La Colombia è spesso salita agli onori della cronaca
internazionale per la produzione e il commercio di cocaina. Il fatto che il
Paese, per oltre 50 anni, sia stato teatro di una guerra civile conclusasi soltanto nel 2016 con la
firma di un accordo di pace tra il governo e le FARC (Forze Armate
Rivoluzionarie della Colombia), non ha mai suscitato particolare interesse
mediatico.
Eppure, ci sono stati 220mila morti,
25mila desaparecidos e 5,7 milioni di sfollati.
Il conflitto colombiano è stato peraltro
caratterizzato da un ampio uso della violenza
sessuale quale strumento di guerra. Le atrocità commesse tanto dalle
forze governative che dai ribelli hanno raggiunto livelli di inumanità inimmaginabili,
come emerge dai diversi report redatti da organizzazioni nazionali ed
internazionali.
Le gravi violazioni perpetrate ai danni delle
donne hanno incluso: molestie
sessuali, stupri, stupri di gruppo, prostituzione, gravidanze, aborti e
sterilizzazioni forzate.
“Il 5 maggio 2003, nel
territorio indigeno di Betoyes, alcuni soldati presumibilmente paramilitari (…)
violentarono 4 ragazze di 11, 12, 15 e 16 anni. La sedicenne si chiamava Omaira
Fernández ed era al sesto mese di gravidanza al momento dello stupro. Dopo aver
assistito alla violenza, la comunità indigena fu costretta a guardare – con
orrore – mentre le aprivano il
ventre, estraevano il feto, lo tagliavano a pezzi gettandolo infine nel fiume
insieme alla madre“. Questa è una delle storie riportate
dall’ONIC (Organizacion Nacional Indigena de Colombia) in un documento presentato al Rappresentante speciale ONU sulla
violenza sessuale durante i conflitti armati in occasione della sua visita in
Colombia nel 2012.
I racconti delle donne non appartenenti a minoranze
etniche hanno purtroppo lo stesso tenore. “Era notte, due uomini armati
con indosso uniformi militari mimetiche hanno portato fuori dalla casa mio
marito puntandogli una pistola alla testa. Ho cercato di calmare la nostra
bambina cantandole una canzone per farla addormentare”, dice una vittima di Bogotá all’ONG Oxfam, “dopodiché uno di loro mi ha condotta nel corridoio (…) mi ha tolto
i vestiti, mi ha coperto la bocca e mi ha stuprata. Quando ha finito, mi ha
detto ‘non è successo niente. In fondo,
le donne servono a questo‘”.
Le forze di sicurezza statali (esercito e polizia)
anziché tutelare donne e bambine ne hanno abusato nel peggiore dei modi.
Nel report “Colombia: Women,
Conflict-Related Sexual Violence and the Peace Process”, si legge: “l’undicenne Yolanda stava tornando a casa da scuola quando è stata
fermata da un soldato che, già da un po’ di tempo, la stava tormentando con
avances sessuali. Di fronte all’ennesimo rifiuto, il soldato l’ha prelevata di
forza portandola nel luogo dove si trovava la sua unità. Qui, l’ha stuprata tenendola prigioniera fino
al mattino successivo“.
Nel caso della Colombia non è stato semplice tracciare
un legame tra violenza sessuale e
conflitto in corso. In parte, ciò è stato determinato dal fatto che la
violenza contro le donne è, in un certo qual modo, insita nel sistema
socio-culturale colombiano. Un sistema fortemente patriarcale basato sulla
dominazione maschile, la discriminazione di genere e la marginalizzazione
sociale ed economica di alcuni gruppi, in particolare gli indigeni e gli
afro-colombiani.
Circa il 70% delle mujeres colombianas ha
subito una qualche forma di maltrattamento nel corso della propria vita. Nel
95% delle ipotesi, si tratta di violenza
domestica.
In un simile contesto, gli abusi hanno finito con
l’essere considerati dalla società come qualcosa di “normale“.
Molte donne non si ritengono neppure vittime perché non
sanno che la violenza sessuale è un crimine.
D’altro canto, la guerra non si è limitata a
esacerbare una realtà già radicata all’interno del Paese. Non ha soltanto reso
le donne ancora più vulnerabili di quanto già non lo fossero. Ma ha trasformato i loro corpi in un vero e
proprio strumento bellico utilizzato da tutte le parti in lotta
(forze governative, paramilitari e guerriglieri) per punire e umiliare il
nemico, ostentare il potere militare sul territorio e affermare il proprio
controllo sulle risorse economiche.
La Commissione Inter-Americana per i diritti
dell’uomo, in un report del 2006, rilevava: “nel conflitto armato
colombiano, la violenza contro le donne, in primis quella di natura sessuale,
ha il preciso scopo di terrorizzare e indebolire la controparte (…). Le donne
sono vittime dirette e collaterali (…) in ragione del loro legame affettivo
come madri, mogli, compagne e sorelle” di uomini appartenenti
alla fazione opposta.
Il Governo di Bogotá ha però per molto tempo negato e nascosto i crimini
sessuali, permettendo così il perpetuarsi di un meccanismo di impunità.
Il 98% degli abusi sessuali restava, infatti, senza un
responsabile. Solo una vittima su cinque denunciava e su 100 casi giusto un
paio arrivavano in tribunale con relativa sentenza di colpevolezza.
Il movimento femminista colombiano e le associazioni a
tutela dei diritti delle donne hanno avuto un ruolo determinante nel processo
di denuncia delle violenze sessuali connesse al conflitto. Il primo studio articolato sul tema è stato svolto nel 2011,
nell’ambito della campagna “Rape and other violence: leave
my body out of the war”, da un team di ricercatrici
dell’associazione Casa de la Mujer.
Il report finale ha evidenziato che, nel periodo
2001-2009, ben 489.687 donne sono
state vittime di violenza sessuale nelle municipalità interessate
dal conflitto, con una media di 54.410 donne all’anno, 149 al giorno, 6 ogni
ora. Il fenomeno è però ancora sottostimato dal momento che ad oggi non
esistono dati ufficiali.
Un contributo sostanziale al riconoscimento della
violenza sessuale quale arma di guerra è arrivato anche dalla Corte
Costituzionale. Con i provvedimenti 092 del
2008 e 009 del
2015, la Corte ha, infatti, rilevato che “la violenza sessuale
costituisce una prassi sistematica, abituale, invisibile e generalizzata” nel
conflitto colombiano.
Immagine dell’utente Flickr Marcha Patriótica rilasciata in licenza Creative
Commons
Questa nuova presa di coscienza tanto da parte della
società civile che delle istituzioni ha permesso di migliorare l’accesso alla
giustizia per le vittime attraverso la creazione di una sottocommissione, all’interno della Procura
Generale, competente ad investigare su siffatta tipologia di crimini.
Ha consentito, inoltre, di portare la questione della
“violencia sexual en el conflicto armado” al tavolo
dei negoziati di pace. Nell’Accordo finale, i crimini sessuali sono stati inseriti
tra i reati sottoposti alla giurisdizione del Tribunale
Speciale per la Pace (JEP). Inoltre, è stato stabilito che per
detti crimini non sarà concessa alcuna amnistia o indulto.
La JEP è una giurisdizione straordinaria, composta da
giudici nazionali e internazionali. Il suo compito è quello di giudicare,
nell’arco di 15 anni, le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dai
belligeranti dall’inizio del conflitto fino al 1° dicembre 2016 (data della
ratifica dell’accordo), in condizioni di autonomia e indipendenza rispetto alla
giustizia ordinaria.
Gli imputati che si dichiarano colpevoli, ammettendo
le loro responsabilità in ordine ai crimini commessi e riparando le vittime,
potranno beneficiare di pene diverse
dall’incarcerazione. Sono comunque previste forme di limitazione della
libertà personale per le violazioni più gravi. Mentre le sanzioni alternative
riguardano i lavori di pubblica utilità, ad esempio: attività di sminamento,
ricerca e individuazione delle persone scomparse, ricostruzione delle
infrastrutture chiave.
I detrattori della JEP, tra cui il presidente Ivan Duque,
sostengono che le vittime di violenza sessuale non otterranno davvero giustizia
attraverso questo meccanismo, nella misura in cui ai colpevoli non saranno
applicate le condanne ordinarie fissate dal codice penale. Motivo per il quale,
l’attuale Governo colombiano vorrebbe apportare delle modifiche all’accordo di
pace.
Il presidente dalla JEP, Patricia Linares, ha
però sottolineato che “la vocazione fondamentale
dell’accordo di pace è chiudere in via definitiva il conflitto”. La
scelta di “un sistema di ‘giustizia riparatoria’ anziché ‘punitiva’ è dettata
dal convincimento di poter meglio chiarire la verità” sugli orrori
commessi durante il conflitto.
In altre parole, la giustizia transitoria avrebbe come
fine ultimo quello di ricostruire la verità dei fatti per contribuire
attivamente al processo di riconciliazione nazionale.
In effetti, le vittime di violenza sessuale sembrano
avere fiducia nella JEP. Nell’agosto 2018, sono stati presentati al tribunale
speciale 2.000 casi documentati di crimini sessuali
perpetrati durante il conflitto. I fascicoli sono frutto di due anni di lavoro
sull’intero territorio nazionale ad opera delle organizzazioni a tutela dei
diritti delle donne Red de Mujeres Víctimas y Profesionales e Mesa Nacional de Víctimas,
nonché della campagna “No es hora de callar entregaron” (non è il
momento di restare in silenzio).
Lo scorso 24 aprile, l’associazione Sisma Mujer ha depositato altri 72 casi. La sessione innanzi alla JEP si è svolta in
forma privata per garantire la sicurezza delle vittime, che cominciano a
confidare nella possibilità di ottenere giustizia per le devastazioni subite.
“Vogliamo la verità. Noi donne
vittime di violenza sessuale sentiamo il peso della guerra sui nostri corpi. Chiediamo giustizia così da
evitare qualsivoglia impunità”, ha affermato una delle vittime durante la consegna del
rapporto.
Per il quinto anno consecutivo, il 25 maggio, si è celebrata la Giornata
nazionale per la dignità delle vittime della violenza sessuale,
istituita con il decreto 1480 del 2014.
Una commemorazione importante perché la memoria non
serve soltanto a ricordare il passato ma anche a guardare al futuro in una
prospettiva di cambiamento. Un cambiamento, soprattutto di ordine culturale, di
cui le donne colombiane sembrano avere davvero bisogno per godere appieno dei
loro diritti.
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