martedì 5 maggio 2020

Vita e morte negli zoo: “solo quando muore, per un animale si apre la gabbia”[1] - Annamaria Manzoni


 

La notizia arriva dalla Germania ed è Verena Kaspari, direttrice dello zoo di Neumunster, a darla: dati i mancati introiti causati dalla chiusura degli zoo per la pandemia in corso, dal momento che gli animali, coronavirus o no,  devono pur mangiare, si prospetta come soluzione che un certo numero di essi vengano dati in pasto ad altri, prescelti per la salvezza, che così  non moriranno di fame. La direttrice non manca di definire spiacevole la soluzione, ma, al di là dell’esternazione  di sofferti stati d’animo,  né da lei né da nessun altra autorità proviene riflessione alcuna sullo stato delle cose e la sua origine.  
Poco da stupirsi: i disastri che accompagnano il  Covid-19, per quanta apprensione suscitino per le  vittime umane (di quelle nonumane in genere si parla poco, ma per lo più niente),  non suggeriscono domande necessarie:  nello specifico  quel “Che ci faccio qui?” che ogni singolo animale dello zoo avrebbe il diritto di porre, dal luogo dove di certo non dovrebbe essere.

Una breve storia
La risposta gli umani dovrebbero saperla dare, avendo avuto tanto tempo per pensarci, visto che sono centinaia se non migliaia di anni che gli animali li costringono lì, da quando gli egizi insediarono i primi zoo, seguiti poi dai greci, che insegnarono a leoni, orsi, cavalli a danzare, inchinarsi e fare giochi di abilità, e inventarono i primi serragli itineranti. Roma, non per niente caput mundi,   non si accontentò  e impiegò gli animali prigionieri in lotte atroci quanto creative, che coinvolsero nelle carneficine  umani e nonumani: 11.000, ricordano gli storici, gli animali uccisi al Colosseo giusto per festeggiare degnamente i successi militari dell’imperatore Traiano, che quanti umani aveva ucciso con precisione non è dato sapere, ma di certo si era dato da fare:  l’attrazione per sangue e morte, alimentata nel corso delle guerre, strabordava  e celebrava se stessa, tanto che i cittadini romani erano se mai disposti a  rinunciare al “panem” ma non ai “circenses”:  siccome poi l’assuefazione col tempo rendeva le esibizioni sempre meno strabilianti,  per risvegliare un  piacere che andava assopendosi, “veniva escogitato ogni genere di atrocità: e allora si potevano incatenare insieme un  orso e un toro per godersi lo spettacolo.”[1]
          Con l’avvento della cristianità andarono lentamente a scomparire le uccisioni per puro divertimento tra gli uomini e, solo in parte, degli animali: non certo scomparvero sfruttamento, ridicolizzazione e umiliazione a loro danno da parte  degli spettatori.

Tempi moderni
Da queste origini, gli zoo  sono arrivati ai giorni nostri: solo nei migliori dei casi si sono trasformati nei bioparchi, capaci di offrire spazi più ampi di quelli di una gabbia, ma sempre (salvo quelli nati come “santuari” per animali salvati da condizioni di prigionia) strutture dove gli animali vivono in ambienti, latitudini, contesti innaturali, ad esclusivo beneficio, essenzialmente economico, degli umani.

Non facciamoci mancare niente
Per capire fino in fondo su quali dinamiche, esplicite o sottintese, si inserisce il concetto di zoo, è illuminante  ricordare che vi sono stati periodi, cronologicamente e geograficamente vicini a noi in modo  imbarazzante, in cui gli zoo animali sono stati affiancati da zoo umani, in cui venivano rinchiusi ed esibiti altri “diversi”[2], diversi dal modello dominante del bianco occidentale: quindi uomini, donne e bambini in genere africani, perché il colore della pelle era sufficiente a destare interesse, ma anche persone fornite di  caratteristiche anomale d’altro tipo, come fu per esempio il caso della Venere Ottentotta, al secolo Sarah Saartjie, i cui fianchi larghi e  natiche sporgenti catalizzavano curiosità certo non solo scientifiche. Insomma, servivano elementi che li rendessero fenomeni da esibire in  gabbie o recinti, magari anche toccare, non nutrire però: a Bruxelles ( 1897) un cartello, appeso alla gabbia dei congolesi, raccomandava e rassicurava: “Non dare da mangiare ai negri: sono nutriti”. Da non dimenticare nemmeno il caso famoso di Ota Benga, piccolo schiavo pigmeo  “importato” dal Congo da un missionario fino al Giardino zoologico di New York (1906), esibito nella casa delle scimmie, dove veniva pungolato tra le costole per vederne la reazione, mentre tutti ridevano di lui: finì suicida, a fronte della morte da prostituta alcolizzata e devastata di Sarah.
E non si tratta di casi isolati, perché questi strani umani furono esibiti nelle Grandi Esposizioni Internazionali:  nel 1889 ( nel centenario della Rivoluzione francese combattuta al grido di Libertè, Fraternitè, Egualitè!!! Seguita dalla  Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo), fu offerto a 32 milioni di visitatori lo show di un villaggio africano con selvaggi provenienti da varie parti del mondo cosiddetto sottosviluppato.  A Parigi tra il 1877 e il 1931 ci furono ben 34 esposizioni antropozoologiche nel Jardin Zoologique d’Acclimatation, che divenne il luogo simbolo delle esposizioni di esseri umani e contestualmente di decine di migliaia di animali. Lo status di questi ultimi variava a seconda dell’interesse:  nel corso delle guerre, per esempio,  cessavano improvvisamente di essere specie preziose, da osservare ammirati, per essere uccisi e  trasformati in cibo: del resto in ogni guerra hanno pagato prezzi inenarrabili, oltre che gli umani, tutti gli animali, senza che sia mai stato fatto il computo dei loro di morti, innocenti come i più innocenti dei civili.  Una tragica testimonianza la trasmette  Edgardo Franzosini in un libro, il cui titolo, “Questa vita tuttavia mi pesa molto”,[3] sembra tagliato su misura su ognuno degli  animali di cui parla: nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, per evitare problemi conseguenti agli incipienti bombardamenti, il direttore dello zoo di Anversa decide di fare uccidere preventivamente lo smisurato numero di animali rinchiusi, affidando la “spaventosa faccenda” ad un plotone di 50 uomini, che cominciano dagli uccelli, i quali strepitano impazziti nelle voliere; procedono ad un’esecuzione in piena regola dell’elefante con una decina di soldati disposti su due file,  gli uni accovacciati, gli altri in piedi come nella più precisa delle fucilazioni; per le antilopi si preferisce la baionetta, perché le munizioni è meglio conservarle per gli animali più grandi, senza che tuttavia sia risparmiata  una agonia di molte ore al rinoceronte; e così via. Ultime le scimmie: assomigliano troppo agli uomini.
Cronache da un passato incivile? Non è così: nel 2002 nel sud del Belgio si organizzò un’esposizione di pigmei, presto chiusa per l’intervento delle organizzazioni umanitarie e nel 2005 ad Augusta fu inaugurato un Africa Village all’interno di uno zoo, considerato il luogo migliore per trasmettere un’atmosfera esotica.
Oggi
Se gli zoo umani sembrano in esaurimento (ma non è il caso di distrarsi troppo, visti i tempi), per gli animali le cose non sono cambiate: ancora la loro natura viene mortificata e controllata nei recinti e nelle gabbie, ad uso e consumo di un pubblico di solito distratto e superficiale. I cartellini con le spiegazioni sugli animali non vengono in genere lette, i visitatori sono attratti se mai dai cuccioli (motivo per cui gli animali vengono fatti riprodurre), mentre  la gente passa più tempo a discutere con i bambini, a cambiare pannolini e a mangiare che non ad osservare gli animali. In media 8 secondi davanti ad un serpente, 1 minuto davanti ad un leone: ciò a fronte, da parte loro, di una vita intera in cattività., [4] in condizioni di sofferenza estrema. Sofferenza fisica, ma anche psicologica, esattamente come accade agli umani impediti a condurre una vita rispettosa delle proprie necessità: gli studiosi parlano ormai  di patologie psichiatriche, che  si ritenevano esclusivo appannaggio umano, quali il Post-Traumatic Stress Disorder, collegato a situazioni di grave stress, riscontrato in  elefanti e scimpanzè, che mostrano  estrema ansietà, quale conseguenza  dell’isolamento, dell’incarcerazione, delle minacce di morte, dell’allontanamento da conspecifici.[5] Davvero non si capisce dove potrebbe essere reperito il valore educativo, sempre sbandierato, di strutture di questo genere. Dice bene Gay Bradswow, studioso di elefanti, quando afferma che “Gli zoo non sono più educativi delle prigioni. Non c’è nulla di educativo. Diventeranno educativi quando non conterranno più animali e si potrà visitarli come si fa con Aushwitz, senza più vedere i prigionieri, ma sentendo la presenza dei fantasmi degli animali che ci sono stati”. Quindi camminando tra gabbie finalmente vuote.
Intanto le gabbie vuote non sono e le cronache ci consegnano episodi che sono pugni nello stomaco di ogni persona pur se di sensibilità medio-bassa. Qualche flash: a Bagdad, dopo la caduta della città nel 2003, quattro leoni impazziti per la fame scappano dallo zoo, dopo essersi aperti una via di fuga a zampate contro un muro di recinzione pericolante: abbattuti. A Tbilisi, in Georgia, a seguito di un’inondazione una tigre albina fugge e la sua sorte è segnata. In Germania ( 2015) è un orango ad essere fucilato dopo avere tentato la fuga dallo zoo di Duisburg.  E poi c’è  Harambe, il gorilla ucciso nello zoo di Cincinnati per pagare la leggerezza colpevole  di due genitori incapaci di badare al loro bambino di quattro anni, finito quindi nella gabbia: colpa che è Harambe a pagare con la vita.  Se questi sono fatti straordinari, discendono però dall’ordinarietà: impossibile dimenticare Marius, il giraffino ucciso nello zoo di Copenghen, colpevole di risultare in sovrappiù rispetto alla disponibilità di spazio, e per questo fatto a pezzi sotto gli occhi di bambini annichiliti e dato in pasto ad altri animali. A volte l’epilogo è rovesciato: nel settembre 2016 è un guardiano ad essere aggredito alle spalle, nello zoo tedesco di Munster da Rasputin, esemplare di tigre siberiana che evidentemente di avere un guardiano non travisava la necessità; mentre nel luglio 2016 è una lavoratrice del Parco Terra Natura, sulla costa orientale della Spagna, ad essere assalita e uccisa dalla tigre asiatica, uscita dalla porta della gabbia rimasta socchiusa. Si può continuare:  a pagare la terribile crisi economica che nel 2016 devasta il Venezuela, insieme a tutta la popolazione, sono gli animali rinchiusi a Caricuao, zoo di Caracas, dove gli animali muoiono  di inedia l’uno dopo l’altro.
E’ esattamente in questa cornice che si inserisce l’ipotesi  di dare animali in pasto ad altri animali negli zoo tedeschi:  niente di nuovo sotto il sole, dunque: solo l’orrida ripetizione di qualcosa di più e più volte già accaduto, oggi come ieri sdoganata grazie ad un meccanismo di giustificazione morale, a cui i dirigenti  si appellano, ritenendo che il presunto stato di  necessità  cancelli  le lor responsabilità per una scelta tanto sciagurata.  E’, molto banalmente, la teoria  che il fine giustifichi i mezzi, teoria in nome della quale non bisogna dimenticare che le peggiori ignominie sono sempre state compiute.
Drammatico prendere atto di come la storia insegni ben poco, talvolta nulla, e i tanti “Mai più” e “Not in my name” affinchè gli orrori del passato non vengano ripetuti, si esauriscano in mantra carichi di emotività, ma privi della forza per diventare reale progetto di trasformazione. Considerazioni generali che, applicate alla prigionia degli animali, dopo tante ignominie avrebbero dovuto semplicemente tradursi nella chiusura degli zoo. Il tutto invece è stato sottoposto ad un processo di rimozione, tale per cui davanti a ciò che oggi viene prospettato ci meravigliamo e inorridiamo come fosse la prima volta.  
Non è un pensiero rassicurante quello rivolto alla nostra incapacità ad essere diversi da come siamo sempre stati: l’attuale pandemia vede dilagare appelli ai buoni sentimenti, richiami al ruolo catartico delle difficoltà, pensieri al mondo nuovo che saremo pronti a costruire dopo avere toccato con mano l’effimero che siamo.
Se di male estremo è piena la nostra storia,  di male estremo contro gli animali è stracolmo anche il nostro presente: non basterebbe l’infinito tempo per riscattarci dalle colpe verso di loro, ma, caparbi,  non ci sogniamo nemmeno di cominciare a farlo.   



[1] Peter Singer, “Liberazione animale”, Net Milano 2003
[2] Si legga l’ampia esposizione del problema in  Viviano Domenici “Uomini in gabbia”. Il Saggiatore 2015
[3] Edgardo Franzosini, “Questa vita tuttavia mi pesa molto” . Adelphi, 2015
[4] Le informazioni, con relative fonti e indicazioni di ricerche, sono contenute in Mark Hawthorne, “Bleating Hearts”.  Change Makers Books 2013. 


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