La notizia arriva dalla Germania ed è Verena Kaspari, direttrice
dello zoo di Neumunster, a darla: dati i mancati introiti causati dalla
chiusura degli zoo per la pandemia in corso, dal momento che gli animali,
coronavirus o no, devono pur mangiare, si prospetta come soluzione
che un certo numero di essi vengano dati in pasto ad altri, prescelti per la
salvezza, che così non moriranno di fame. La direttrice non manca di
definire spiacevole la soluzione, ma, al di là dell’esternazione di
sofferti stati d’animo, né da lei né da nessun altra autorità
proviene riflessione alcuna sullo stato delle cose e la sua
origine.
Poco da stupirsi: i disastri che accompagnano
il Covid-19, per quanta apprensione suscitino per
le vittime umane (di quelle nonumane in genere si parla poco, ma per
lo più niente), non suggeriscono domande
necessarie: nello specifico quel “Che ci faccio qui?” che
ogni singolo animale dello zoo avrebbe il diritto di porre, dal luogo dove di
certo non dovrebbe essere.
Una breve storia
La risposta gli umani dovrebbero saperla dare, avendo avuto
tanto tempo per pensarci, visto che sono centinaia se non migliaia di anni che
gli animali li costringono lì, da quando gli egizi insediarono i primi zoo,
seguiti poi dai greci, che insegnarono a leoni, orsi, cavalli a danzare,
inchinarsi e fare giochi di abilità, e inventarono i primi serragli itineranti.
Roma, non per niente caput mundi, non si
accontentò e impiegò gli animali prigionieri in lotte atroci quanto
creative, che coinvolsero nelle carneficine umani e nonumani:
11.000, ricordano gli storici, gli animali uccisi al Colosseo giusto per
festeggiare degnamente i successi militari dell’imperatore Traiano, che quanti
umani aveva ucciso con precisione non è dato sapere, ma di certo si era dato da
fare: l’attrazione per sangue e morte, alimentata nel corso delle
guerre, strabordava e celebrava se stessa, tanto che i cittadini
romani erano se mai disposti a rinunciare al “panem” ma non ai
“circenses”: siccome poi l’assuefazione col tempo rendeva le
esibizioni sempre meno strabilianti, per risvegliare
un piacere che andava assopendosi, “veniva escogitato ogni genere di
atrocità: e allora si potevano incatenare insieme un orso e un toro
per godersi lo spettacolo.”[1]
Con
l’avvento della cristianità andarono lentamente a scomparire le uccisioni per
puro divertimento tra gli uomini e, solo in parte, degli animali: non certo
scomparvero sfruttamento, ridicolizzazione e umiliazione a loro danno da
parte degli spettatori.
Tempi moderni
Da queste origini, gli zoo sono arrivati ai giorni
nostri: solo nei migliori dei casi si sono trasformati nei bioparchi, capaci di
offrire spazi più ampi di quelli di una gabbia, ma sempre (salvo quelli nati
come “santuari” per animali salvati da condizioni di prigionia) strutture dove
gli animali vivono in ambienti, latitudini, contesti innaturali, ad esclusivo
beneficio, essenzialmente economico, degli umani.
Non facciamoci mancare niente
Per capire fino in fondo su quali dinamiche, esplicite o
sottintese, si inserisce il concetto di zoo, è illuminante ricordare
che vi sono stati periodi, cronologicamente e geograficamente vicini a noi in
modo imbarazzante, in cui gli zoo animali sono stati affiancati da
zoo umani, in cui venivano rinchiusi ed esibiti altri “diversi”[2],
diversi dal modello dominante del bianco occidentale: quindi uomini, donne
e bambini in genere africani, perché il colore della pelle era sufficiente a
destare interesse, ma anche persone fornite di caratteristiche
anomale d’altro tipo, come fu per esempio il caso della Venere Ottentotta, al
secolo Sarah Saartjie, i cui fianchi larghi e natiche sporgenti
catalizzavano curiosità certo non solo scientifiche. Insomma, servivano
elementi che li rendessero fenomeni da esibire in gabbie o recinti,
magari anche toccare, non nutrire però: a Bruxelles ( 1897) un cartello, appeso
alla gabbia dei congolesi, raccomandava e rassicurava: “Non dare da mangiare ai
negri: sono nutriti”. Da non dimenticare nemmeno il caso famoso di Ota Benga,
piccolo schiavo pigmeo “importato” dal Congo da un missionario fino
al Giardino zoologico di New York (1906), esibito nella casa delle scimmie,
dove veniva pungolato tra le costole per vederne la reazione, mentre tutti
ridevano di lui: finì suicida, a fronte della morte da prostituta alcolizzata e
devastata di Sarah.
E non si tratta di casi isolati, perché questi strani umani
furono esibiti nelle Grandi Esposizioni Internazionali: nel 1889 (
nel centenario della Rivoluzione francese combattuta al grido di Libertè,
Fraternitè, Egualitè!!! Seguita dalla Dichiarazione dei Diritti
dell’Uomo), fu offerto a 32 milioni di visitatori lo show di un villaggio
africano con selvaggi provenienti da varie parti del mondo cosiddetto
sottosviluppato. A Parigi tra il 1877 e il 1931 ci furono ben 34
esposizioni antropozoologiche nel Jardin Zoologique d’Acclimatation, che divenne
il luogo simbolo delle esposizioni di esseri umani e contestualmente di decine
di migliaia di animali. Lo status di questi ultimi variava a seconda
dell’interesse: nel corso delle guerre, per
esempio, cessavano improvvisamente di essere specie preziose, da
osservare ammirati, per essere uccisi e trasformati in cibo: del
resto in ogni guerra hanno pagato prezzi inenarrabili, oltre che gli umani,
tutti gli animali, senza che sia mai stato fatto il computo dei loro di morti,
innocenti come i più innocenti dei civili. Una tragica testimonianza
la trasmette Edgardo Franzosini in un libro, il cui titolo, “Questa
vita tuttavia mi pesa molto”,[3] sembra
tagliato su misura su ognuno degli animali di cui parla: nel 1914,
allo scoppio della prima guerra mondiale, per evitare problemi conseguenti agli
incipienti bombardamenti, il direttore dello zoo di Anversa decide di fare
uccidere preventivamente lo smisurato numero di animali rinchiusi, affidando la
“spaventosa faccenda” ad un plotone di 50 uomini, che cominciano dagli uccelli,
i quali strepitano impazziti nelle voliere; procedono ad un’esecuzione in piena
regola dell’elefante con una decina di soldati disposti su due
file, gli uni accovacciati, gli altri in piedi come nella più
precisa delle fucilazioni; per le antilopi si preferisce la baionetta, perché
le munizioni è meglio conservarle per gli animali più grandi, senza che
tuttavia sia risparmiata una agonia di molte ore al rinoceronte; e
così via. Ultime le scimmie: assomigliano troppo agli uomini.
Cronache da un passato incivile? Non è così: nel 2002 nel sud
del Belgio si organizzò un’esposizione di pigmei, presto chiusa per
l’intervento delle organizzazioni umanitarie e nel 2005 ad Augusta fu
inaugurato un Africa Village all’interno di uno zoo, considerato il luogo
migliore per trasmettere un’atmosfera esotica.
Oggi
Se gli zoo umani sembrano in esaurimento (ma non è il caso di
distrarsi troppo, visti i tempi), per gli animali le cose non sono cambiate:
ancora la loro natura viene mortificata e controllata nei recinti e nelle
gabbie, ad uso e consumo di un pubblico di solito distratto e superficiale. I
cartellini con le spiegazioni sugli animali non vengono in genere lette, i
visitatori sono attratti se mai dai cuccioli (motivo per cui gli animali
vengono fatti riprodurre), mentre la gente passa più tempo a
discutere con i bambini, a cambiare pannolini e a mangiare che non ad osservare
gli animali. In media 8 secondi davanti ad un serpente, 1 minuto davanti ad un
leone: ciò a fronte, da parte loro, di una vita intera in cattività., [4] in
condizioni di sofferenza estrema. Sofferenza fisica, ma anche psicologica,
esattamente come accade agli umani impediti a condurre una vita rispettosa
delle proprie necessità: gli studiosi parlano ormai di patologie
psichiatriche, che si ritenevano esclusivo appannaggio umano, quali
il Post-Traumatic Stress Disorder, collegato a situazioni di grave stress,
riscontrato in elefanti e scimpanzè, che mostrano estrema
ansietà, quale conseguenza dell’isolamento, dell’incarcerazione,
delle minacce di morte, dell’allontanamento da conspecifici.[5] Davvero
non si capisce dove potrebbe essere reperito il valore educativo, sempre
sbandierato, di strutture di questo genere. Dice bene Gay Bradswow, studioso di
elefanti, quando afferma che “Gli zoo non sono più educativi delle prigioni.
Non c’è nulla di educativo. Diventeranno educativi quando non conterranno più
animali e si potrà visitarli come si fa con Aushwitz, senza più vedere i
prigionieri, ma sentendo la presenza dei fantasmi degli animali che ci sono
stati”. Quindi camminando tra gabbie finalmente vuote.
Intanto le gabbie vuote non sono e le cronache ci consegnano
episodi che sono pugni nello stomaco di ogni persona pur se di sensibilità
medio-bassa. Qualche flash: a Bagdad, dopo la caduta della città nel 2003,
quattro leoni impazziti per la fame scappano dallo zoo, dopo essersi aperti una
via di fuga a zampate contro un muro di recinzione pericolante: abbattuti. A
Tbilisi, in Georgia, a seguito di un’inondazione una tigre albina fugge e la
sua sorte è segnata. In Germania ( 2015) è un orango ad essere fucilato dopo
avere tentato la fuga dallo zoo di Duisburg. E poi
c’è Harambe, il gorilla ucciso nello zoo di Cincinnati per pagare la
leggerezza colpevole di due genitori incapaci di badare al loro
bambino di quattro anni, finito quindi nella gabbia: colpa che è Harambe a
pagare con la vita. Se questi sono fatti straordinari, discendono
però dall’ordinarietà: impossibile dimenticare Marius, il giraffino ucciso
nello zoo di Copenghen, colpevole di risultare in sovrappiù rispetto alla
disponibilità di spazio, e per questo fatto a pezzi sotto gli occhi di bambini
annichiliti e dato in pasto ad altri animali. A volte l’epilogo è rovesciato:
nel settembre 2016 è un guardiano ad essere aggredito alle spalle, nello zoo
tedesco di Munster da Rasputin, esemplare di tigre siberiana che evidentemente
di avere un guardiano non travisava la necessità; mentre nel luglio 2016 è una
lavoratrice del Parco Terra Natura, sulla costa orientale della Spagna, ad
essere assalita e uccisa dalla tigre asiatica, uscita dalla porta della gabbia
rimasta socchiusa. Si può continuare: a pagare la terribile crisi
economica che nel 2016 devasta il Venezuela, insieme a tutta la popolazione,
sono gli animali rinchiusi a Caricuao, zoo di Caracas, dove gli animali
muoiono di inedia l’uno dopo l’altro.
E’ esattamente in questa cornice che si inserisce
l’ipotesi di dare animali in pasto ad altri animali negli zoo
tedeschi: niente di nuovo sotto il sole, dunque: solo l’orrida
ripetizione di qualcosa di più e più volte già accaduto, oggi come ieri
sdoganata grazie ad un meccanismo di giustificazione morale, a cui i
dirigenti si appellano, ritenendo che il presunto stato di necessità cancelli le
lor responsabilità per una scelta tanto sciagurata. E’, molto
banalmente, la teoria che il fine giustifichi i mezzi, teoria in
nome della quale non bisogna dimenticare che le peggiori ignominie sono sempre
state compiute.
Drammatico prendere atto di come la storia insegni ben poco,
talvolta nulla, e i tanti “Mai più” e “Not in my name” affinchè gli orrori del
passato non vengano ripetuti, si esauriscano in mantra carichi di emotività, ma
privi della forza per diventare reale progetto di trasformazione.
Considerazioni generali che, applicate alla prigionia degli animali, dopo tante
ignominie avrebbero dovuto semplicemente tradursi nella chiusura degli zoo. Il
tutto invece è stato sottoposto ad un processo di rimozione, tale per cui
davanti a ciò che oggi viene prospettato ci meravigliamo e inorridiamo come
fosse la prima volta.
Non è un pensiero rassicurante quello rivolto alla nostra
incapacità ad essere diversi da come siamo sempre stati: l’attuale pandemia
vede dilagare appelli ai buoni sentimenti, richiami al ruolo catartico delle
difficoltà, pensieri al mondo nuovo che saremo pronti a costruire dopo avere
toccato con mano l’effimero che siamo.
Se di male estremo è piena la nostra storia, di male
estremo contro gli animali è stracolmo anche il nostro presente: non basterebbe
l’infinito tempo per riscattarci dalle colpe verso di loro, ma,
caparbi, non ci sogniamo nemmeno di cominciare a
farlo.
[1] Peter
Singer, “Liberazione animale”, Net Milano 2003
[2] Si
legga l’ampia esposizione del problema in Viviano Domenici “Uomini
in gabbia”. Il Saggiatore 2015
[3] Edgardo
Franzosini, “Questa vita tuttavia mi pesa molto” . Adelphi, 2015
[4] Le
informazioni, con relative fonti e indicazioni di ricerche, sono contenute in
Mark Hawthorne, “Bleating Hearts”. Change Makers Books 2013.
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