggio. E se non lo facciamo in questa fase di crisi vuol dire che ci vogliamo del male. Apriamo questi benedetti cantieri, subito». Le bozze che girano di quel piano sono davvero da shock: ambientale. Vi si legge, per esempio: «In ogni caso tutti i commissari di cui al presente decreto possono anche esercitare, qualora ne ricorrano le condizioni di urgenza e necessità, i seguenti poteri: in caso di motivato dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione […] è rimessa alla decisione del Commissario che si pronuncia entro 15 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate». È il sogno proibito condiviso dai due Mattei (Renzi e Salvini), e da loro più volte esplicitamente ammesso: ridurre al silenzio le soprintendenze, cioè l’esausta magistratura del nostro territorio. Potrebbe mai passare una legge del genere in questo Parlamento? L’intervista concessa, qualche settimana fa, al Fatto Quotidiano dal viceministro alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri non lascia molti dubbi. All’obiezione: «Voi del M5S siete sempre stati contrari alle grandi opere, e ora volete facilitarle», lo sventurato risponde: «Di fronte a un contesto politico e a un quadro economico totalmente diverso da qualche anno fa, è necessario cambiare l’agenda politica. La priorità adesso è creare lavoro, usando soldi pronti ma fermi». Come dire che ora non possiamo permetterci il lusso di mantenere gli impegni, di rispettare gli ideali, grazie ai quali si è arrivati al potere.
Viene da pensare che ci sia una maledetta linea d’ombra, nella vita pubblica italiana. Quella linea è l’elezione a una carica pubblica: quando la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel linguaggio, nell’etica, nella scala delle priorità. Perfino nella logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un Potere immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni. E a quel punto, niente: non c’è più modo nemmeno di intendersi con chi è rimasto di là, tra i cittadini comuni. E così, dopo tanti chiari segnali (si pensi alla ferita sanguinante dello Stadio della Roma, e all’incredibile testacoda sul TAV) anche i Cinque Stelle al potere hanno varcato la linea d’ombra. E si sono trovati così in compagnia di destra e sinistra. Un simbolo di questa continuità perfetta è stata la figura di Maurizio Lupi: assessore allo Sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano del Comune di Milano nella giunta di Gabriele Albertini e poi ministro delle Infrastrutture dei governi Letta e Renzi. La linea Lupi è quella della Legge Obiettivo di Berlusconi del 2001 che resuscita, peggiorata, nello Sblocca Italia di Renzi (e Lupi, appunto) nel 2014. Il motto delle due leggi era lo stesso: «padroni in casa propria». Parole che volevano solleticare i cittadini, ma che di fatto descrivevano perfettamente le figure di amministratori che si sentono padroni del territorio solo per svenderlo a interessi particolari. Insomma, pare proprio che nemmeno la pandemia abbia la forza di cancellare quella linea d’ombra.
Dobbiamo continuare a seppellirci vivi nel degrado «che qualcuno, neanche a dirlo, / vorrebbe ulteriormente perpetrare con la solita / accoppiata di cemento e asfalto: / con quel grigio da modernariato, / unico colore che il potere / riesce a immaginare». Sono versi di Franco Marcoaldi: drammaticamente più lucidi di ogni analisi politica.

giovedì 28 maggio 2020

Fuori motocross, rumori e gas di scarico dal Gennargentu! - Grig


Lodevole iniziativa da parte di Marco Melis, sindaco di Arzana (NU).
Appreso da escursionisti che i versanti del Gennargentu, fin sulla Punta La Marmora, erano diventati il palcoscenico circense per scorribande in motocross (come, purtroppo, verificato anche sul Montalbo),  senza pensarci due volte ha emanato il decreto (ordinanza) sindacale n. 9 del 25 maggio 2020, con il quale inibisce sul territorio comunale arzanese “il transito permanente a tutti i ciclomotori, motoveicoli, autoveicoli comunque denominati, fatta eccezione dei mezzi di soccorso e delle forze dell’ordine, lungo le mulattiere, i sentieri e i percorsi in genere, al fine di salvaguardare il patrimonio naturalistico, faunistico e delle attività tradizionali, nonché le attività escursionistiche a bassissimo impatto ambientale”.
Bravissimo.
Auspichiamo che i colleghi sindaci di Desulo e di Fonni seguano presto e adottino analoghi provvedimenti per salvaguardare un patrimonio naturalistico e ambientale che va fruito con intelligenza e buon senso, senza frastuoni e gas di scarico.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

mercoledì 27 maggio 2020

Un crimine ecologico - Vandana Shiva





“La protezione delle api è un dovere ecologico, portarle all’estinzione è un crimine ecologico.Una minaccia per le api è una minaccia per l’umanità”

“Se l’ape sparisse dalla faccia della terra, all’uomo resterebbero solo quattro anni di vita”- Maurice Maeterlinck, The Life of the Bee[1]

Negli ultimi cinquant’anni i prodotti agrotossici sono stati diffusi ovunque e stanno portando le api verso l’estinzione. Le scelte che l’umanità ha di fronte sono chiare, operare per un futuro senza veleni che salverà le api, i contadini, il nostro cibo e l’umanità oppure continuare a servirsi di veleni in agricoltura, mettendo a repentaglio il nostro futuro comune, procedendo alla cieca verso l’estinzione grazie all’arroganza con la quale si pensa di poter sostituire le api con l’intelligenza artificiale e i robot.
“Le api robotiche potrebbero impollinare le piante in caso di una apocalisse di insetti”, riporta un recente titolo del Guardian, che riferisce come gli scienziati olandesi “credono di poter creare sciami di droni simili alle api per impollinare le piante quando i veri insetti saranno estinti”.[2] [3]
“In quindici anni prevediamo una crisi in cui non ci saranno abbastanza insetti al mondo per l’impollinazione e la maggior parte delle nostre vitamine e dei nostri frutti non ci saranno più”, ha detto Eylam Ran, amministratore Delegato di Edete Precision Technologies for Agriculture. La sua azienda afferma che “il suo impollinatore artificiale può incrementare il lavoro delle api e, in ultima analisi, sostituirle. Il sistema rispecchia il lavoro dell’ape da miele, iniziando con una raccolta meccanica del polline dai fiori e terminando con una distribuzione mirata che utilizza i sensori Lidar, la stessa tecnologia utilizzata in alcune auto a guida automatica”.[4]

Ma non ci sono sostituti per la biodiversità dell’ecosistema e per i doni delle api. Ogni cultura, ogni fede ha visto le api come maestre – capaci di dare, di creare abbondanza, di creare il futuro delle piante attraverso l’impollinazione, e di contribuire alla nostra sicurezza alimentare e al nostro benessere.
La generazione di semi di oggi si trasforma in quella successiva solo grazie al dono offerto dall’impollinatore. Le ricerche di Navdanya hanno dimostrato che più del 30 per cento del cibo che mangiamo è prodotto da api e impollinatori.
L’economia della natura è un’economia di dono. In ogni tradizione l’ape è stata esemplificata come maestra del dono. I testi buddisti sottolineano che da una moltitudine di esseri viventi, le api e altri animali impollinatori prendono ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere senza danneggiare la bellezza e la vitalità della loro fonte di sostentamento.
Per gli esseri umani, agire alla maniera delle api è una manifestazione di vita compassionevole e consapevole.
San Giovanni Crisostomo ha scritto: “L’ape è più onorevole degli altri animali, non perché lavora, ma perché lavora per gli altri” (12ª Omelia). Nella tradizione islamica, il 16° capitolo del Corano si intitola “L’Ape”.  Questo capitolo è noto per essere la rivelazione di Dio. Nella tradizione indù, c’è una meravigliosa citazione nella scrittura Srimad Mahabhaghavatam che recita: “Come un’ape che raccoglie miele da tutti i tipi di fiori, i saggi cercano ovunque la verità e vedono solo il bene in tutte le religioni”.
Assieme come specie diverse e culture diverse e attraverso un’agricoltura e un’alimentazione ecologica senza veleni, rigeneriamo la biodiversità dei nostri impollinatori e ripristiniamo la loro sacralità. Abbiamo il potere creativo di fermare la sesta estinzione di massa e la catastrofe climatica senza la necessità di false soluzioni tecnocratiche.

martedì 26 maggio 2020

Aspettando Godot - Mauro Armanino



Un’opera degna del miglior Samuel Beckett. I benefattori globali e alcuni agenti locali l’avevano annunciato, pronosticato e perfino quantificato. L’impatto del Coronavirus in Africa in generale e nel Sahel in particolare sarebbe stato oltremodo devastante. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva infatti affermato, in una intervista ai microfoni di Radio France Internationale (RFI) et France 24, che secondo lui, erano necessari almeno 3 mila miliardi di dollari e un’azione concertata a livello internazionale per evitare una ecatombe in Africa, dove una propagazione del virus, poteva condurre a milioni di morti e persone infettate. Nella stessa prospettiva aveva saggiamente invitato, in un solenne appello, a ‘un cessate il fuoco immediato, dappertutto nel mondo’ al fine di preservare, a monte della furia del Covid-19, i civili più vulnerabili nei Paesi in conflitto.
Il movimento verso la pacificazione è stato in buona parte disatteso, buon esempio in Libia e in Siria ma soprattutto dai mercenari e dai commercianti d’armi. In effetti, secondo l’ultimo rapporto dall’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace ( SIPRI) di Stoccolma, le spese militari hanno superato la somma di 1.900 miliardi di dollari. Il presidente del Niger, da parte sua, in un’altra conversazione esclusiva con RFI e France 24, affermava di dar ragione ad Antonio Guterres sulla possibilità di milioni di morti a causa dell’epidemia in Africa. Per questo motivo, il capo di Stato chiamava ad un nuovo ‘Piano Marshall’ da parte della comunità internazionale con lo scopo di aiutare i Paesi del continente ad affrontare l’inedita crisi sanitaria. Qui nei Paesi del Sahel, che una nota confidenziale del Ministero degli Esteri francese,  a causa del Covid-19, avrebbero dovuto affossarsi, stiamo ancora aspettando Godot.
Da 83 000 a 190 mila persone potrebbero morire di Covid-19 in Africa e da 29 a 44 milioni potrebbero essere infettati nel primo anno della pandemia se le misure di confinamento alla pandemia falliscono. Questo è il risultato di un nuovo studio dell’Ufficio Regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Questa ricerca si basa sui modelli di previsione operata su 47 paesi dell’Africa, dove la popolazione totale è di un miliardo di abitanti. Secondo un altro modello provvisorio operato dall’OMS, i casi di Coronavirus potrebbero passare da qualche migliaio a 10 milioni in sei mesi anche se Michel Yao, capo delle operazioni di urgenza per l’OMS Africa, ha dichiarato giovedì che si trattava di una proiezione che potrebbe cambiare. Aspettando Godot la nostra Africa inizia a deconfinare e in particolare nel Niger, dopo aver riaperto i luoghi di culto martedì, è stata tolta anche la misura che isolava la capitale Niamey dal resto del Paese e per il coprifuoco, è ormai del tutto soppresso. Quanto all’Africa, a tutt’oggi secondo le cifre fornite dal Centro di Prevenzione delle malattie dell’Unione Africana (CDC), il continente contava 78 613 casi confermati di Covid-19 e 2 642 decessi dovuti alla malattia. L’Africa del Sud è il Paese più colpito, seguito dall’Egitto e dal Marocco. Gli altri Paesi stanno ancora  aspettando Godot.
Nella splendida opera di Beckett, Godot, sconosciuto personaggio importante, arriverà quasi certamente domani e tutta l’opera gira attorno ad un’attesa che rimane tale. Godot rappresenta proprio l’attesa allo stato puro e senza sconti o scorciatoie, l’attesa di un possibile che rimane sulla soglia. Così è per il Covid-19 in Africa, verrebbe da dire. Si sono proiettati, come anche in altri casi, sul continente immaginari che, dopo aver dipinto il continente in perenne stato di abbandono e disperazione, si incastonavano a pennello nell’idea di catastrofe annunciata. Non è così perché, nella nostra nave di sabbia non si confina  né la povertà né la speranza. Entrambe nascono dallo stesso grembo di cui l’Africa ha saputo, almeno finora, conservare il segreto. Aspettiamo da venti mesi padre Pierluigi e il suo compagno di sventura Nicola Ciacco, tenuti in schiavitù da falsi combattenti in cerca di denaro, da qualche parte nel vicino Mali. Si aspetta l’acqua per bere e per lavarsi le mani e poi mantenere le poche distanze possibili che possono avere i passeggeri dello stesso veliero che naviga nella sabbia. Si aspetta il Dio a parte che capi di stato, comuni cittadini e migranti bloccati dai confinamenti invocano ogni giorno. Germaine, una parrucchiera disoccupata da mesi, assicura che, da quando si dice che il virus viaggia assieme al vento, ogni mattina, appena sveglia, comincia a danzare.
Niamey, 16 maggio 2020

lunedì 25 maggio 2020

La povertà ha un nome, Karim - Penny


La povertà ha un nome proprio. Karim Bamba (leggi Morto bimbo 10 anni, schiacciato mentre cercava vestiti, ndr). È il nome di un bambino di dieci anni. Un bambino che nella nostra Italia, dentro a una nostra città camminava scalzo.
Riuscite a immaginarlo mentre rovista nei cassonetti, dove ci sono i nostri scarti. Dove ci sono i pantaloni o le magliette di nostro figlio, quelle che non gli piacciono più. Fa effetto vero? E fa paura essere parte di questa società in cui i bambini muoiono e lo fanno in povertà, in cui se nasci povero rimani povero.
Camminava scalzo, lo ripeto, perché rimanga e mi rimanga bene impresso. Non correva a perdifiato nei prati una sera di maggio, no, lui camminava sull’asfalto, impilava sacchetti lasciati lì da noi, per salirci sopra e vedere se riusciva a trovare qualcosa per sé o i suoi fratelli.
Quando ho sentito la notizia mi sono chiesta se lui era uno di quelli perso per strada dalla didattica a distanza, mi sono chiesta perché facciamo finta che la povertà infantile non esista, perché non ci occupiamo degli ultimi e permettiamo che accadano certe cose.
La scuola non basta, ma la scuola si accorge, dentro alla scuola una maestra avrebbe saputo se una sua famiglia era in certe condizioni. La scuola non può tutto, ma può accogliere, fare in modo che i bambini siano e restino bambini. Trovare un paio di scarpe, ad esempio. Anche se non è sufficiente, è già qualcosa.
Karim era conosciuto in città, così ho letto, la famiglia era seguita dai servizi sociali, gli stessi servizi sociali su cui spesso scagliamo pietre ma in cui vengono effettuati solo tagli. Paghiamo tutto e paghiamo il prezzo più alto, la morte di un bambino. Paghiamo i tagli alla sanità, i tagli alla scuola, i tagli ai servizi alla persona, i tagli al sociale, ai centri socio-educativi. Noi tagliamo risorse sempre.
I bar questa settimana hanno riaperto, pure i parrucchieri, i ristoranti, le spiagge e forse, potremo andare in vacanza. Notizie belle. L’economia ritorna a girare e io non posso che esserne felice però, nella stessa settimana, una sera di maggio è morto un bambino e non riesco a passare oltre come se fosse solo un brutto capitolo della storia.
Aveva dieci anni, viveva in una delle nostre città, aveva il torace schiacciato e le gambe a penzoloni. Non credo avesse un tablet per collegarsi, e credo non gliene importasse niente di essere bravo in italiano e in matematica. Forse, sarebbe stato valutato con un voto insufficiente per non aver fatto lezione o forse no, io lo spero, spero che la scuola si sia accorto di lui e abbia cercato di fare il possibile.
Karim cercava dei vestiti, questa era la sua preoccupazione.
Era scalzo. E questo ci dice tutto su di lui. E su di noi. Italia 2020. La povertà infantile ha un nome proprio, Karim e l’età di un bambino di dieci anni.

domenica 24 maggio 2020

La nostra schiava di famiglia - Alex Tizon



Le ceneri riempivano una scatola di plastica nera grande quanto un tostapane. Pesava un chilo e mezzo. Nel luglio del 2016 l’ho messa in una borsa di tela che ho infilato in valigia, prima di prendere un volo trans pacifico per Manila. Da lì avrei raggiunto in macchina un villaggio di campagna. Una volta arrivato, avrei consegnato tutto ciò che rimaneva della donna che per cinquantasei anni aveva vissuto in casa dei miei genitori da schiava.
Si chiamava Eudocia Tomas Pulido. La chiamavamo Lola. Era alta un metro e cinquanta e aveva la pelle color caffè e gli occhi a mandorla. Li vedo ancora mentre guardano i miei, il mio primo ricordo. Aveva diciotto anni quando mio nonno la offrì in dono a mia madre. Il giorno che la mia famiglia si trasferì negli Stati Uniti la portammo con noi. Solo la parola “schiava” può riassumere la vita che ha vissuto. Le sue giornate cominciavano prima che noi ci alzassimo e finivano dopo che andavamo a dormire. Preparava tre pasti al giorno, puliva la casa, era al servizio dei miei genitori e si prendeva cura di me e dei miei quattro fratelli. I miei genitori non l’hanno mai pagata e la rimproveravano in continuazione. Non aveva le catene alle caviglie, ma era come se le avesse. Infinite volte, andando in bagno di notte, l’ho vista dormire in un angolo, accasciata contro una montagna di biancheria, con le dita che stringevano il vestito che stava piegando.
Per i nostri vicini statunitensi eravamo degli immigrati modello, una famiglia da cartolina. Erano loro a dircelo. Mio padre aveva una laurea in legge, mia madre sarebbe presto diventata medico, io e i miei fratelli prendevamo bei voti e dicevamo sempre “per favore” e “grazie”. Non parlavamo mai di Lola. Il nostro segreto andava al cuore di chi eravamo e, almeno per noi ragazzi, di chi volevamo essere.
Quando mia madre è morta di leucemia nel 1999, Lola è venuta a vivere con me in una cittadina a nord di Seattle. Avevo una famiglia, una carriera, una casa in un sobborgo residenziale: il sogno americano. E avevo anche una schiava.
Al nastro bagagli dell’aeroporto di Manila ho apertola valigia per assicurarmi che le ceneri di Lola fossero ancora lì. Fuori ho inalato l’odore familiare: un denso miscuglio di gas di scarico e immondizia, di oceano e frutta zuccherosa e sudore.
C’era chi sceglieva di farsi schiavo per sopravvivere: in cambio del suo lavoro, poteva ricevere vitto, alloggio e protezione
Il giorno dopo, di prima mattina, ho trovato un autista, un affabile signore di mezza età che si faceva chiamare Doods, e ci siamo messi in strada, zigzagando nel traffico con il suo furgone. È una scena che mi aveva sempre sbalordito. L’incredibile quantità di macchine, motociclette e jeepney. Le persone che serpeggiano tra i veicoli e si muovono lungo i marciapiedi in grandi fiumi marroni. I venditori ambulanti scalzi che trotterellano accanto alle macchine, offrendo sigarette, pastiglie contro la tosse e sacchetti di arachidi bollite. I bambini che chiedono l’elemosina con il viso schiacciato contro i finestrini.
Io e Doods eravamo diretti a nord, nelle pianure dell’entroterra dov’era cominciata la storia di Lola: la provincia di Tarlac. Terra di risaie. Luogo di nascita di un tenente, incallito fumatore di sigari, di nome Tomas Asuncion, mio nonno. In famiglia il tenente Tom era descritto come un uomo eccezionale, incline all’eccentricità e al malumore. Aveva molte terre ma pochi soldi, e manteneva le sue amanti in case separate nella sua proprietà. Sua moglie era morta dando alla luce la loro unica figlia, mia madre, che era stata cresciuta da una serie di utusans, “persone che prendono ordini”.
La schiavitù ha una lunga storia su queste isole. Prima dell’arrivo degli spagnoli, gli isolani riducevano in schiavitù altri isolani, di solito prigionieri di guerra, criminali o debitori. Esistevano diverse categorie di schiavi, dai guerrieri che potevano guadagnarsi la libertà con il loro coraggio ai servi domestici che erano considerati una proprietà e potevano essere comprati, venduti o scambiati. Gli schiavi di rango più elevato potevano possedere schiavi di rango inferiore. C’era chi sceglieva di farsi schiavo per sopravvivere: in cambio del suo lavoro, poteva ricevere vitto, alloggio e protezione.
Gli spagnoli arrivarono nel cinquecento, ridussero in schiavitù gli abitanti delle isole, e in seguito portarono sulle isole schiavi africani e indiani. La corona spagnola finì per eliminare gradualmente la schiavitù in patria e nelle colonie, ma alcune zone delle Filippine erano così remote da sfuggire al controllo delle autorità. Le tradizioni si conservarono, sotto forme diverse, anche dopo che gli Stati Uniti ebbero preso il controllo delle isole nel 1898. Oggi perfino i poveri possono avere degli utusans, dei katulongs (aiutanti) o dei kasambahays (domestici), intanto che c’è chi è più povero di loro. La scala è lunga.
Il tenente Tom aveva almeno tre famiglie di utusans che vivevano nella sua proprietà. Nella primavera del1943, quando le isole erano sotto occupazione giapponese, portò a casa una ragazza di un villaggio in fondo alla strada. Era una lontana cugina che apparteneva a un ramo secondario della famiglia, coltivatori di riso. Il tenente era furbo: vide che la ragazza era povera, senza istruzione e facilmente influenzabile. I suoi genitori volevano darla in moglie a un allevatore di maiali che aveva il doppio della sua età. La ragazza era disperata ma non sapeva a chi rivolgersi. Tom le fece una proposta: le avrebbe dato vitto e alloggio se si fosse impegnata a prendersi cura di sua figlia, che aveva appena compiuto dodici anni.
Lola accettò, non capendo che era un patto per la vita.
“È il mio regalo per te”, disse il tenente Tom a mia madre.
“Non la voglio”, rispose mia madre, sapendo di non avere scelta.
Il tenente Tom partì per combattere contro i giapponesi, lasciando mia madre e Lola nella vecchia e scricchiolante casa di provincia. Lola dava da mangiare a mia madre, la lavava e la vestiva. Quando andavano al mercato, reggeva un ombrello per proteggerla dal sole. La sera, quando aveva finito le faccende quotidiane –dare da mangiare ai cani, spazzare i pavimenti, piegare la biancheria che aveva lavato a mano nel fiume Camiling –, Lola si sedeva sul bordo del letto di mia madre e la sventagliava finché non si addormentava.
Un giorno, durante la guerra, il tenente Tom tornò a casa e scoprì che mia madre gli aveva mentito a proposito di un ragazzo con il quale non avrebbe dovuto parlare. Furioso, Tom le ordinò di “avvicinarsi al tavolo”. Mamma si acquattò in un angolo con Lola. Poi, con voce tremante, disse a suo padre che Lola avrebbe subìto la punizione al posto suo. Lola lanciò a mamma uno sguardo supplichevole, poi si avvicinò senza dire una parola al tavolo della sala da pranzo e si aggrappò al bordo. Tom alzò la cintura e la colpì dodici volte, scandendo ogni sferzata con una parola. Non. Mi. Devi. Mai. Dire. Bugie. Non. Mi. Devi. Mai. Dire. Bugie. Lola non fiatò.
Da adulta mia madre si divertiva a raccontare questo aneddoto con un tono che sembrava voler dire: “Ci credi che ho fatto una cosa del genere?”. Quando ne parlai con Lola, volle sentire la versione di mamma. Ascoltò attentamente, poi mi guardò con tristezza e disse semplicemente: “Sì. Andò così”.
Sette anni dopo, nel 1950, mamma sposò mio padre e si trasferì a Manila, portandosi dietro Lola. Il tenente Tom era da tempo tormentato dai suoi demoni e nel 1951 li mise a tacere piantandosi un proiettile calibro 32 nella testa. Mamma non ne parlava quasi mai. Aveva il temperamento di suo padre – volubile, autorevole, segretamente fragile – e prendeva molto sul serio i suoi insegnamenti, in particolare su come essere una vera matrona di provincia: abbracciando il proprio ruolo di comando, tenendo al loro posto i subalterni, per il bene loro e della casa. Piangeranno, si lamenteranno, ma le loro anime ti ringrazieranno. Ti ameranno perché li aiuti a essere ciò che dio ha voluto che fossero.
Mio fratello Arthur nacque nel 1951. Poi nacqui io,seguito da altri tre fratelli in rapida successione. I miei genitori si aspettavano che Lola fosse devota a noi bambini quanto lo era a loro. Mentre Lola si prendeva cura di noi, i miei genitori si specializzavano all’università, aggiungendosi all’esercito dei filippini con ottimi titoli di studio ma senza lavoro. Poi arrivò la svolta: a mio padre fu offerto un lavoro al ministero degli esteri come analista commerciale. Lo stipendio era misero, ma il lavoro era negli Stati Uniti, un posto che lui e mamma sognavano da quando erano piccoli, dove tutto ciò che desideravano poteva avverarsi.
Papà poteva portare con sé la famiglia e una persona di servizio. I miei genitori, sapendo che avrebbero entrambi dovuto lavorare, volevano che Lola li seguisse per occuparsi dei bambini e della casa. Mia madre la informò ma, con sua somma irritazione, Lola non accettò subito. Anni dopo Lola mi disse che era terrorizzata. “Era troppo lontano”, spiegò. “Magari tua madre e tuo padre non mi avrebbero lasciato tornare a casa”.
A convincerla fu la promessa di mio padre che le cose negli Stati Uniti sarebbero state diverse. Le disse che appena lui e mamma si fossero sistemati, le avrebbero dato una “paghetta”. Lola avrebbe potuto mandare dei soldi ai genitori, a tutti i parenti nel suo villaggio. I suoi genitori vivevano in una capanna con il pavimento interra battuta. Lola avrebbe potuto far costruire per loro una casa in calcestruzzo, cambiandogli la vita per sempre. T’immagini?
Atterrammo a Los Angeles il 12 maggio 1964, con tutte le nostre cose dentro scatoloni chiusi con lo spago. Lola viveva con mia madre da ventun anni, e per me era un genitore più di quanto lo fossero mia madre o mio padre. Il suo era il primo viso che vedevo al mattino e l’ultimo che vedevo la sera. Da piccolo avevo imparato a dire il suo nome molto prima di “mamma” o “papà”, e rifiutavo di andare a dormire se lei non mi prendeva in braccio o non era almeno accanto a me.
Presa di coscienza
Avevo quattro anni quando arrivammo negli StatiUniti, troppo piccolo per mettere in discussione il ruolo di Lola nella nostra famiglia. Ma crescendo sull’altra sponda del Pacifico, i miei fratelli e io cominciammo a vedere il mondo in modo diverso. Il salto oltreoceano provocò una presa di coscienza che mia madre e mio padre non riuscirono, o non vollero, affrontare.
Lola non ricevette mai quella paghetta. Un paio di anni dopo il nostro arrivo negli Stati Uniti sollevò indirettamente l’argomento con i miei genitori. Sua madre si era ammalata e la sua famiglia non poteva permettersi di pagare le cure. “Pwede ba?”, chiese ai miei genitori. È possibile? Mia madre sospirò. “Come ti viene in mente anche solo di chiedercelo?”, rispose mio padre in tagalog. “Lo vedi che non abbiamo un soldo. Non ti vergogni?”.
I miei genitori avevano contratto un prestito per venire negli Stati Uniti, e s’indebitarono ancora per rimanere. Mio padre fu trasferito dal consolato generale di Los Angeles al consolato di Seattle. Lo pagavano 5.600 dollari all’anno. Si trovò un secondo lavoro come addetto alla pulizia di rimorchi dei camion e un terzo come agente di recupero crediti. Mamma lavorava come tecnica in un paio di laboratori medici. Li vedevamo sempre di sfuggita, ed erano spesso esausti e aggressivi.
Mamma tornava a casa e sgridava Lola perché non aveva pulito abbastanza a fondo la casa o perché si era dimenticata di prendere la posta nella cassetta delle lettere. “Quante volte ti ho detto che voglio trovare la posta quando torno a casa?”, diceva con astio, in tagalog. “Non è difficile naman! Anche un cretino se lo ricorderebbe”. Poi tornava mio padre ed era il suo turno. Quando papà alzava la voce, tutti in casa si facevano piccoli. A volte i miei genitori si alleavano finché Lola scoppiava a piangere, quasi fosse quello il loro scopo.
Ero confuso: i miei genitori erano buoni con me e con i miei fratelli, e noi li amavamo. Ma potevano essere affettuosi con noi e un attimo dopo spregevoli con Lola. Avevo circa undici anni quando la situazione di Lola cominciò a diventarmi chiara. Mio fratello Arthur, di otto anni più grande, era indignato da tempo. Fu lui a introdurre la parola “schiava” nella mia percezione di cosa fosse Lola. Prima che Arthur la pronunciasse, per me Lola era solo una persona sfortunata della famiglia. Non sopportavo quando i miei genitori le urlavano contro, ma non avevo mai pensato che il loro comportamento – e l’intera situazione – fossero immorali.
“Conosci qualcuno che è trattato come lei?”, mi chiese Arthur. “Che vive come vive lei?”. Riassunse la condizione di Lola. Non era pagata. Sgobbava tutti i giorni. Era sgridata se stava ferma troppo a lungo o si addormentava troppo presto. La picchiavano se rispondeva. Indossava abiti usati. Mangiava gli avanzi da sola in cucina. Non usciva quasi mai di casa. Non aveva amici né svaghi al di fuori della famiglia. Non aveva una stanza sua (in tutte le case in cui avevamo vissuto dormiva dove c’era posto: un divano, un ripostiglio, un angolo in camera di mia sorella, spesso su una pila di biancheria). Non riuscivamo a trovare casi simili se non nei personaggi di schiavi delle serie televisive e dei film.
Una sera mio padre scoprì che mia sorella Ling – all’epoca aveva nove anni – aveva saltato la cena e si mise a sbraitare contro Lola per la sua pigrizia. “Ho provato a darle da mangiare”, disse Lola a mio padre, che la sovrastava guardandola infuriato. Quella debole difesa lo fece imbestialire ancora di più e le sferrò un pugno sotto la spalla. Lola uscì correndo dalla stanza e la sentii gemere, come un lamento di animale.
“Ling ha detto che non aveva fame”, dissi.
I miei genitori si girarono verso di me.
Sembravano sconcertati. Avvertii le contrazioni del viso che generalmente precedevano le lacrime, ma quella volta nonavrei pianto. Negli occhi di mia madre vidi l’ombra diqualcosa che non avevo mai visto prima. Gelosia?
“Stai difendendo la tua Lola?”, chiese mio padre. “È questo che stai facendo?”.
“Ling ha detto che non aveva fame”, ripetei, quasi sussurrando.
Avevo tredici anni. Era il mio primo tentativo di prendere le parti della donna che passava la vita a occuparsi di me. La donna che mi aveva cantato melodie tagalog cullandomi, e che quando ero più grande mi aveva vestito e dato da mangiare, mi aveva accompagnato a scuola la mattina ed era venuta a prendermi il pomeriggio. Quando ero stato a lungo malato, senza la forza di mangiare, Lola aveva masticato il cibo per me, mettendomi i pezzetti in bocca perché potessi inghiottirli. Un’estate avevo avuto entrambe le gambe ingessate e nei mesi di riabilitazione Lola mi aveva assistito, lavandomi con una salvietta e dandomi le medicine in piena notte. In quel periodo ero sempre di pessimo umore. Lola non si era mai lamentata né spazientita.
Ora sentirla piangere mi faceva impazzire.
Nelle Filippine i miei genitori non sentivano il bisogno di nascondere il modo in cui trattavano Lola. Negli Stati Uniti la trattavano ancora peggio, ma si sforzavano di non farlo vedere. Quando avevano ospiti, ignoravano Lola o, se qualcuno faceva delle domande, mentivano e cambiavano subito argomento. Per cinque anni abbiamo vissuto nel nord di Seattle davanti a casa dei Missler, una chiassosa famiglia (erano otto) che ci aveva iniziati a cose come la senape, la pesca al salmone, il football americano e le urla durante le partite alla tv. Quando guardavamo le partite Lola ci serviva da bere e da mangiare, e i miei genitori la ringraziavano con un sorriso prima che lei si ritirasse rapidamente. “Chi è quella signora minuta che tenete in cucina?”, chiese un giorno Big Jim, il patriarca di casa Missler. “Una parente delle Filippine”, rispose mio padre. “Molto timida”.
Avere una schiava non rientrava negli usi locali e mi faceva venire seri dubbi sul tipo di persone che eravamo
Billy Missler, il mio migliore amico, non l’aveva bevuta. Stava spesso a casa nostra, a volte interi weekend, abbastanza per vedere a tratti il nostro segreto di famiglia. Una volta sentì mia madre urlare in cucina, si precipitò lì per indagare e la trovò paonazza che guardava infuriata Lola, tremante in un angolo. Entrai qualche secondo troppo tardi. L’espressione di Billy era un misto di imbarazzo e perplessità. “Cos’è successo?”. Liquidai la cosa con un gesto della mano.
Penso che Billy fosse dispiaciuto per Lola. Andava pazzo per la sua cucina e la faceva ridere come nessun altro. Quando restava da noi, Lola gli cucinava il suo piatto filippino preferito, tapa (manzo) con riso bianco. Cucinare era la sua unica forma di eloquenza. Da quello che ci preparava capivo se ci stava semplicemente dando da mangiare o se stava dicendo che ci amava.
Un giorno, quando dissi a Billy che Lola era una lontana zia, lui mi ricordò che la prima volta l’avevo presentata come mia nonna.
“Be’, è un po’ tutte e due”, ribattei sibillino.
“Perché passa il tempo a lavorare?”.
“Le piace”.“E perché tuo padre e tua madre le urlano contro?”.
“Non ci sente molto bene”.
Ammettere la verità avrebbe voluto dire smascherarci tutti. Avevamo passato i primi dieci anni negli Stati Uniti a imparare gli usi del nuovo paese e a cercare di ambientarci. Avere una schiava non rientrava negli usi locali e mi faceva venire seri dubbi sul tipo di persone che eravamo, sul tipo di posto da cui venivamo. Mi chiedevo se meritavamo di essere accettati. Provavo vergogna per tutta quella faccenda, e anche per la mia complicità. Ma perdere Lola sarebbe stato devastante.
Avevamo un altro motivo per mantenere il segreto:i documenti di Lola erano scaduti nel 1969, cinque anni dopo il nostro arrivo negli Stati Uniti. Era venuta con un passaporto speciale legato al lavoro di mio padre. Dopo una serie di screzi con i capi, mio padre lasciò il consolato e dichiarò di voler rimanere negli Stati Uniti. Riuscì a ottenere un permesso di soggiorno permanente per la famiglia, ma non per Lola. Avrebbe dovuto rimandarla nelle Filippine.
La madre di Lola, Fermina, morì nel 1973. Suo padre, Hilario, nel 1979. Entrambe le volte Lola avrebbe tanto voluto tornare a casa. Entrambe le volte i miei genitori dissero: “Ci dispiace”. Non c’erano i soldi, non c’era il tempo. I ragazzi avevano bisogno di lei. Inoltre i miei genitori avevano paura, mi confessarono in seguito. Se le autorità avessero scoperto l’esistenza di Lola, come sarebbe sicuramente successo se avesse provato a partire, i miei genitori sarebbero potuti finire nei guai, rischiando perino l’espulsione. Non potevano correre il rischio. Lola diventò quello che i filippini chiamano tago nang tago, o tnt: sempre in fuga. Sarebbe rimasta tnt per quasi vent’anni.
Dopo la morte dei suoi genitori, Lola s’incupì e non parlò per mesi. Rispondeva a malapena quando i miei le davano il tormento. Ma il tormentò continuò. Lola teneva la testa bassa e faceva il suo lavoro.
Le dimissioni di mio padre segnarono l’inizio di un periodo turbolento. I soldi diminuirono e i miei genitori si misero l’uno contro l’altro. A più riprese sradicarono la famiglia, da Seattle a Honolulu, poi di nuovo Seattle, poi il sudest del Bronx e infine una cittadina di750 anime nell’Oregon, Umatilla, luogo di sosta per i camionisti. In quel periodo di spostamenti, mamma faceva spesso turni di ventiquattr’ore e papà spariva per giorni interi, facendo lavoretti ma anche (avremmo scoperto in seguito) andando a donne e chissà cos’altro. Una volta tornò a casa e ci disse che aveva perso la nostra nuova station wagon giocando a blackjack.
Capitava che Lola fosse l’unica persona adulta in casa per giorni. Finì per conoscere le nostre vite come i miei genitori non ebbero mai la testa per fare. Portavamo gli amici a casa e Lola ci ascoltava parlare della scuola, di ragazzi e ragazze e di tutto quello che c’interessava. Lola avrebbe potuto elencare il nome di tutte le ragazze che mi erano piaciute dalla prima media.
Quando avevo quindici anni, papà se ne andò definitivamente. All’epoca non riuscii a crederlo, ma la verità è che ci abbandonò. Alla mamma mancava ancora un anno alla specializzazione e nel suo ramo – medicina interna – non si guadagnava molto. Mio padre non ci versava gli alimenti, per cui i soldi erano sempre un problema.
Mia madre riusciva a raccogliere le forze necessarie per andare al lavoro, ma la sera crollava, abbandonandosi alla disperazione e all’autocommiserazione. In quel periodo la sua unica fonte di conforto fu Lola. Mentre mamma le rispondeva male per ogni piccola cosa, Lola si mostrava ancora più premurosa: le cucinava i suoi piatti preferiti, puliva la sua stanza con particolare attenzione. La sera tardi le trovavo sedute in cucina a lamentarsi e a raccontare aneddoti su papà, che a volte le facevano scoppiare in risate maligne, altre volte le facevano infuriare.
Una notte sentii mamma singhiozzare. Corsi in salotto e la trovai accasciata tra le braccia di Lola, che le parlava dolcemente, come faceva con me e i miei fratelli quando eravamo piccoli. Rimasi un po’ lì, poi tornai nella mia stanza, preoccupato per mia madre e molto in soggezione con Lola.
Doods stava canticchiando. Mi ero appisolato per quello che mi era sembrato un minuto e mi sono risvegliato al suono della sua allegra melodia. “Ancora due ore”, ha detto. Ho controllato la scatola di plastica nella borsa di tela accanto a me – c’era ancora – e ho alzato lo sguardo fuori dal finestrino. Eravamo sulla MacArthur highway. Ho guardato l’ora: “Ehi, avevi detto ‘ancora due ore’ due ore fa!”.
Era un sollievo sapere che Doods ignorava il motivo del mio viaggio. Ero già abbastanza preso dal mio dialogo interiore. Non valevo più dei miei genitori. Avrei potuto fare di più per liberare Lola. Per rendere migliore la sua vita. Perché non l’avevo fatto? Immagino che avrei potuto denunciare i miei genitori. Avrei fatto esplodere la mia famiglia in un attimo. Come i miei fratelli, avevo invece preferito tenermi tutto per me, e così la mia famiglia era crollata a poco a poco.
Alle origini
Io e Doods abbiamo attraversato una campagna bellissima. Non era una bellezza da cartolina, ma era vera e viva e, se paragonata alla città, elegantemente sobria. Ai lati dell’autostrada si snodavano parallele due catene montuose, i monti Zambales a ovest e la Sierra Madre a est. Da una cima all’altra, da ovest a est, potevo vedere ogni sfumatura di verde, quasi fino al nero.
Doods ha indicato una sagoma scura in lontananza. Il monte Pinatubo. Ero venuto da queste parti nel 1991, per raccontare gli effetti della sua eruzione, la seconda più importante del novecento. Le colate di fango, chiamate lahars, erano proseguite per più di dieci anni seppellendo antichi villaggi, riempiendo fiumi e vallate, spazzando via interi ecosistemi. I lahars si erano addentrati fino ai piedi delle colline della provincia di Tarlac, dove i genitori di Lola avevano trascorso tutta la loro esistenza, e dove mia madre e Lola un tempo avevano vissuto insieme. Molte tracce del passato della mia famiglia erano andate perdute in guerre e alluvioni, e ora alcune erano sepolte sotto sei metri di fango.
La vita da queste parti incrocia spesso i cataclismi. Uragani micidiali che colpiscono più volte all’anno. Monti sonnolenti che un giorno decidono di svegliarsi. Le Filippine non sono come la Cina o il Brasile, con massa in grado di assorbire il trauma. Sono una nazione di rocce sparse nel mare. Quando è colpito da una catastrofe, il paese soccombe per un po’. Poi si risolleva e la vita riprende il suo corso, ed è possibile contemplare paesaggi come quello che io e Doods stavamo attraversando, e il semplice fatto che siano ancora lì li rende belli.
Un paio d’anni dopo la separazione dei miei genitori, mia madre si risposò e chiese a Lola di mostrare lealtà al suo nuovo marito, un immigrato croato di nome Ivan che aveva conosciuto attraverso un amico. Ivan non aveva mai finito il liceo. Aveva quattro matrimoni alle spalle ed era un giocatore d’azzardo a cui piaceva essere mantenuto da mia madre e servito da Lola.
Il matrimonio di mia madre con Ivan fu instabile fin dall’inizio e i soldi – soprattutto il modo in cui lui li usava – erano il problema principale. Una volta durante un litigio, mentre mamma piangeva e Ivan urlava, Lola si avvicinò e si piazzò tra loro. Si girò verso Ivan e disse con voce decisa il suo nome. Ivan la guardò, sbatté le palpebre e si mise a sedere.
Mia sorella Inday e io rimanemmo a bocca aperta. Ivan pesava centoquindici chili e con la sua voce da baritono faceva tremare i muri. Lola lo aveva rimesso al suo posto con una sola parola. Successe anche qualche altra volta, ma generalmente Lola serviva Ivan ciecamente, come voleva mamma. Per me era difficile vedere Lola sottomettersi a qualcun altro, soprattutto qualcuno come Ivan. Ma a provocare il mio strappo con mamma fu qualcosa di molto più banale.
Mia madre si arrabbiava ogni volta che Lola si ammalava. Non voleva fare i conti con il disagio e le spese, e accusava Lola di fingere o di trascurarsi. Scelse la seconda tattica quando, alla fine degli anni settanta, Lola cominciò a perdere i denti. Da mesi diceva di avere dei dolori alla bocca.
“Ecco cosa succede quando non ci si lava bene i denti”, commentò mamma.
Dissi che Lola doveva prendere appuntamento da un dentista. Aveva più di cinquant’anni e non si era mai fatta visitare. All’epoca andavo al college, a un’ora da casa. Spesso, quando tornavo, tiravo fuori l’argomento. Passò un anno, poi un altro. Lola prendeva dell’aspirina tutti i giorni contro il dolore, e i suoi denti sembravano le pietre di Stonehenge. Una sera, vedendola masticare il pane dal lato della bocca dove ancora le restava qualche molare sano, sbottai.
Io e mamma litigammo fino a notte fonda. Lei disse che era stanca di ammazzarsi di lavoro per mantenerci, e che non ne poteva più di vedere i figli difendere sempre Lola, e perché non ce la prendevamo noi quella stramaledetta Lola, anche perché lei non l’aveva mai voluta, e dio solo sa cosa aveva fatto per meritare un figlio arrogante e ipocrita come me.
È terribile odiare la propria madre, e quella notte la odiai
Incassai le sue parole. Poi contrattaccai, dicendole che se c’era un’ipocrita, quella era lei, la sua vita intera era stata una messinscena, e se per un attimo avesse smesso di piangersi addosso forse avrebbe visto che Lola quasi non riusciva a mangiare perché i denti le stavano marcendo in bocca, e almeno una volta poteva provare a considerarla un essere umano e non una schiava tenuta in vita per servirla.
“Una schiava”, disse mamma, soppesando la parola. “Una schiava?”.
La lite finì quando mia madre disse che non avrei mai capito il suo rapporto con Lola. Mai. Lo disse con una voce così addolorata che se ci ripenso, ancora oggi, dopo anni, provo come un pugno allo stomaco. È terribile odiare la propria madre, e quella notte la odiai.
Quel litigio non fece che alimentare il timore di mia madre che Lola le avesse rubato i figli, e Lola ne fece le spese. Mia madre la faceva sgobbare ancora di più. Quando aiutavamo Lola nelle faccende di casa, mamma s’innervosiva. “È meglio se vai a dormire, Lola”, diceva sarcastica. “Stai lavorando troppo. I tuoi figli sono preoccupati per te”. Poi, più tardi, la chiamava in una stanza per parlarle, e Lola usciva con gli occhi gonfi.
Lola finì per supplicarci di non aiutarla più.
“Perché rimani?”, le chiedemmo.
“Chi cucinerebbe?”, disse, e mi sembrò che volesse dire “chi farebbe tutto?”. Chi si sarebbe occupato di noi? Di mamma? Un’altra volta disse: “E dove potrei andare?”. La risposta mi colpì come la più vera. Trasferirci negli Stati Uniti era stata una corsa folle, e quando ci fermammo per prendere iato erano già passati dieci anni. Ci voltammo, e altri dieci anni erano passati. I capelli di Lola erano diventati grigi. Venne a sapere che alcuni parenti nelle Filippine, non avendo ricevuto i soldi promessi, si chiedevano cosa le fosse successo. Si vergognava di tornare. Non aveva conoscenze negli Stati Uniti e nessun mezzo per spostarsi. I telefoni la sconcertavano. Gli oggetti meccanici – sportelli bancomat, citofoni, distributori automatici, qualunque cosa avesse una tastiera – la gettavano nel panico. Le persone che parlavano velocemente la facevano ammutolire, e il suo inglese stentato aveva lo stesso effetto sugli altri. Non era in grado di prendere un appuntamento, di organizzare un viaggio, di riempire un formulario o di ordinare da mangiare senza aiuto.
Le procurai un bancomat associato al mio conto bancario e le insegnai a usarlo. Ci riuscì una prima volta, ma la seconda s’innervosì e non ci provò mai più.
Conservò la carta perché la considerava un regalo.
Le corsie da quattro sono diventate due, l’asfalto ha lasciato il posto alla ghiaia. I tricicli ondeggiavano tra le macchine e i bufali d’acqua, trainando carichi di bambù. Ogni tanto un cane o una capra attraversavano di corsa la strada sfiorando il nostro paraurti. Doods non rallentava mai. Tutto ciò che non sopravviveva sarebbe finito in pentola oggi invece che domani: è la legge della strada nelle province.
Ho tirato fuori una cartina stradale e ho seguito il percorso fino al villaggio di Mayantoc, la nostra meta. Fuori dal finestrino, in lontananza, delle figure minute si chinavano in avanti. Persone intente a raccogliere il riso, come si fa da migliaia di anni. Eravamo vicini.
Ho battuto le dita sulla scatola di plastica da quattro soldi e mi sono pentito di non aver comprato una vera urna di porcellana. Cosa avrebbero pensato le persone vicine a Lola? Non ne rimanevano molte. Nella zona abitava un’unica sorella, Gregoria, che aveva 98 anni e una memoria ormai vacillante. I parenti dicevano che appena sentiva il nome di Lola scoppiava e piangere, ma poi dimenticava subito il motivo.
Ero in contatto con una nipote di Lola, che aveva organizzato il programma della giornata. Dopo il mio arrivo ci sarebbe stata una piccola cerimonia commemorativa, poi una preghiera seguita dall’inumazione delle ceneri nel Mayantoc eternal bliss memorial park. Erano passati cinque anni dalla morte di Lola, ma non le avevo ancora dato quell’ultimo saluto. Era tutto il giorno che provavo un dolore profondo e che resistevo all’impulso di sfogarlo, perché non volevo piangere davanti a Doods. Più della vergogna per come la mia famiglia aveva trattato Lola, più dell’ansia al pensiero di come i suoi parenti a Mayantoc avrebbero trattato me, ero terribilmente oppresso dalla perdita, come se Lola fosse morta solo il giorno prima.
Doods ha svoltato a sinistra per Camiling, la città di origine di mia madre e del tenente Tom. Le corsie da due sono diventate una, la ghiaia ha lasciato il posto alla terra battuta. Il sentiero correva lungo il fiume Camiling, accanto a gruppi di capanne di bambù, perdendosi tra verdi colline. Eravamo arrivati.
Al funerale di mia madre feci io l’elogio funebre, e tutto ciò che dissi era vero. Che era una donna coraggiosa ed energica, che era stata sfortunata ma aveva sempre fatto del suo meglio. Che quando era felice era raggiante, che adorava i figli e ci aveva dato una casa a Salem, nell’Oregon, che era diventata il nostro primo, vero punto di riferimento. Che avrei voluto ringraziarla ancora una volta. Che la amavamo tutti.
Non parlai di Lola, proprio come l’avevo tenuta fuori dalla mia testa quando ero con mia madre negli ultimi anni della sua vita. Amare mia madre richiedeva questo tipo di intervento chirurgico. Per noi era l’unico modo di essere madre e figlio, ed era una cosa che desideravo molto, soprattutto quando la sua salute cominciò a peggiorare, a metà degli anni novanta. Diabete. Tumore al seno. Leucemia mieloide acuta, un tumore del sangue e del midollo osseo a rapido sviluppo. Diventò di colpo gracile, lei che era stata così robusta.
Dopo il grande litigio, evitavo per quanto possibile di andare a casa, e a 23 anni mi trasferii a Seattle. Quando tornavo in visita, notavo dei cambiamenti. Mamma era ancora mamma, ma in modo meno implacabile. Aveva fatto avere a Lola una dentiera e le aveva lasciato una stanza tutta per sé. Quando con i miei fratelli decidemmo di regolarizzare la situazione di Lola ci aiutò. La storica legge sull’immigrazione voluta da Ronald Reagan nel 1986 permise a milioni di immigrati irregolari di chiedere la regolarizzazione. La procedura era lunga, ma Lola diventò una cittadina statunitense nell’ottobre del 1998, quattro mesi dopo che a mia madre era stata diagnosticata la leucemia. In quel periodo lei e Ivan andavano in gita a Lincoln City, sulla costa dell’Oregon, e a volte portavano anche Lola. Lola adorava l’oceano. Dall’altra parte c’erano le isole dove sognava di tornare. La cosa che più la rendeva felice era vedere mamma rilassata. Bastavano un pomeriggio sulla costa o un quarto d’ora a ricordare i vecchi tempi in provincia, e Lola sembrava dimenticare anni di tormenti.
Io non riuscivo dimenticare così facilmente. Ma finii per vedere mamma sotto una luce diversa. Prima di morire mi diede i suoi diari, che riempivano due vecchi bauli. Sfogliandoli mentre lei dormiva a qualche metro da me, intravidi parti della sua vita che per anni avevo rifiutato di considerare. Aveva studiato medicina quando ancora poche donne facevano quegli studi. Era venuta negli Stati Uniti e aveva lottato per farsi rispettare come donna, come medico e come immigrata. Aveva lavorato per vent’anni al Fairview training center, a Salem. I pazienti l’adoravano. Le colleghe erano diventate amiche strette. Insieme facevano cose da ragazzine: andare a comprarsi le scarpe, organizzare feste in maschera, scambiarsi regali scemi come saponi a forma di pene e calendari con uomini mezzi nudi, tutto ridendo come matte. Guardando le foto delle loro feste mi ricordai che mamma aveva una vita e un’identità al di fuori della famiglia e di Lola. Ovvio.
Mia madre scriveva in dettaglio su ognuno di noi figli, e su quello che provava per noi in certi giorni: orgoglio, amore o risentimento. E aveva dedicato volumi interi ai suoi mariti, cercando di rappresentarli come personaggi complessi nella storia della sua vita. Eravamo tutti importanti. Lola era marginale. Quando capitava che ne parlasse, era come una particina nella vita di qualcun altro. “Oggi Lola ha accompagnato il mio amato Alex alla nuova scuola. Spero si faccia presto degli amici e che non sia più triste per questo ennesimo trasferimento”. Poi c’erano altre due pagine su di me, e su Lola nemmeno una parola.
Il giorno prima che morisse mamma, un prete cattolico venne a casa per dare a mia madre l’estrema unzione. Lola era seduta accanto al letto di mamma e reggeva una tazza con una cannuccia, pronta a portargliela alle labbra. Era diventata particolarmente premurosa con lei. Avrebbe potuto approfittare della sua debolezza, perfino vendicarsi, ma fece il contrario.
Il prete chiese a mia madre se c’era qualcosa che voleva perdonare o per cui voleva essere perdonata. Mamma perlustrò la camera da sotto le palpebre pesanti e non disse nulla. Poi, senza guardare Lola, allungò un braccio e le appoggiò una mano sulla testa. Non disse una parola.
Vecchie abitudini
Lola aveva 75 anni quando venne a stare da me. Ero sposato e avevo due bambine piccole. Vivevamo in una casa accogliente vicino a un bosco. Dal secondo piano si vedeva lo stretto di Puget. Diedi a Lola una stanza e il permesso di fare quello che voleva: dormire fino a tardi, guardare le soap opera, non fare nulla dalla mattina alla sera. Poteva rilassarsi – ed essere libera – per la prima volta nella sua vita. Avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato semplice.
Avevo dimenticato tutte le piccole cose di Lola che mi facevano saltare i nervi. Mi diceva continuamente dimettere una felpa altrimenti avrei preso freddo. La sua parsimonia era più difficile da ignorare. Non buttava via nulla. E aveva l’abitudine d’ispezionare la pattumiera per accertarsi che non avessimo buttato nulla di utile. La cucina si riempì di buste della spesa e di barattoli vuoti di yogurt e di sottaceti, e la casa diventò in parte un deposito di – non c’è altra parola – spazzatura.
Preparava la colazione anche se la mattina nessuno di noi mangiava più di una banana o di una barretta di cereali, di solito uscendo di corsa di casa. Ci rifaceva i letti e ci lavava i vestiti. Mi ritrovai a dirle, in un primo momento con gentilezza: “Lola, non devi fare tutto questo”, “Lola, lo facciamo noi”. D’accordo, rispondeva, e continuava come prima.
Mi irritava sorprenderla a mangiare in piedi in cucina, e vederla saltare su e cominciare a pulire quando entravo in una stanza. Un giorno, dopo diversi mesi, la feci sedere. “Non sono papà. Non sei una schiava qui”, dissi, e le elencai una lunga lista di compiti da schiava che continuava a svolgere. Quando notai la sua aria sbigottita, feci un respiro profondo e le presi il viso tra le mani, quel viso piccolo e delicato che ora mi guardava con occhi indagatori. Le diedi un bacio sulla fronte. “Questa è casa tua ora”, dissi. “Non sei qui per servirci. Puoi rilassarti, d’accordo?”.
“D’accordo”, disse. E si rimise a pulire.
Non conosceva un altro modo di essere. Dovevo ripetermi incessantemente: lasciala essere se stessa.
Una sera tornai a casa e la trovai seduta sul divano a fare un cruciverba, con i piedi appoggiati al tavolino, il televisore acceso e una tazza di tè. Alzò lo sguardo, mi lanciò un sorriso imbarazzato rivelando la dentiera bianca e perfetta e riprese a fare il suo cruciverba.“Facciamo progressi”, pensai.
Piantò dei fiori nel giardino sul retro, rose, tulipani e orchidee di ogni genere. Trascorreva pomeriggi interi a curarli. Faceva delle passeggiate nel quartiere. Quando compì ottant’anni, la sua artrite peggiorò e cominciò a camminare con un bastone. Passando accanto alla porta della sua stanza sentivo che spesso ascoltava una cassetta di canzoni popolari filippine. Sempre la stessa cassetta. Sapevo che mandava quasi tutti i suoi soldi – mia moglie e io le davamo duecento dollari a settimana – ai suoi familiari. Un pomeriggio la trovai seduta sul patio del retro. Stava issando uno fotografia del suo villaggio che qualcuno le aveva mandato.
“Vuoi tornare a casa, Lola?”.
“Sì”, rispose.
Le pagai il biglietto per tornare a casa, poco dopo il suo ottantatreesimo compleanno. L’avrei raggiunta un mese dopo per riportarla negli Stati Uniti, sempre che volesse tornare. Il tacito obiettivo del viaggio era permetterle di capire se si sentiva ancora a casa nel luogo che le mancava da tanti anni.
Trovò la risposta. “Tutto non era più uguale”, mi disse mentre passeggiavamo a Mayantoc. Le vecchie fattorie non c’erano più. Casa sua non c’era più. I suoi genitori e quasi tutti i suoi fratelli non c’erano più. Gli amici d’infanzia, quelli ancora in vita, erano diventati degli estranei. Era bello vederli, ma tutto non era più uguale. Le sarebbe comunque piaciuto trascorrere qui i suoi ultimi anni, ma non era ancora pronta.
“Sei pronta per tornare al tuo giardino”, dissi.
“Sì. Torniamo a casa”.
Lola era devota alle mie figlie come lo era stata a me e ai miei fratelli quando eravamo piccoli. Dopo la scuola ascoltava i loro racconti e preparava da mangiare. E a differenza di me e di mia moglie (soprattutto di me), Lola apprezzava ogni minuto di ogni recita ed evento scolastico. Non le bastavano mai. Si sedeva in prima fila, teneva i programmi per ricordo. Era così facile renderla felice. La portavamo in vacanza con noi, ma si entusiasmava anche quando andavamo al mercato contadino in fondo alla strada, ai piedi della collina. Diventava una bambina in gita con gli occhi spalancati dalla meraviglia: “Guarda quelle zucchine!”. La prima cosa che faceva ogni mattina era aprire tutte le persiane di casa, e a ogni finestra si fermava a guardare fuori.
Imparò da sola a leggere. Fu straordinario. Negli anni era riuscita chissà come a capire la pronuncia delle lettere. Faceva quei giochi enigmistici in cui bisogna trovare e cerchiare delle parole in una griglia di lettere. Nella sua stanza c’erano pile di giornali di enigmistica, migliaia di parole cerchiate a matita. Ogni giorno guardava il telegiornale e cercava di afferrare le parole che conosceva. Provava a ricollegarle alle parole nel giornale, e riusciva a capire il significato. Arrivò al punto di leggere il giornale ogni giorno, dalla prima all’ultima pagina. Papà diceva di lei che era lenta. Mi chiesi cosa sarebbe potuta diventare se, invece di lavorare nelle risaie dall’età di otto anni, avesse imparato a leggere e a scrivere.
Nei dodici anni in cui visse con noi, le feci spesso delle domande personali, cercando di ricostruire la storia della sua vita, un’abitudine che Lola trovava bizzarra. Spesso cominciava a rispondere dicendo: “Perché?”. Perché volevo sapere della sua infanzia e di come aveva incontrato il tenente Tom?
Provai a spingere mia sorella Ling a farle delle domande sulla sua vita sentimentale, forse Lola si sarebbe sentita più a suo agio con lei. Ling ridacchiò, il suo modo per dire che dovevo cavarmela da solo. Un giorno, mentre io e Lola stavamo mettendo a posto la spesa, non riuscii a trattenermi: “Lola, hai mai avuto una relazione romantica con qualcuno?”. Sorrise, poi mi raccontò dell’unica volta in cui ci era andata vicino. Aveva circa quindici anni e c’era un ragazzo molto bello, Pedro, che viveva in una fattoria vicina. Per mesi avevano raccolto il riso insieme, fianco a fianco. Un giorno Lola aveva fatto cadere il suo bolo – un attrezzo per tagliare – e Pedro lo aveva raccolta subito, porgendoglielo. “Mi piaceva”, disse Lola.
Silenzio.
“E?”.
“Tutto qui”.
“Lola, hai mai fatto sesso?”, mi sentii chiederle.
“No”, rispose.
Non era abituata alle domande personali. “Katulonglang ako”, diceva. Sono solo una domestica. Spesso rispondeva con una o due parole, e strapparle anche il più semplice degli aneddoti diventava un’impresa che poteva andare avanti per giorni o settimane.
Alcune delle mie scoperte: Lola ce l’aveva con mamma per essere stata così crudele tutti quegli anni, ma nonostante questo sentiva la sua mancanza. A volte, quando era giovane, Lola si sentiva così sola che non poteva fare altro che piangere. Sapevo che c’erano stati anni in cui sognava di stare con un uomo. L’avevo capito vedendo come abbracciava un grosso cuscino la sera. Ma quando era anziana mi disse che vivendo con i mariti di mamma si era resa conto che stare da sola non era poi così male. Forse avrebbe avuto una vita migliore se fosse rimasta a Mayantoc, se si fosse sposata e avesse avuto una famiglia come i suoi fratelli. Ma forse sarebbe stato peggio. Due sorelle più giovani, Francisca e Zepriana, si erano ammalate ed erano morte. Un fratello, Claudio, era stato ucciso. “Che senso ha farsi queste domande ora?”, diceva. Bahala na: era il suo principio guida. Accada quel che accada. Lei aveva avuto un altro tipo di famiglia. In quella famiglia aveva otto figli: mamma, io e i miei quattro fratelli, e le mie due figlie. Noi otto, disse, avevamo dato un senso alla sua vita.
Nessuno di noi era pronto a vederla morire così all’improvviso.
Il suo infarto cominciò in cucina, mentre preparava la cena. Un paio di ore dopo in ospedale, prima che potessi capire cosa stava succedendo, non c’era più. Erano le 22.56. Tutti i figli e i nipoti si accorsero – pur non sapendo come interpretarlo – che Lola era morta il 7 novembre, come mamma, a dodici anni di distanza.
Lola ha vissuto fino a 86 anni. Mi sembra ancora divederla sulla barella. Ricordo di aver guardato i medici in piedi accanto a quella donna dalla pelle marrone, alta come una bambina, e di aver pensato che non potevano immaginare la vita che aveva fatto. Era priva dell’egoistica ambizione che anima quasi tutti noi, e rinunciando a tutto per le persone che la circondavano aveva conquistato il nostro amore e la nostra fedeltà. Oggi nella mia famiglia Lola è una figura venerata.
Mi ci sono voluti mesi per svuotare tutti i suoi scatoloni in soffitta. Ho trovato delle ricette che aveva ritagliato da alcune riviste negli anni settanta, pensando al giorno in cui avrebbe imparato a leggere. Album con delle foto di mia madre. Premi che avevamo vinto dalle elementari in poi, che noi avevamo buttato e che lei aveva “salvato”. Sono quasi scoppiato a piangere una sera trovando in fondo a uno scatolone una serie di miei articoli ingialliti che neanche ricordavo più. All’epoca Lola non sapeva leggere, ma li aveva tenuti lo stesso.
Il furgone di Doods si è avvicinato a una casetta di calcestruzzo in mezzo a un gruppo di abitazioni fatte quasi tutte di assi e bambù. Intorno al grappolo di case, risaie apparentemente sterminate. Prima ancora di scendere dal furgone ho visto delle persone uscire dalla casa. Doods ha reclinato il suo schienale per schiacciare un sonnellino. Ho messo la borsa di tela in spalla, ho fatto un respiro e ho aperto la portiera.

“Da questa parte”, ha detto una voce sommessa, e sono stato guidato lungo un vialetto fino alla casa di calcestruzzo. Subito dietro di me c’era una fila di circa venti persone, giovani e anziane, soprattutto anziane. Una volta dentro, tutti hanno preso posto sulle sedie e le panche disposte lungo le pareti, lasciandomi solo al centro della stanza. Sono rimasto in piedi, aspettando di conoscere il padrone di casa. Era una stanza piccola e buia. Tutti mi guardavano con ansia. “Dov’è Lola?”. Una voce da un’altra stanza. Un attimo dopo, una donna di mezza età, in abito da casa, è entrata lentamente, sorridendo. Ebia, la nipote di Lola. Eravamo a casa sua. Mi ha abbracciato e ha ripetuto: “Dov’è Lola?”.
Ho fatto scivolare la borsa dalla mia spalla e gliel’ho consegnata. Mi ha guardato negli occhi, continuando a sorridere, ha preso delicatamente la borsa ed è andata a sedersi su una panca di legno. Ha tirato fuori la scatola e l’ha guardata da ogni lato. “Dov’è Lola?”, ha chiesto piano. Da queste parti non usa far cremare i propri cari. Non credo sapesse cosa aspettarsi. Ebia si è appoggiata la scatola sulle gambe e si è chinata in avanti fino a toccarla con la fronte. All’inizio ho pensato che stesse ridendo di gioia, ma ho capito subito che stava piangendo. Le spalle hanno cominciato a ondeggiare su e giù, e poi Ebia ha pianto, un profondo gemito di dolore, come di un animale, simile a quello che avevo sentito fare a Lola.
Se non ero venuto prima a portare le ceneri di Lola, era in parte perché non ero sicuro che nelle Filippine qualcuno pensasse ancora a lei. Non mi aspettavo un simile cordoglio. Prima che potessi consolare Ebia, una donna è entrata dalla cucina, l’ha stretta tra le braccia e si è messa a piangere. Un istante dopo tutta la stanza è scoppiata in lacrime. Le persone anziane – una di loro era cieca, altre erano sdentate – piangevano tutte, senza ritegno. È durato circa dieci minuti. Ero così affascinato che quasi non mi sono accorto delle lacrime sul mio viso. Poi i singhiozzi si sono spenti e tutto è tornato calmo.
Ebia ha tirato su con il naso e ha detto che era ora di mangiare. Tutti sono entrati in fila in cucina, con gli occhi gonfi ma sentendosi di colpo leggeri e pronti a raccontare aneddoti. Ho lanciato uno sguardo alla borsa di tela vuota rimasta sulla panca e ho capito che era stato giusto riportare Lola nel luogo dov’era nata.

(Traduzione di Francesca Spinelli)
Questo articolo è uscito nel numero 1210 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato sull’Atlantic con il titolo My family’s slave.