(intervista di Giuseppe Deiana al sociologo Domenico De Masi)
- Da
sociologo che ha teorizzato il passaggio alla società post-industriale
Domenico De Masi, 82 anni, docente emerito di Sociologia alla Sapienza di
Roma, è molto schietto nell’analizzare il dopo pandemia. Non c’è da
piangersi addosso, ma da guardare a cosa ci ha insegnato. A noi saperlo
cogliere.
Professore, il virus ha già cambiato le nostre vite?
«Ci ha insegnato tanto ma non sempre l’insegnamento corrisponde a quello che si impara. Stiamo facendo un corso di formazione, frequentato da quattro miliardi di persone, e molto lungo perché dura da diverse settimane, ma quanto siamo disposti a imparare dipende da noi».
Qual è la lezione?
«La prima è che il mondo è veramente globalizzato perché nel medioevo un virus impiegava quindici anni per fare il giro del globo, oggi bastano poche ore. E si capisce che certe manifestazioni sovraniste sono velleitarie. Il muro di Trump tra Messico e Usa è stato scavalcato dal virus in poche ore».
E sulla vita quotidiana?
«Ci ha fatto cogliere la differenza tra le cose necessarie e quelle superflue. Ci siamo concentrati sulle prime. Inoltre, abbiamo capito che servono le competenze: non è vero che uno vale uno. Infine, che lo Stato centrale è importante, così come lo sono di più le istituzioni europee e l’Onu. Le decisioni centralizzate e una cabina di regia unica in questa fase sono fondamentali».
Sta cambiando dunque la percezione dei valori?
«Certamente abbiamo capito che la salute vale più della democrazia, e la democrazia più dell’economia».
Spostiamoci sul lavoro.
«Abbiamo compreso che è molto importante usare la tecnologia e il telelavoro. Ho fatto studi sul telelavoro già prima del 1993 quando scrissi il mio primo libro sull’argomento. Se si esclude l’allora presidente dell’Inps Gianni Biglia, che mise 300 ispettori a telelavorare, nessuno comprese l’importanza di questo sistema».
E oggi?
«Su 14 milioni di lavoratori, solo 570 mila telelavoravano prima della pandemia. In quattro settimane, 8 milioni di persone sono passate al telelavoro, ma sono sicuro che i circa 800 mila responsabili, appena terminata la crisi, torneranno al passato. Soffrono della sindrome di Clinton che non avrebbe mai voluto la sua stagista in telelavoro. In realtà, c’è un incremento della produttività del 20% e l’Italia ne ha bisogno. Difficile dire che cosa accadrà ma vedremo chi ha imparato la lezione».
È la rivincita della sanità pubblica?
«Ora sappiamo che il welfare è molto importante. I medici pubblici hanno dimostrato che non sono poi così male. Anche la questione dei piccoli ospedali e della medicina sul territorio dimostra che senza sanità pubblica, anche a Milano, sarebbe stato un dramma».
In Sardegna si vive di turismo, pensa che questo settore ne uscirà rivoluzionato?
«La Sardegna in passato sul turismo ha fatto l’errore di pensare che il modello Costa Smeralda fosse appagante. In realtà credo che si debbano diminuire i turisti e aumentare i fatturati».
Come?
«Sono stato assessore del Turismo a Ravello e abbiamo puntato sulla cultura. Quello che viene venduto oggi ai turisti della Sardegna non basta, bisogna sfruttare la sua bellezza, il patrimonio arcaico, tutta la sua sardità insomma. Ho insegnato a Sassari all’inizio della mia carriera con colleghi illustri ed è stata un’esperienza importante. La Sardegna ha un grande patrimonio antropologico ma non è stato tradotto in qualcosa da vendere ai turisti».
Non crede però che anche il turismo di lusso sia necessario?
«Credo il contrario. I ricchi sono meno numerosi mentre la classe media è molto più folta e apprezza maggiormente questi valori legati alla cultura di un luogo».
Il sistema di trasporti post-crisi ci può penalizzare?
«Dipende, ma non credo. Raggiungere una destinazione con un viaggio anche lungo fa parte del sacrificio per arrivare alla meta e può rendere più appetibile un luogo, quindi essere un’Isola è un plus e non un handicap. Sta all’intelligenza dei sardi sfruttare queste caratteristiche. La crisi ci ha insegnato che vogliamo una vita più calma, sobria e riflessiva, e la Sardegna può essere un luogo ideale. Inoltre abbiamo imparato che sono importanti alcuni valori e bisogni radicali: l’introspezione, che si raggiunge grazie alla calma e al silenzio, l’amicizia che si ottiene grazie alla socialità, l’amore, il gioco, la bellezza e la convivialità che fanno parte di questi valori radicali. Tutto ciò è stato esaltato dalla crisi e ora sta a noi scegliere fra una decrescita serena e una crescita infelice».
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