C’era una volta una scuola.
Per la precisione, quando dico scuola, intendo l’edificio, ma anche il suo interno.
Come se perlomeno in questa breve storia gli alunni e i loro preziosi accompagnatori nella fase più vulnerabile e al contempo ricca di possibilità – in modo assai riduttivo chiamati insegnanti - fossero corpo unico con le fondamenta, la struttura portante, le finestre e il soffitto, nonché le pareti. Già, soprattutto i muri e i mattoni che li compongono.
Muri che, andrebbe a piè sospinto ricordato, non servono unicamente a dividere, ma anche a sorreggere e a proteggere i più deboli, non solo il contrario.
Si da il caso che la notte precedente qualcuno lasciò testimonianza del proprio pensiero, o delirio, sulle mura accanto al cancello d’ingresso.
Prima gli italiani, questa fu la scritta che il mattino seguente i genitori e i propri figli videro urlata, e di rabbioso quanto corvino spray intessuta. Sarebbe stato impossibile non notarla, in quanto di dimensioni assai notevoli.
Qualcuno degli adulti commentò brevemente la cosa, alcuni lamentarono la solita incuria da parte del ministero dell’istruzione, ma la maggior parte si sforzò di ignorare l’aggressivo messaggio.
D’altra parte, non era di certo una frase nuova ai loro occhi come alle rispettive orecchie. Ed è risaputo. Qualora ci si abitui a uno slogan che precipiti incessantemente dall’alto come se fosse roba normale, alla stregua della pioggia o la neve, a prescindere da quanto sia ignobile o virtuoso, esso diviene a tutti gli effetti parte integrante del linguaggio comune.
Tuttavia, quel giorno, davanti a quel muro, non c’erano solo degli adulti.
Per la precisione, quando dico scuola, intendo l’edificio, ma anche il suo interno.
Come se perlomeno in questa breve storia gli alunni e i loro preziosi accompagnatori nella fase più vulnerabile e al contempo ricca di possibilità – in modo assai riduttivo chiamati insegnanti - fossero corpo unico con le fondamenta, la struttura portante, le finestre e il soffitto, nonché le pareti. Già, soprattutto i muri e i mattoni che li compongono.
Muri che, andrebbe a piè sospinto ricordato, non servono unicamente a dividere, ma anche a sorreggere e a proteggere i più deboli, non solo il contrario.
Si da il caso che la notte precedente qualcuno lasciò testimonianza del proprio pensiero, o delirio, sulle mura accanto al cancello d’ingresso.
Prima gli italiani, questa fu la scritta che il mattino seguente i genitori e i propri figli videro urlata, e di rabbioso quanto corvino spray intessuta. Sarebbe stato impossibile non notarla, in quanto di dimensioni assai notevoli.
Qualcuno degli adulti commentò brevemente la cosa, alcuni lamentarono la solita incuria da parte del ministero dell’istruzione, ma la maggior parte si sforzò di ignorare l’aggressivo messaggio.
D’altra parte, non era di certo una frase nuova ai loro occhi come alle rispettive orecchie. Ed è risaputo. Qualora ci si abitui a uno slogan che precipiti incessantemente dall’alto come se fosse roba normale, alla stregua della pioggia o la neve, a prescindere da quanto sia ignobile o virtuoso, esso diviene a tutti gli effetti parte integrante del linguaggio comune.
Tuttavia, quel giorno, davanti a quel muro, non c’erano solo degli adulti.
A questo riguardo, mi sbaglierò, ma sono ancora persuaso che la nostra più
grande chance di uscire fuori dai periodi più bui è che al mondo ci sono più
testimoni dei nostri errori di quanti ce ne rendiamo conto. E la maggioranza di
costoro ci ostiniamo in ogni epoca a sottovalutarli.
In particolare, i bambini della quarta D aveano tutti prestato grande attenzione al monito accanto al portone e una volta raggiunta la soglia dell’aula si decisero ad assecondarlo.
Per la cronaca, i primi ad arrestarsi sul ciglio della porta furono Jian, Oksana, Ahmed, Ileana e Rodrigo, superficialmente definibili la porzione esotica della classe, se non altro limitandosi a trascurabili inezie come la singolarità del nome e le origini dei familiari.
Prima gli italiani, pensarono all’unisono, ovveroprecedenza a costoro. Nessun problema, allorché questa sia la regola. In altre parole, ci siamo dovuti abituare a ben altro.
Vorrà dire che entreremo subito dopo. Basta che ci facciano entrare.
Sembrò finita lì. E sarebbe stata così, se non stessimo parlando di giovani creature, che sono per natura votate a sorprendere chi arranchi alle loro spalle per eccesso di pregiudizi, più che anni.
Difatti, Giorgio, Marisa, Daniela, Piero, Claudio uno e Claudio due si fermarono anche loro sulla soglia.
Prima gli italiani, si dissero più o meno nello stesso tempo. Ovvero, tocca a noi per primi essere gentili ed educati, dando la precedenza a chi arrivi da lontano.
Parve la giusta conclusione a risolvere l’impasse, ma c’erano altri compagni desiderosi di differenziarsi. E, scusate, ma la diversità dei punti di vista e, soprattutto, la volontà di esprimerli liberamente sono tra gli aspetti innati più sani degli umani, e andrebbero incoraggiati.
Nella fattispecie, Sara detta Saretta, Francesco detto Fra, Silvano detto Silvano, nonché Gaia, Katia e Fabio – conosciuti anche come i ritardatari cronici - si bloccarono esattamente come i compagni un attimo prima di entrare.
Prima gli italiani, pensarono attraversati da sincera contrizione per i continui ingressi ben oltre la campanella. E con partecipata convinzione si scusarono pubblicamente con i compagni. Perché noi, che eravamo qui prima di voi, dovremmo essere coloro che danno l’esempio su come ci si comporta. E lasciare alle maestre il compito di far le maestre.
Ebbene, per farla breve, dopo poco tempo tutti i bambini della classe si erano fermati sulla porta per i più disparati motivi, quando la loro docente li raggiunse.
La donna chiese spiegazioni e non appena si rese conto di ciò che era accaduto si rallegrò.
Sorrise di gioia e speranza, le armi migliori contro l’ottusità gridata e addirittura legalizzata.
“Entrate”, disse invitando i bambini ad avanzare nell’aula con un gesto della mano delicato e autorevole allo stesso tempo.
“Prima gli italiani?” Chiese uno di loro.
No, la risposta nello sguardo come nelle parole.
Prima tutti.
In particolare, i bambini della quarta D aveano tutti prestato grande attenzione al monito accanto al portone e una volta raggiunta la soglia dell’aula si decisero ad assecondarlo.
Per la cronaca, i primi ad arrestarsi sul ciglio della porta furono Jian, Oksana, Ahmed, Ileana e Rodrigo, superficialmente definibili la porzione esotica della classe, se non altro limitandosi a trascurabili inezie come la singolarità del nome e le origini dei familiari.
Prima gli italiani, pensarono all’unisono, ovveroprecedenza a costoro. Nessun problema, allorché questa sia la regola. In altre parole, ci siamo dovuti abituare a ben altro.
Vorrà dire che entreremo subito dopo. Basta che ci facciano entrare.
Sembrò finita lì. E sarebbe stata così, se non stessimo parlando di giovani creature, che sono per natura votate a sorprendere chi arranchi alle loro spalle per eccesso di pregiudizi, più che anni.
Difatti, Giorgio, Marisa, Daniela, Piero, Claudio uno e Claudio due si fermarono anche loro sulla soglia.
Prima gli italiani, si dissero più o meno nello stesso tempo. Ovvero, tocca a noi per primi essere gentili ed educati, dando la precedenza a chi arrivi da lontano.
Parve la giusta conclusione a risolvere l’impasse, ma c’erano altri compagni desiderosi di differenziarsi. E, scusate, ma la diversità dei punti di vista e, soprattutto, la volontà di esprimerli liberamente sono tra gli aspetti innati più sani degli umani, e andrebbero incoraggiati.
Nella fattispecie, Sara detta Saretta, Francesco detto Fra, Silvano detto Silvano, nonché Gaia, Katia e Fabio – conosciuti anche come i ritardatari cronici - si bloccarono esattamente come i compagni un attimo prima di entrare.
Prima gli italiani, pensarono attraversati da sincera contrizione per i continui ingressi ben oltre la campanella. E con partecipata convinzione si scusarono pubblicamente con i compagni. Perché noi, che eravamo qui prima di voi, dovremmo essere coloro che danno l’esempio su come ci si comporta. E lasciare alle maestre il compito di far le maestre.
Ebbene, per farla breve, dopo poco tempo tutti i bambini della classe si erano fermati sulla porta per i più disparati motivi, quando la loro docente li raggiunse.
La donna chiese spiegazioni e non appena si rese conto di ciò che era accaduto si rallegrò.
Sorrise di gioia e speranza, le armi migliori contro l’ottusità gridata e addirittura legalizzata.
“Entrate”, disse invitando i bambini ad avanzare nell’aula con un gesto della mano delicato e autorevole allo stesso tempo.
“Prima gli italiani?” Chiese uno di loro.
No, la risposta nello sguardo come nelle parole.
Prima tutti.
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