lunedì 24 giugno 2019

L’auto come bene comune - Guido Viale



L’automobile non è solo un veicolo semovente a quattro ruote; è un intero sistema di mobilità che ha dato la sua impronta a un’epoca; ed è la matrice, ma anche il prodotto, di gran parte del suo immaginario e del suo stile di vita. Da tempo l’automobile sta cambiando vesti perché non vuole scomparire, esattamente come succede al suo secolo – tutt’altro che breve – che cerca in ogni modo di trasmettere e trascinare nel terzo millennio le sue tare. L’automobile ha in effetti accompagnato l’ascesa e il declino delle grandi speranze che hanno contraddistinto il Novecento: l’emancipazione dei lavoratori ad opera della rivoluzione, o di un movimento operaio che ha avuto il suo baricentro proprio nell’industria dell’auto: un processo che si è risolto nel suo contrario, l’attuale umiliazione di tutto ciò che è lavoro; la democrazia del suffragio universale, che ha perso ogni incidenza poco dopo essere stato conquistato o concesso a tutti: non solo ai poveri e alle donne, che a lungo ne sono rimaste escluse, ma anche agli elettori di un numero sempre più ampio di paesi dove si vota tanto, ma non cambia mai niente; il sogno avveniristico di un universo popolato da macchine capaci di liberare gli umani dal lavoro, oggi trasformato nell’incubo dell’emarginazione dal consorzio civile proprio di chi il lavoro lo perde o non lo trova più; lo sfruttamento senza limiti delle risorse offerte dalla Natura convertitosi nella rivolta della Terra contro chi pensava di averla domata per sempre. Ed altro ancora.
L’automobile ha preso parte a questa parabola generale del secolo scorso creando in tutto il mondo, insieme a un’organizzazione del lavoro – il fordismo – che ha poi pervaso ogni altra attività, milioni di posti di lavoro e di retribuzioni (da tempo sempre più a rischio); ma soprattutto promettendo a tutti la libertà di spostarsi dove e quando e con chi si vuole; e di trasformarsi da fanti in cavalieri. Ma proprio quando e dove quella promessa sembrava essersi realizzata l’auto si è rivelata nient’altro che una sanguisuga che inquina, immobilizza, stressa e dissangua tanto chi vi sale a bordo quanto chi non vi è mai salito o ne è sceso, per un po’ o per sempre.
Da quest’incubo non ci libererà né l’auto elettrica (rinnovando o aumentando ancora il miliardo di veicoli che già intasano il pianeta), né l’auto che “si guida da sola”, ultimi colpi di coda del mostro per cercare di sottrarsi a un destino che lo pone invece di fronte a un bivio da cui si dipartono due strade in direzioni opposte.
Una, quella che cercherà di tenere “il sistema” in vita con quelle due soluzioni, ci porta diritti e filati verso la catastrofe a cui l’automobile ha già dato e continua dare uno dei contributi più consistenti lungo tutta la sua filiera, dalla sua produzione, al suo utilizzo, al suo smaltimento: il saccheggio delle materie prime, i fumi degli impianti e degli stabilimenti di produzione; l’uso pervasivo e insensato (una tonnellata di ferraglia per trasportare 80 chili di ciccia…); la trasformazione del petrolio in CO2 nella moltiplicazione dei suoi spostamenti; la distruzione di suoli e centri abitati per farle spazio; i paesaggi sventrati per asfaltare le strade lungo cui farla correre; i residui oleaginosi e arrugginiti che ogni suo esemplare disperde a fine d corsa. Quella catastrofe climatica e ambientale, ormai ben visibile, sta cacciando dalle loro terre milioni e milioni di esseri umani alla ricerca della loro sopravvivenza, e sta trasformando il nostro habitat di automobilisti seriali in una fortezza in cui sarà sempre più difficile entrare, ma anche sempre più difficile uscire; perché ci rinchiude tutti in tante bolle al cui interno arrabattarci per assicurarci una  vita sempre più stentata, che renderà sempre più difficile quanto inutile quella mobilità a cui l’automobile aveva impresso il marchio della libertà; ma al cui esterno non ci sarà che la guerra di tutti gli esclusi: sia tra di loro che contro chi cerca di tenerli lontani. 

La seconda strada che si diparte da quel bivio è quella dell’automobile come bene comune, da condividere quando e tra chi ne ha di volta in volta veramente bisogno, come dovrà succedere con tutti gli altri beni che sono o che devono essere comuni, cioè condivisi tra una comunità, o una “rete”, che li gestisce autogovernandosi (e con questo garantendo il futuro della specie umana): l’acqua, l’aria, il suolo agricolo ed edificato, gli edifici inutilizzati o mal utilizzati, l’informazione, i saperi e tante altre cose. Le tecnologie ITC consentono di offrire a tutti la possibilità di un trasporto personalizzato senza possedere un’auto propria, proprio come la tecnologia del motore a combustione interna aveva permesso di riempire le strade di automobili personali, anche se destinate a rimanere ferme per la maggior parte del loro tempo.
Ora, guardando i progetti con cui ci viene prospettato il suo futuro dalle corporation dell’automotive, non c’è niente di più insensato, ma per fortuna anche di più irrealistico, che rinchiudere ogni essere umano dentro un guscio semovente – dove farsi la propria “cameretta” – che riproduce al suo interno le fattezze del “guscio casa”; o del “guscio ufficio” – dove continuare a lavorare anche quando si va da un posto all’altro – e dove trascorrere una parte sempre più consistente del proprio tempo, imbottigliati tra un luogo e l’altro della propria esistenza. Ma togliendo a chi dimora in quel guscio, e per tutto il tempo che vi dimora, anche la responsabilità di guidare, perché quei gusci verranno incolonnati lungo autostrade che sanno già dove portarti, uno dietro l’altro, come tanti vagoni di un treno in cui ciascun passeggero ha il suo scomparto, ma anche il suo motore, e i suoi consumi, e il suo spazio, per portarsi appresso tutte le sue cose: anche quelle che non gli servono. 
Questa visione della mobilità futura non è che un risvolto particolare di un progetto generale che consiste nello svuotare l’essere umano di ogni suo contenuto particolare (che vuol dire di ogni libertà di scelta) per consegnarlo e renderlo schiavo di una macchina; o di una “piattaforma”; o di una organizzazione; o di una dieta decisa da chi già ha, e vuol avere sempre di più, il controllo del cibo; o di una terapia permanente (una medicalizzazione che lo trasformi per sempre in un composto chimico artificiale); o di una guerra decisa altrove e fatta dai robot, in cui il ruolo obbligato di ognuno di noi sarà  quello di vittima designata di qualche danno collaterale.

Articolo pubblicato anche sulla rivista Valori

Nessun commento:

Posta un commento