sabato 29 giugno 2019

Problemi di sonno? Importante navigare sul web in modo sano - Heather Cleland Woods, Holly Scott




 [Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Heather Cleland Woods e Holly Scott pubblicato su The Conversation]

Sia in Europa che negli Stati Unitioltre il 90% degli adolescenti ha il volto immerso nello schermo prima di andare a letto. Spesso, questo comporta un danno per il sonno. È molto più probabile che chi sta davanti allo schermo prima di dormire riporti poi problemi ad addormentarsi, risvegli durante la notte e meno ore di sonno in generale. Tali difficoltà sono legate non solo a un rendimento scolastico più scarso, ma anche un aumento del rischio di problemi di salute, come il diabete e le malattie cardiache, con l’avanzare dell’età.
Di conseguenza, l’uso dello schermo da parte degli adolescenti viene considerato una malsana dipendenzada gran parte dei media. Ma questa narrativa si basa su un fraintendimento cruciale della ricerca. Il problema non è l’uso degli schermi nelle ore notturne, ma il modo in cui vengono utilizzati.
Dopo che un recente studio ha dimostrato come limitare l’uso dello schermo per una settimana potrebbe ripristinare le normali abitudini di sonno negli adolescenti, i titoli dei media hanno ampiamente acclamato questa soluzione come la “salvezza” per i ragazzi dal sonno disturbato. Tuttavia, questi titoli hanno quasi esclusivamente ignorato il fatto che indossare occhiali anti luce blu fosse un metodo altrettanto efficace.
L’esposizione alla luce blu, con le sue conseguenze sull’attenzione, è indubbiamente un problema: quando proviene dai nostri schermi durante le ore notturne, può interrompere i naturali ritmi circadiani che secernono gli ormoni del sonno necessari per preparare i nostri corpi al riposo. Ma è anche un problema facile da risolvere. Esistono già applicazioni su telefoni e computer portatili che modificano l’intensità della luce in base all’ora del giorno, avvicinandosi, in modo un po’ irrealistico, allo stesso effetto dell’indossare occhialini speciali.
La chiave è il contenuto
C’è una questione molto più urgente che sta al centro della relazione tra l’uso dei dispositivi all’ora della buonanotte e il sonno, non solo per i giovanissimi ma per tutti. Gli schermi che osserviamo non sono privi di contenuti e il modo in cui interagiamo con essi è fondamentale.
Le attività passive come la lettura di contenuti neutri per lo più non creano problemi, a patto che si presti attenzione a evitare di tenere il cervello che frulla fino a tarda notte. L’area chiave di preoccupazione sono i social media. Quasi la metà dei giovani di età compresa tra i 13 e i 17 anni ammette di essere quasi costantemente online, e questi utenti assidui hanno maggiori probabilità di riportare problemi ad addormentarsi, oltre a svegliarsi ripetutamente durante la notte.
Oltre il 90% degli adolescenti prima di addormentarsi, naviga online.
Ma questi impatti negativi dipendono anche dalla nostra relazione con i social media, piuttosto che dal loro semplice utilizzo. Il lavoro svolto, sia dal nostro laboratorio che da altri, suggerisce che gli impatti negativi dei social media sulla qualità del sonno possono essere il risultato di ansia, depressione e abbassamento dell’autostima che questi possono indurre. Fondamentalmente, gli effetti negativi dei social media sulla salute mentale non sono inevitabili, ma dipendono dal modo in cui interagiamo online. Se impiegato nel modo giusto, l’utilizzo dello schermo può effettivamente essere utile.
Ad esempio, il tempo trascorso utilizzando piattaforme basate su immagini come Instagram e Snapchat (ma non piattaforme basate su testo come Twitter) è associato a una diminuzione della solitudine, probabilmente per via di un maggiore senso di intimità e interconnessione. Tuttavia, questo vantaggio dipende dall’utilizzo della piattaforma come metodo di interazione con altre persone – coloro che invece si limitano a trasmettere contenuti in realtà segnalano una maggiore solitudine. Dipende anche dal seguire persone che si conoscono: più estranei si seguono, più è probabile riportare sintomi depressivi.
Potrebbe anche sorprendere sapere che il confronto sui social non è sempre problematico – l’importante è come lo si fa. Paragoni basati sull’abilità, come confrontarsi con post di “aspirazione fit” che mostrano immagini di corpi che solo alcuni di noi hanno il tempo e la capacità di raggiungere, possono portare a depressione e invidia. Al contrario, i confronti sulle opinioni, in cui gli utenti dei social media cercano le opinioni degli altri per dare un senso al mondo che li circonda, possono portare le persone a sentirsi ispirate e ottimiste.
Navigazione notturna sana
Tenendo conto di tutto ciò, ecco alcuni suggerimenti basati sulle più recenti ricerche su schermi e social media per aiutare a sfruttare al massimo la navigazione serale e dormire sonni tranquilli.
• Usare le piattaforme per creare community e mantenere i contatti attraverso l’interazione: troppa navigazione solitaria o il lavoro di auto-esposizione possono danneggiare la propria tranquillità e, quindi, la facilità ad addormentarsi. E ricordare sempre che le “immagini perfette” che vediamo non sempre corrispondono alla vita reale.
• Cercare di lasciare l’ultima mezz’ora prima di dormire per fare qualcosa di non troppo stimolante. Mettere giù il telefono un po’ di tempo prima di addormentarsi è una buona abitudine, ma se si ha intenzione di usarlo, meglio usare un’applicazione per regolare la luce dello schermo e fare qualcosa di passivo, non emotivo, che faciliti l’arrivo della sensazione di essere assonnati.
• Se si pensa che le attività stiano ostacolando il proprio sonno, o che le routine familiari della buonanotte non corrispondano al proprio ritmo, meglio parlane con qualcuno. Il sonno è importante ma genitori che mandano i figli adolescenti a letto prima che siano pronti a dormire non è sempre la miglior soluzione.
Abbiamo bisogno di allontanarci dalla narrativa dominante degli schermi e dei social media come un male, come un ostacolo a uno sviluppo sano. Usare i dispositivi prima di andare a letto non deve rappresentare un vizio che induce sensi di colpa. Il mondo online è ricco e diversificato.
Come ogni interazione sociale, l’uso dei social media può essere dannoso se sfruttato nel modo sbagliato, ma il mondo virtuale che apre può anche essere soddisfacente, informativo e rafforzativo. Quindi cerchiamo di creare una società che li usi in modo sano – non solo bloccando la luce blu, ma bloccando le cose che ci fanno sentire blue.

venerdì 28 giugno 2019

“Aprite le frontiere. Vogliamo conoscere quella che chiamate ‘libertà'” - Antonella Sinopoli,



In partenza di nuovo per l’Africa penso a chi non può.
Non può viaggiare, non può partire, non può accedere a un visto. Grazie a politiche ottuse, che vogliono controllare i movimenti di popoli che non abbiamo mai smesso di trattare come merci e oggetti. Penso a chi non può sperare. Non può cambiare.
Noi fortunati, invece sì. Possiamo andare e venire. E fare un po’ quel che ci pare nei Paesi africani. Turismo, business, soldi, o solo fare all’amore.
Saluto questa parte di mondo fortunato, ma che si sta auto distruggendo trascinandosi anche tutto il resto, con questo brano di Tiken Jak Fakoly, artista reggae ivoriano. Un brano del 2007, sempre più attuale.
Un grido di denuncia. Verso chi ha inventato lasciapassare e passaporti a suo esclusivo vantaggio per sottomettere popoli e parti del mondo. Farli sentire inferiori, farli morire nel deserto o nel Mediterraneo. Verso chi vuole togliere dignità e diritti a chi i nostri diritti, le nostre leggi li subisce.
“Aprite le frontiere”, “Aprite i porti“.




Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Vous venez chaque année
L’été comme l’hiver
Et nous on vous reçoit
Toujours les bras ouverts
Vous êtes ici chez vous
Après tout peu importe
On veut partir alors ouvrez nous la porte
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Du Détroit de Gibraltar
Nous sommes des milliers
A vouloir comme vous
venir sans rendez-vous
Nous voulons voyager
Et aussi travailler
Mais nous on vous a pas refusé le visa
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Nous aussi on veut connaître la chance d’étudier
La chance de voir nos rêves se réaliser
Avoir un beau métier
Pouvoir voyager
Connaître ce que vous appelez « liberté »
On veut que nos familles ne manquent plus de rien
On veut avoir cette vie où l’on mange à sa faim
On veut quitter cette misère quotidienne pour de bon
On veut partir d’ici car nous sommes tous en train de péter les plombs
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Laissez nous passer…
Y a plus une goutte d’eau
Pour remplir notre seau
Ni même une goutte de pluie
Tout au fond du puis
Quand le ventre est vide
Sur le chemin de l’école
Un beau jour il décide
De prendre son envol, nan nan nan nan …
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Laissez nous passer…
Ouvrez la porte
Ici on étouffe
On est plein à vouloir du rêve occidental
Ouvrez la porte
Ici la jeunesse s’essouffle
Ne vois tu pas que pour nous c’est vital
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Laissez nous passer…
Vous avez pris nos plages
Et leur sable doré
Mis l’animal en cage
Abattu nos forêts
Qu’est ce qu’il nous reste
Quand on a les mains vides
On se prépare au voyage
Et on se jette dans le vide
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Ouvrez les frontières, ouvrez les frontières
Laissez nous passer…


giovedì 27 giugno 2019

Secolo del turismo - Ernesto Romagna Manoja

Le api stanno scomparendo. Perderemo profumi e sapori - Alessia Pacini



Insetti piccoli, ma dal potere immenso: sono le api, specie che si sta estinguendo, portando con sé i fiori, i frutti e i sapori di molti alimenti di cui ci nutriamo ogni giorno. Immaginarsi un mondo senza primavera, senza colori, senza profumi, sembra impossibile, eppure è uno scenario a cui dovremmo abituarci se le api scompariranno per sempre. Senza questo essenziale agente impollinatore, il nostro Pianeta si vestirà di bianco e nero: niente più fiori, niente più frutti. In altre parole, la Terra perderebbe di vita. Il colpevole di tutto questo? Ancora una volta, il dito deve essere puntato contro l’essere umano. Pesticidi, comportamenti irrispettosi nei confronti dell’ambiente e cambiamento climatico sono solo alcune delle molte ragioni per cui, se non si passerà presto all’azione in maniera concreta e continuativa, il mondo perderà di colori e profumi. 
Il problema della moria di api non è una questione recente: secondo Greenpeace, già a partire dalla fine degli anni ’90 gli apicoltori europei e nordamericani iniziarono a notare una diminuzione anomala nelle colonie di api. Negli Stati Uniti d’America il calo del numero di questi insetti è diventato talmente preoccupante che gli scienziati hanno coniato l’espressione sindrome dello spopolamento degli alveari (Colony Collapse Disorder CCD) per descrivere quanto sta accadendo. Fin da subito, la causa di questo fenomeno è stata riconosciuta nell’agricoltura intensiva e nei pesticidi, sostanze chimiche che vanno a incidere negativamente sulla biodiversità e che inevitabilmente modificano l’ecosistema in cui per propria natura le api intervengono con l’impollinazione.
Negli ultimi anni, anche l’Unione Europea ha preso provvedimenti contro i pesticidi, mettendone al bandone tre tipi. Non solo: la Commissione Europea ha anche elargito fondi per un totale di 3,3 milioni ai 17 Stati membri che stanno studiando la diminuzione del numero delle api e degli alveari. L’EFSA (European Food Safety Authority) sottolinea inoltre come anche virus, agenti patogeni e specie invasive stiano giocando un ruolo fondamentale nel peggioramento della condizione di questi insetti impollinatori.
Con il passare degli anni e il peggioramento della situazione climatica, la condizione delle api è nettamente peggiorata. In particolare, in Italia il maltempo dello scorso maggio ha determinato un netto aggravamento della situazione. Basti considerare che, secondo le stime, la produzione di miele d’acacia nel Nord Italia quest’anno è stata azzerata, mentre negli anni passati costituiva il 50% del raccolto totale.
Con il freddo, infatti, le api non raccolgono il nettare dei fiori e per sopravvivere sono obbligate a mangiare il miele che loro stesse producono. In molti casi, però, nemmeno questo è sufficiente e gli apicoltori sono costretti a sopperire a questa mancanza con sciroppi zuccherini in grado almeno di far sopravvivere le api nutrici. 
Ma le api non sono solo miele. Questi insetti sono infatti agenti impollinatori per eccellenza: secondo i dati forniti dalla FAOoltre il 75% delle colture alimentari dipende dall’attività di questi insetti senza i quali non ci sarebbe caffè, cacao e pomodori, solo per citare alcuni prodotti della natura. Se questi animali dovessero estinguersi, i costi per l’agricoltura diventerebbero altissimi. Un esempio è ciò che sta già accadendo in una regione della Cina, dove le api sono già scomparse e gli agricoltori sono costretti a procedere con l’impollinazione artificiale, pratica che secondo Greenpeace ha un costo pari a 265 miliardi di euro l’anno.
Alveare. Immagine del Tourist Office Selva di Valgardena ripresa da Flickr in licenza CC
Nel mondo esistono 24mila specie di api e in Italia la più diffusa è l’Apis mellifera, conosciuta anche come ape domestica. Senza questi insetti, ci ritroveremmo a vivere in un mondo senza fiori, colori e profumi. La salvaguardia della specie è talmente importante che nel 2017 l’ONU ha deciso di istituire la giornata mondiale delle api che ricorre ogni 20 maggio.
Iniziative come questa stanno contribuendo a creare un’opinione pubblica sempre più attiva e consapevole: un esempio ne è la Germania, dove nel 2018 è stata varata una legge federale che prevede multe fino a65mila euro per chi cattura o uccide api e vespe senza una causa ragionevole. Una norma, questa, arrivata dopo il successo del referendum “salva-api” della Baviera. Inoltre, Greenpeace ha redatto una serie di richieste tra cui aumentare i finanziamenti per la ricerca e sostenere e promuovere le pratiche agricole sostenibili. Per cercare di creare una maggiore consapevolezza del problema, sul portale web dell’organizzazione non governativa si trovano anche sei modi per contribuire con un impatto positivo alla salvaguardia delle api, come piantare fiori che possono servire da nutrimento per questi insetti senza usare pesticidi.
Ma le api non sono le uniche che rischiano di scomparire: un’altra categoria in difficoltà è quella degliapicoltori, i quali sono messi in ginocchio dalle condizioni in cui sta vertendo il settore. Proprio a conferma del detto popolare la necessità aguzza l’ingegno, due giovani apicoltori trentini hanno creato l’app Beehave. Questa permette di osservare in tempo reale sia le api sia gli alveari, proteggerli ed entrare in azione in maniera tempestiva se necessario. Un’app che non solo ha permesso ai due apicoltori classe ’99 di aiutare concretamente la categoria, ma anche di vincere il secondo premio dell’iniziativa Pitch your Project to Eu a Innsbruck lo scorso anno. 

mercoledì 26 giugno 2019

Colombia, barlumi di giustizia per i crimini sessuali di guerra - Tiziana Carmelitano




La Colombia è spesso salita agli onori della cronaca internazionale per la produzione e il commercio di cocaina. Il fatto che il Paese, per oltre 50 anni, sia stato teatro di una guerra civile conclusasi soltanto nel 2016 con la firma di un accordo di pace tra il governo e le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), non ha mai suscitato particolare interesse mediatico.
Eppure, ci sono stati 220mila morti, 25mila desaparecidos e 5,7 milioni di sfollati.
Il conflitto colombiano è stato peraltro caratterizzato da un ampio uso della violenza sessuale quale strumento di guerra. Le atrocità commesse tanto dalle forze governative che dai ribelli hanno raggiunto livelli di inumanità inimmaginabili, come emerge dai diversi report redatti da organizzazioni nazionali ed internazionali.
Le gravi violazioni perpetrate ai danni delle donne hanno inclusomolestie sessuali, stupri, stupri di gruppo, prostituzione, gravidanze, aborti e sterilizzazioni forzate.
Il 5 maggio 2003, nel territorio indigeno di Betoyes, alcuni soldati presumibilmente paramilitari (…) violentarono 4 ragazze di 11, 12, 15 e 16 anni. La sedicenne si chiamava Omaira Fernández ed era al sesto mese di gravidanza al momento dello stupro. Dopo aver assistito alla violenza, la comunità indigena fu costretta a guardare – con orrore – mentre le aprivano il ventre, estraevano il feto, lo tagliavano a pezzi gettandolo infine nel fiume insieme alla madre. Questa è una delle storie riportate dall’ONIC (Organizacion Nacional Indigena de Colombia) in un documento presentato al Rappresentante speciale ONU sulla violenza sessuale durante i conflitti armati in occasione della sua visita in Colombia nel 2012.
I racconti delle donne non appartenenti a minoranze etniche hanno purtroppo lo stesso tenore. “Era notte, due uomini armati con indosso uniformi militari mimetiche hanno portato fuori dalla casa mio marito puntandogli una pistola alla testa. Ho cercato di calmare la nostra bambina cantandole una canzone per farla addormentare”, dice una vittima di Bogotá all’ONG Oxfam, “dopodiché uno di loro mi ha condotta nel corridoio (…) mi ha tolto i vestiti, mi ha coperto la bocca e mi ha stuprata. Quando ha finito, mi ha detto ‘non è successo niente. In fondo, le donne servono a questo‘”.
Le forze di sicurezza statali (esercito e polizia) anziché tutelare donne e bambine ne hanno abusato nel peggiore dei modi. Nel report “Colombia: Women, Conflict-Related Sexual Violence and the Peace Process”, si legge: “l’undicenne Yolanda stava tornando a casa da scuola quando è stata fermata da un soldato che, già da un po’ di tempo, la stava tormentando con avances sessuali. Di fronte all’ennesimo rifiuto, il soldato l’ha prelevata di forza portandola nel luogo dove si trovava la sua unità. Qui, l’ha stuprata tenendola prigioniera fino al mattino successivo.
Nel caso della Colombia non è stato semplice tracciare un legame tra violenza sessuale e conflitto in corso. In parte, ciò è stato determinato dal fatto che la violenza contro le donne è, in un certo qual modo, insita nel sistema socio-culturale colombiano. Un sistema fortemente patriarcale basato sulla dominazione maschile, la discriminazione di genere e la marginalizzazione sociale ed economica di alcuni gruppi, in particolare gli indigeni e gli afro-colombiani.
Circa il 70% delle mujeres colombianas ha subito una qualche forma di maltrattamento nel corso della propria vita. Nel 95% delle ipotesi, si tratta di violenza domestica.
In un simile contesto, gli abusi hanno finito con l’essere considerati dalla società come qualcosa di “normale“. Molte donne non si ritengono neppure vittime perché non sanno che la violenza sessuale è un crimine.
D’altro canto, la guerra non si è limitata a esacerbare una realtà già radicata all’interno del Paese. Non ha soltanto reso le donne ancora più vulnerabili di quanto già non lo fossero. Ma ha trasformato i loro corpi in un vero e proprio strumento bellico utilizzato da tutte le parti in lotta (forze governative, paramilitari e guerriglieri) per punire e umiliare il nemico, ostentare il potere militare sul territorio e affermare il proprio controllo sulle risorse economiche.
La Commissione Inter-Americana per i diritti dell’uomo, in un report del 2006, rilevava: “nel conflitto armato colombiano, la violenza contro le donne, in primis quella di natura sessuale, ha il preciso scopo di terrorizzare e indebolire la controparte (…). Le donne sono vittime dirette e collaterali (…) in ragione del loro legame affettivo come madri, mogli, compagne e sorelle” di uomini appartenenti alla fazione opposta.
Il Governo di Bogotá ha però per molto tempo negato e nascosto i crimini sessuali, permettendo così il perpetuarsi di un meccanismo di impunità. Il 98% degli abusi sessuali restava, infatti, senza un responsabile. Solo una vittima su cinque denunciava e su 100 casi giusto un paio arrivavano in tribunale con relativa sentenza di colpevolezza.
Il movimento femminista colombiano e le associazioni a tutela dei diritti delle donne hanno avuto un ruolo determinante nel processo di denuncia delle violenze sessuali connesse al conflitto. Il primo studio articolato sul tema è stato svolto nel 2011, nell’ambito della campagna “Rape and other violence: leave my body out of the war”, da un team di ricercatrici dell’associazione Casa de la Mujer.
Il report finale ha evidenziato che, nel periodo 2001-2009, ben 489.687 donne sono state vittime di violenza sessuale nelle municipalità interessate dal conflitto, con una media di 54.410 donne all’anno, 149 al giorno, 6 ogni ora. Il fenomeno è però ancora sottostimato dal momento che ad oggi non esistono dati ufficiali.
Un contributo sostanziale al riconoscimento della violenza sessuale quale arma di guerra è arrivato anche dalla Corte Costituzionale. Con i provvedimenti 092 del 2008 e 009 del 2015, la Corte ha, infatti, rilevato che “la violenza sessuale costituisce una prassi sistematica, abituale, invisibile e generalizzata” nel conflitto colombiano.
Immagine dell’utente Flickr Marcha Patriótica rilasciata in licenza Creative Commons
Questa nuova presa di coscienza tanto da parte della società civile che delle istituzioni ha permesso di migliorare l’accesso alla giustizia per le vittime attraverso la creazione di una sottocommissione, all’interno della Procura Generale, competente ad investigare su siffatta tipologia di crimini.
Ha consentito, inoltre, di portare la questione della “violencia sexual en el conflicto armado” al tavolo dei negoziati di pace. Nell’Accordo finale, i crimini sessuali sono stati inseriti tra i reati sottoposti alla giurisdizione del Tribunale Speciale per la Pace (JEP). Inoltre, è stato stabilito che per detti crimini non sarà concessa alcuna amnistia o indulto.
La JEP è una giurisdizione straordinaria, composta da giudici nazionali e internazionali. Il suo compito è quello di giudicare, nell’arco di 15 anni, le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dai belligeranti dall’inizio del conflitto fino al 1° dicembre 2016 (data della ratifica dell’accordo), in condizioni di autonomia e indipendenza rispetto alla giustizia ordinaria.
Gli imputati che si dichiarano colpevoli, ammettendo le loro responsabilità in ordine ai crimini commessi e riparando le vittime, potranno beneficiare di pene diverse dall’incarcerazione. Sono comunque previste forme di limitazione della libertà personale per le violazioni più gravi. Mentre le sanzioni alternative riguardano i lavori di pubblica utilità, ad esempio: attività di sminamento, ricerca e individuazione delle persone scomparse, ricostruzione delle infrastrutture chiave.
I detrattori della JEP, tra cui il presidente Ivan Duque, sostengono che le vittime di violenza sessuale non otterranno davvero giustizia attraverso questo meccanismo, nella misura in cui ai colpevoli non saranno applicate le condanne ordinarie fissate dal codice penale. Motivo per il quale, l’attuale Governo colombiano vorrebbe apportare delle modifiche all’accordo di pace.
Il presidente dalla JEP, Patricia Linares, ha però sottolineato che “la vocazione fondamentale dell’accordo di pace è chiudere in via definitiva il conflitto”. La scelta di “un sistema di ‘giustizia riparatoria’ anziché ‘punitiva’ è dettata dal convincimento di poter meglio chiarire la verità” sugli orrori commessi durante il conflitto.
In altre parole, la giustizia transitoria avrebbe come fine ultimo quello di ricostruire la verità dei fatti per contribuire attivamente al processo di riconciliazione nazionale.
In effetti, le vittime di violenza sessuale sembrano avere fiducia nella JEP. Nell’agosto 2018, sono stati presentati al tribunale speciale 2.000 casi documentati di crimini sessuali perpetrati durante il conflitto. I fascicoli sono frutto di due anni di lavoro sull’intero territorio nazionale ad opera delle organizzazioni a tutela dei diritti delle donne Red de Mujeres Víctimas y Profesionales Mesa Nacional de Víctimas, nonché della campagna “No es hora de callar entregaron (non è il momento di restare in silenzio).
Lo scorso 24 aprile, l’associazione Sisma Mujer ha depositato altri 72 casi. La sessione innanzi alla JEP si è svolta in forma privata per garantire la sicurezza delle vittime, che cominciano a confidare nella possibilità di ottenere giustizia per le devastazioni subite.
Vogliamo la verità. Noi donne vittime di violenza sessuale sentiamo il peso della guerra sui nostri corpi. Chiediamo giustizia così da evitare qualsivoglia impunità”ha affermato una delle vittime durante la consegna del rapporto.
Per il quinto anno consecutivo, il 25 maggio, si è celebrata la Giornata nazionale per la dignità delle vittime della violenza sessuale, istituita con il decreto 1480 del 2014.
Una commemorazione importante perché la memoria non serve soltanto a ricordare il passato ma anche a guardare al futuro in una prospettiva di cambiamento. Un cambiamento, soprattutto di ordine culturale, di cui le donne colombiane sembrano avere davvero bisogno per godere appieno dei loro diritti.

martedì 25 giugno 2019

L’INFERNO DEI TALIBÉ - Marco Cochi



Sono passati circa tre anni da quando Nigrizia ha iniziato a occuparsi di una vicenda di povertà, sfruttamento e discriminazione, quella dei talibé senegalesi (che nella locale lingua wolof significa discepolo), bambini indifesi che frequentano le daraas, scuole coraniche gestite dai marabutti, che insegnano loro i precetti dell’islam sulla base dell’apprendimento mnemonico del Corano.
Gli stessi maestri che costringono questi bambini sporchi e malvestiti a mendicare nelle strade dei maggiori centri urbani del Senegal, dove ogni occasione è propizia per chiedere qualche spicciolo ad automobilisti e passanti.
A questa triste realtà, Human Rights Watch e una coalizione di ong senegalesi raggruppate nella Piattaforma per la promozione e la protezione dei diritti umani (Ppdh), hanno dedicato un lungo e dettagliato rapporto nel quale documentano i gravi abusi subiti tra il 2017 e il 2018 da questi fanciulli, ad opera dei marabutti.
Per realizzare lo studio congiunto, gli operatori delle ong hanno incontrato notevoli difficoltà perché non è facile entrare in contatto con questi minori, che vengono cresciuti come perfetti mendicanti dai loro precettori.
Ciò nonostante, nel corso di dieci settimane di ricerche sul campo effettuate tra giugno 2018 e gennaio 2019, Human Rights Watch e Ppdh hanno operato in quattro regioni del Senegal, dove hanno intervistato oltre 150 persone, tra cui 88 attuali ed ex bambini talibé, 23 marabutti e decine di assistenti sociali, esperti nel campo della protezione dei minori, attivisti e funzionari governativi.
I gruppi di ricerca hanno parlato con decine di bambini talibè, molti dei quali di età inferiore ai cinque anni, costretti a mendicare per le strade di Dakar, Saint-Louis, Diourbel, Touba e Louga in condizioni di estrema miseria e in evidente stato di malnutrizione.

Violenze, privazioni e morte
Dalle testimonianze raccolte, nel biennio esaminato è emersa la morte di 16 bambini talibé a causa di percosse da parte dei maestri coranici, per malattie o per essere stati esposti a situazioni di pericolo nelle strade in cui erano stati mandati a chiedere l’elemosina.
Il rapporto documenta gli abusi fisici contro i talibè in 8 delle 14 regioni del Senegal, dove si sono registrati 61 casi di percosse e maltrattamenti; 15 casi di stupro; 14 casi di bambini imprigionati, legati o incatenati nelle scuole; oltre alla diffusa pratica dell’accattonaggio forzato.
Gli abusi sono ovviamente continuati anche dopo che i ricercatori delle associazioni per la salvaguardia dei diritti umani avevano terminato le interviste. Per esempio, a febbraio, un talibé di 8 anni, che si era fermato di notte nella stazione degli autobus di Saint-Louis per il timore di tornare alla sua daara senza la quota fissa di accattonaggio richiesta dal marabutto, è stato violentato da un adolescente. Ad aprile, un maestro coranico è stato arrestato a Mbour per aver provocato la morte di un bambino, presumibilmente a causa di un pestaggio.
Il report stima che oltre 100mila bambini talibé in Senegal siano costretti dai loro insegnanti coranici a elemosinare quotidianamente denaro e cibo. Molti marabutti stabiliscono quote giornaliere di accattonaggio che i talibé devono incassare per non essere cacciati dalla scuola o, peggio, per non essere picchiati a sangue.
In totale, 63 degli 88 talibé intervistati per realizzare il rapporto hanno rivelato che il loro insegnante coranico li ha costretti a chiedere l’elemosina per una quota giornaliera compresa tra i 100 e 1.250 franchi CFA (20 centesimi di dollaro e 2,20 dollari), una somma notevole, se si considera che il 70% della popolazione del Senegal vive con meno di due dollari al giorno.

Nessuna pietà
Un talibé di circa 11 anni riuscito a fuggire da una daraa, ha raccontato di essere stato costretto a chiedere l’elemosina da un maestro coranico di Dakar che esigeva una quota di 550 franchi CFA ogni venerdì di preghiera. Se i bambini non fossero riusciti a procurarsi tale somma, il marabutto li avrebbe frustati con un cavo. Lo stesso bambino riporta che la fustigazione gli ha prodotto una profonda lacerazione allo stomaco.
Altri minori hanno riferito di essere stati puniti per settimane o anche mesi, legati o incatenati in stanze simili a celle all’interno delle daaras. Alcuni assistenti sociali hanno raccontato di aver aiutato bambini che fuggivano con le catene ancora ai piedi. La maggior parte di questi casi è avvenuta nelle regioni di Diourbel e Saint-Louis.
A conferma della veridicità di queste drammatiche testimonianze, i ricercatori di Human Rights Watch e Ppdh hanno riscontrato cicatrici o ferite su diversi bambini che hanno riferito di essere stati vittime di pesanti abusi.
Molti dei bambini intervistati nelle strade e nelle 22 daaras oggetto dell’indagine hanno contratto infezioni o malattie visibili, ma non hanno ricevuto cure mediche. In ben 13 delle 22 daraas, i bambini pativano quotidianamente i morsi della fame e gli edifici in cui erano ospitati erano quasi tutti decrepiti o abbandonati, spesso senza latrine, sapone o zanzariere funzionanti per proteggerli dalla malaria.
Il Senegal ha severe leggi che vietano l’abuso sui minori e la tratta di esseri umani, ma finora le misure adottate dal governo per proteggere i talibè e perseguire i loro carnefici sono state inefficaci.
Nell’imminenza della Giornata internazionale del bambino africano che si celebrerà il 16 giugno, il governo senegalese dovrebbe intraprendere azioni urgenti per proteggere i talibé dagli abusi e dall’accattonaggio forzato, ispezionare e regolamentare le daaras, ma soprattutto consegnare finalmente i responsabili dei maltrattamenti alla giustizia.

sai cosa bevi?



…Spesso si dice che l’acqua di rubinetto sia uguale a quella in bottiglia, solo che più economica. Non è del tutto vero: nella sua analisi Qualescegliere.it ricorda come in Italia esistano due leggi separate (una per l’acqua in bottiglia, l’altra per quella di rubinetto) che stabiliscono i limiti massimi che alcune sostanze non devono superare. In molti casi le differenze sono enormi, tanto che in alcuni casi alcune acque in bottiglia non sarebbero potabili per essere immesse negli acquedotti. Qualche esempio? Il manganese può raggiungere i 500 mg/l nell’acqua in bottiglia ma non può superare i 50 mg/l per quella “del sindaco”; per l’alluminio non ci sono limiti per quella imbottigliata, mentre non può superare i 200 mg/l in quella di rubinetto. Per il berillio invece non ci sono limiti di legge in nessun caso. Ed è un caso - quello del metallo leggero normalmente presente nel terreno - che Qualescegliere.it prende ad esempio perché negli Stati Uniti il limite è stato posto per qualsiasi tipo di acqua a 4 mg/l. Alcuni studi, infatti, “hanno dimostrato che se ingerito per molti anni può causare lesioni intestinali” spiegano gli analisti del sito comparativo…

lunedì 24 giugno 2019

Donatori di sangue per soldi. Pomodoro e coca cola per rimettersi in forze - Antonella Sinopoli



Sono molti i giovani africani che vendono il loro sangue per guadagnare qualcosa. Magari per pagarsi gli studi.
In Nigeria per esempio, ci sono ragazzi che lo fanno almeno una volta a settimana. Un'”abitudine” che può certo nuocere alla salute non solo nel lungo ma anche nel medio periodo. Anche per l’uso di miscugli che dovrebbero servire a riportare in salute e a garantire la sostituzione del sangue dotato, soprattutto in vista delle prossima donazione (a pagamento).
Una ricerca di Africa check sta mettendo in guardia in particolare rispetto all’uso di condensato di pomodoro (sorta di ketchup in realtà) e coca cola o, in sostituzione, bevanda a base di malto. Pare che tale pratica sia molto diffusa e trasmessa anche attraverso i social.
I ragazzi sono convinti della loro efficacia per ridurre lo stato di vertigini che si prova dopo un prelievo, soprattutto se sostanzioso.
Akanmu Sulaimon, professore di Ematologia e Trasfusione di sangue presso l’Università di Lagos College of Medicine, ha detto che tale miscela non può essere considerato un tonico del sangue. “È ridicoloNon ho mai sentito parlare di questa combinazione. E non è nelle pagine del mio libro di testo. Non è sicuramente un tonico ematico di emergenza. Non ha senso farne uso.”
Anche il dottor Madu Anazoezo del dipartimento di Ematologia e Immunologia dell’Università della Nigeria afferma di non averne sentito parlare in ambito accademico. “Non c’è stato nessuno studio che confermi che la combinazione sia un tonico ematico di emergenza“, ha detto. La dottoressa Angela Ogechukwu, anch’essa ematologa alla stessa Università, ha convenuto che la combinazione non ha una base medica nota. Anzi ha consigliato i donatori di sangue a non farne uso poiché non vi è “nessun studio dimostrato” che funzioni.
Le indicazioni di questi esperti difficilmente serviranno a fermare questi giovani che certo usano semplicemente ciò che hanno a portata di mano e, soprattutto, a portata delle loro tasche.
Oltretutto, a fornire prove “scientifiche” della valenza di questi prodotti sono stati alcuni medici ghanesi. Un paio di anni fa il Scientec Journal of Life Sciences pubblicò proprio uno studio su tale tema che diede risultati totalmente opposti. Gli autori, tutti medici dell’Università Kwame Nkrumah di Scienze e Tecnologiee della Facoltà della Salute e Scienze affini di Kumasi, conclusero che concentrato di pomodoro e coca cola aiutano a combattere l’anemia. “Una combinazione di bevanda Coca-Cola e pasta di pomodoro ha avuto un significativo aumento dei livelli di emoglobina indicando un potenziale ematologico e anti-anemico” si leggeva nel documento medico.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di tre tipi di donatori: quelli che lo donano per familiari, quelli commerciali o professionali, quelli volontari che non prendono nessuna retribuzione.
Per la seconda categoria sono individuati – dall’OMS – quattro problemi principali.
1) pagare donatori mina alla radice il sistema volontario di donazioni, che sarebbe alla base di un rifornimento di sangue sicuro; 2) molti donatori “commerciali” provengono dai settori più poveri di società e sono ovviamente spinti dal bisogno di denaro. Possono essere in cattive condizioni di salute, denutrite o a rischio di infezioni trasmissibili per trasfusione e mettere dunque in pericolo la vita dei destinatari del loro sangue; 3) i donatori commerciali possono donare il loro sangue più frequentemente di quanto raccomandato. Questo potrebbe avere effetti dannosi per la salute, con il risultato che possono fornire unità di sangue scadenti che possono presentare o un rischio per i destinatari o fornire poco o nessun beneficio; 4) se i donatori sono pagati di solito è necessario addebitare ai pazienti il sangue che ricevono e le famiglie povere potrebbero non permetterselo.

L’auto come bene comune - Guido Viale



L’automobile non è solo un veicolo semovente a quattro ruote; è un intero sistema di mobilità che ha dato la sua impronta a un’epoca; ed è la matrice, ma anche il prodotto, di gran parte del suo immaginario e del suo stile di vita. Da tempo l’automobile sta cambiando vesti perché non vuole scomparire, esattamente come succede al suo secolo – tutt’altro che breve – che cerca in ogni modo di trasmettere e trascinare nel terzo millennio le sue tare. L’automobile ha in effetti accompagnato l’ascesa e il declino delle grandi speranze che hanno contraddistinto il Novecento: l’emancipazione dei lavoratori ad opera della rivoluzione, o di un movimento operaio che ha avuto il suo baricentro proprio nell’industria dell’auto: un processo che si è risolto nel suo contrario, l’attuale umiliazione di tutto ciò che è lavoro; la democrazia del suffragio universale, che ha perso ogni incidenza poco dopo essere stato conquistato o concesso a tutti: non solo ai poveri e alle donne, che a lungo ne sono rimaste escluse, ma anche agli elettori di un numero sempre più ampio di paesi dove si vota tanto, ma non cambia mai niente; il sogno avveniristico di un universo popolato da macchine capaci di liberare gli umani dal lavoro, oggi trasformato nell’incubo dell’emarginazione dal consorzio civile proprio di chi il lavoro lo perde o non lo trova più; lo sfruttamento senza limiti delle risorse offerte dalla Natura convertitosi nella rivolta della Terra contro chi pensava di averla domata per sempre. Ed altro ancora.
L’automobile ha preso parte a questa parabola generale del secolo scorso creando in tutto il mondo, insieme a un’organizzazione del lavoro – il fordismo – che ha poi pervaso ogni altra attività, milioni di posti di lavoro e di retribuzioni (da tempo sempre più a rischio); ma soprattutto promettendo a tutti la libertà di spostarsi dove e quando e con chi si vuole; e di trasformarsi da fanti in cavalieri. Ma proprio quando e dove quella promessa sembrava essersi realizzata l’auto si è rivelata nient’altro che una sanguisuga che inquina, immobilizza, stressa e dissangua tanto chi vi sale a bordo quanto chi non vi è mai salito o ne è sceso, per un po’ o per sempre.
Da quest’incubo non ci libererà né l’auto elettrica (rinnovando o aumentando ancora il miliardo di veicoli che già intasano il pianeta), né l’auto che “si guida da sola”, ultimi colpi di coda del mostro per cercare di sottrarsi a un destino che lo pone invece di fronte a un bivio da cui si dipartono due strade in direzioni opposte.
Una, quella che cercherà di tenere “il sistema” in vita con quelle due soluzioni, ci porta diritti e filati verso la catastrofe a cui l’automobile ha già dato e continua dare uno dei contributi più consistenti lungo tutta la sua filiera, dalla sua produzione, al suo utilizzo, al suo smaltimento: il saccheggio delle materie prime, i fumi degli impianti e degli stabilimenti di produzione; l’uso pervasivo e insensato (una tonnellata di ferraglia per trasportare 80 chili di ciccia…); la trasformazione del petrolio in CO2 nella moltiplicazione dei suoi spostamenti; la distruzione di suoli e centri abitati per farle spazio; i paesaggi sventrati per asfaltare le strade lungo cui farla correre; i residui oleaginosi e arrugginiti che ogni suo esemplare disperde a fine d corsa. Quella catastrofe climatica e ambientale, ormai ben visibile, sta cacciando dalle loro terre milioni e milioni di esseri umani alla ricerca della loro sopravvivenza, e sta trasformando il nostro habitat di automobilisti seriali in una fortezza in cui sarà sempre più difficile entrare, ma anche sempre più difficile uscire; perché ci rinchiude tutti in tante bolle al cui interno arrabattarci per assicurarci una  vita sempre più stentata, che renderà sempre più difficile quanto inutile quella mobilità a cui l’automobile aveva impresso il marchio della libertà; ma al cui esterno non ci sarà che la guerra di tutti gli esclusi: sia tra di loro che contro chi cerca di tenerli lontani. 

La seconda strada che si diparte da quel bivio è quella dell’automobile come bene comune, da condividere quando e tra chi ne ha di volta in volta veramente bisogno, come dovrà succedere con tutti gli altri beni che sono o che devono essere comuni, cioè condivisi tra una comunità, o una “rete”, che li gestisce autogovernandosi (e con questo garantendo il futuro della specie umana): l’acqua, l’aria, il suolo agricolo ed edificato, gli edifici inutilizzati o mal utilizzati, l’informazione, i saperi e tante altre cose. Le tecnologie ITC consentono di offrire a tutti la possibilità di un trasporto personalizzato senza possedere un’auto propria, proprio come la tecnologia del motore a combustione interna aveva permesso di riempire le strade di automobili personali, anche se destinate a rimanere ferme per la maggior parte del loro tempo.
Ora, guardando i progetti con cui ci viene prospettato il suo futuro dalle corporation dell’automotive, non c’è niente di più insensato, ma per fortuna anche di più irrealistico, che rinchiudere ogni essere umano dentro un guscio semovente – dove farsi la propria “cameretta” – che riproduce al suo interno le fattezze del “guscio casa”; o del “guscio ufficio” – dove continuare a lavorare anche quando si va da un posto all’altro – e dove trascorrere una parte sempre più consistente del proprio tempo, imbottigliati tra un luogo e l’altro della propria esistenza. Ma togliendo a chi dimora in quel guscio, e per tutto il tempo che vi dimora, anche la responsabilità di guidare, perché quei gusci verranno incolonnati lungo autostrade che sanno già dove portarti, uno dietro l’altro, come tanti vagoni di un treno in cui ciascun passeggero ha il suo scomparto, ma anche il suo motore, e i suoi consumi, e il suo spazio, per portarsi appresso tutte le sue cose: anche quelle che non gli servono. 
Questa visione della mobilità futura non è che un risvolto particolare di un progetto generale che consiste nello svuotare l’essere umano di ogni suo contenuto particolare (che vuol dire di ogni libertà di scelta) per consegnarlo e renderlo schiavo di una macchina; o di una “piattaforma”; o di una organizzazione; o di una dieta decisa da chi già ha, e vuol avere sempre di più, il controllo del cibo; o di una terapia permanente (una medicalizzazione che lo trasformi per sempre in un composto chimico artificiale); o di una guerra decisa altrove e fatta dai robot, in cui il ruolo obbligato di ognuno di noi sarà  quello di vittima designata di qualche danno collaterale.

Articolo pubblicato anche sulla rivista Valori