L’automobile non è solo un veicolo semovente a quattro ruote; è un intero
sistema di mobilità che ha dato la sua impronta a un’epoca; ed è la matrice, ma
anche il prodotto, di gran parte del suo immaginario e del suo stile di
vita. Da tempo l’automobile sta cambiando vesti perché non vuole
scomparire, esattamente come succede al suo secolo – tutt’altro che
breve – che cerca in ogni modo di trasmettere e trascinare nel terzo millennio
le sue tare. L’automobile ha in effetti accompagnato l’ascesa e il declino
delle grandi speranze che hanno contraddistinto il Novecento: l’emancipazione
dei lavoratori ad opera della rivoluzione, o di un movimento operaio che
ha avuto il suo baricentro proprio nell’industria dell’auto: un processo che si
è risolto nel suo contrario, l’attuale umiliazione di tutto ciò che è
lavoro; la democrazia del suffragio universale, che ha perso ogni
incidenza poco dopo essere stato conquistato o concesso a tutti: non solo ai
poveri e alle donne, che a lungo ne sono rimaste escluse, ma anche agli
elettori di un numero sempre più ampio di paesi dove si vota tanto, ma non
cambia mai niente; il sogno avveniristico di un universo popolato da macchine
capaci di liberare gli umani dal lavoro, oggi trasformato nell’incubo
dell’emarginazione dal consorzio civile proprio di chi il lavoro lo perde o non
lo trova più; lo sfruttamento senza limiti delle risorse offerte dalla Natura
convertitosi nella rivolta della Terra contro chi pensava di averla domata per
sempre. Ed altro ancora.
L’automobile ha preso parte a questa parabola generale del secolo scorso
creando in tutto il mondo, insieme a un’organizzazione del lavoro – il fordismo
– che ha poi pervaso ogni altra attività, milioni di posti di lavoro e di
retribuzioni (da tempo sempre più a rischio); ma soprattutto promettendo a
tutti la libertà di spostarsi dove e quando e con chi si vuole; e di
trasformarsi da fanti in cavalieri. Ma proprio quando e dove quella promessa
sembrava essersi realizzata l’auto si è rivelata nient’altro che una
sanguisuga che inquina, immobilizza, stressa e dissangua tanto chi vi sale a
bordo quanto chi non vi è mai salito o ne è sceso, per un po’ o per sempre.
Da quest’incubo non ci libererà né l’auto elettrica (rinnovando o
aumentando ancora il miliardo di veicoli che già intasano il pianeta), né
l’auto che “si guida da sola”, ultimi colpi di coda del mostro per cercare di
sottrarsi a un destino che lo pone invece di fronte a un bivio da cui si
dipartono due strade in direzioni opposte.
Una, quella che cercherà di tenere “il sistema” in vita con quelle
due soluzioni, ci porta diritti e filati verso la catastrofe a cui l’automobile
ha già dato e continua dare uno dei contributi più consistenti lungo
tutta la sua filiera, dalla sua produzione, al suo utilizzo, al suo
smaltimento: il saccheggio delle materie prime, i fumi degli impianti e degli
stabilimenti di produzione; l’uso pervasivo e insensato (una tonnellata di
ferraglia per trasportare 80 chili di ciccia…); la trasformazione del petrolio
in CO2 nella moltiplicazione dei suoi spostamenti; la distruzione di suoli e
centri abitati per farle spazio; i paesaggi sventrati per asfaltare le strade
lungo cui farla correre; i residui oleaginosi e arrugginiti che ogni suo
esemplare disperde a fine d corsa. Quella catastrofe climatica e
ambientale, ormai ben visibile, sta cacciando dalle loro terre milioni e
milioni di esseri umani alla ricerca della loro sopravvivenza, e sta
trasformando il nostro habitat di automobilisti seriali in una
fortezza in cui sarà sempre più difficile entrare, ma anche sempre più
difficile uscire; perché ci rinchiude tutti in tante bolle al cui interno
arrabattarci per assicurarci una vita sempre più stentata, che renderà
sempre più difficile quanto inutile quella mobilità a cui l’automobile aveva
impresso il marchio della libertà; ma al cui esterno non ci sarà che la guerra
di tutti gli esclusi: sia tra di loro che contro chi cerca di tenerli
lontani.
La seconda strada che si diparte da quel bivio è quella dell’automobile
come bene comune, da condividere quando e tra chi ne ha di volta in volta
veramente bisogno, come dovrà succedere con tutti gli altri beni che sono o che
devono essere comuni, cioè condivisi tra una comunità, o una “rete”, che li
gestisce autogovernandosi (e con questo garantendo il futuro della
specie umana): l’acqua, l’aria, il suolo agricolo ed edificato, gli edifici
inutilizzati o mal utilizzati, l’informazione, i saperi e tante altre cose. Le
tecnologie ITC consentono di offrire a tutti la possibilità di un trasporto
personalizzato senza possedere un’auto propria, proprio come la tecnologia del
motore a combustione interna aveva permesso di riempire le strade di automobili
personali, anche se destinate a rimanere ferme per la maggior parte del loro
tempo.
Ora, guardando i progetti con cui ci viene prospettato il suo futuro dalle
corporation dell’automotive, non c’è niente di più insensato, ma per fortuna
anche di più irrealistico, che rinchiudere ogni essere umano dentro un guscio
semovente – dove farsi la propria “cameretta” – che riproduce al suo interno le
fattezze del “guscio casa”; o del “guscio ufficio” – dove continuare a lavorare
anche quando si va da un posto all’altro – e dove trascorrere una parte sempre
più consistente del proprio tempo, imbottigliati tra un luogo e l’altro della
propria esistenza. Ma togliendo a chi dimora in quel guscio, e per tutto il
tempo che vi dimora, anche la responsabilità di guidare, perché quei gusci verranno
incolonnati lungo autostrade che sanno già dove portarti, uno dietro l’altro,
come tanti vagoni di un treno in cui ciascun passeggero ha il suo scomparto, ma
anche il suo motore, e i suoi consumi, e il suo spazio, per portarsi appresso
tutte le sue cose: anche quelle che non gli servono.
Questa visione della mobilità futura non è che un risvolto particolare di
un progetto generale che consiste nello svuotare l’essere umano di ogni suo
contenuto particolare (che vuol dire di ogni libertà di scelta) per consegnarlo
e renderlo schiavo di una macchina; o di una “piattaforma”; o di una
organizzazione; o di una dieta decisa da chi già ha, e vuol avere sempre di
più, il controllo del cibo; o di una terapia permanente (una medicalizzazione
che lo trasformi per sempre in un composto chimico artificiale); o di una
guerra decisa altrove e fatta dai robot, in cui il ruolo obbligato di ognuno di
noi sarà quello di vittima designata di qualche danno collaterale.
Articolo pubblicato anche sulla rivista Valori
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