Mi chiamo Ilaria e ho ventisei anni,
ovvero poco più di un quarto di secolo, abbastanza per esprimere tutto il
disprezzo che provo a essere italiana. In questi ventisei anni non mi son mai
vergognata così tanto di esserlo come ultimamente. E credetemi che non è un
modo di dire, ma è proprio uno stato d’essere. Sono cresciuta in una famiglia
che ha saputo e sa tutt’ora mostrarmi la bellezza dell’accogliere l’altro
diverso da noi, qualsiasi sia il colore degli occhi, qualsiasi sia il profumo
della pelle, la morbidezza delle mani, il tono della voce, il Dio in cui crede
o le cose che mangia.
Eppure ultimamente, in televisione,
un tale signore barbuto continua a ribadire che bisogna chiudere i porti perché
le persone devono arrivare nel nostro paese regolarmente, con un permesso,
distaccandosi così da quei valori cristiani con cui uno scout come lui avrebbe
dovuto crescere, primo di tutti quello dell’accoglienza dell’altro, dello
straniero, come lo era, ad esempio, Gesù. Peccato che uno straniero in Italia
non ci possa venire nemmeno per turismo.
Ora vi racconto la mia storia, o
meglio, la nostra storia. Io e Ahmadou ci siamo conosciuti in Camerun, durante
il mio anno di servizio civile. Lui
camerunese-musulmano-infermiere-ginecologo-chirurgo-responsabile tecnico del
dispensario sanitario di Nkolonguet ed io italiana-cattolica-volontaria-educatrice
della scuola “Villaggio Fraternité” a Sangmelima. Quanta diversità, vero?
Eppure “a un tratto l’amore scoppiò dappertutto”, così dappertutto da partire
assieme per Koutaba, il suo villaggio, la terra della tribù Bamoun, nella regione
ovest del Camerun, per le presentazioni ufficiali alla famiglia.
Che meraviglia scoprire l’altro,
così diverso e uguale a noi, con tutte quelle tradizioni e quei costumi che in
Italia vediamo solo a “Le Falde del Kilimangiaro”. Che meraviglia sporcarsi le
mani di terra per raccogliere le arachidi, portarle in un cesto intrecciato a
mano dal cugino, e camminare con questo in testa sino al mercato, sedersi sul
ciglio della strada a venderle con la mamma, improvvisare qualche parola nel
dialetto locale.
Che meraviglia pregare tutti
assieme, nonostante i modi diversi di farlo, affinché regni la pace nella zona
anglofona del Camerun, quella dove gli spari dei terroristi sono all'ordine del
giorno, quella dove il papà di Ahmadou, comandante dei “gendarme”, è minacciato
di morte. Che meraviglia tutta questa diversità che ci rende fratelli perché
abbiamo tutti lo stesso sangue.
Peccato che per Ahmadou conta il
colore della pelle. Non quello del sangue.
Ahmadou per conoscere la mia
famiglia, come ho
potuto fare io con la sua, non può semplicemente fare otto o dieci ore di
autobus. Ahmadou deve richiedere un visto. E per richiedere un
visto turistico servono una quantità indescrivibile di documenti. E i soldi. Ma
Ahmadou un lavoro a tempo indeterminato ce l’ha. Ahmadou ha uno stipendio e dei
bollettini di paga che lo dimostrano. Ahmadou ha il permesso del suo datore di
lavoro per le ferie richieste. Ahmadou ha una carta d’identità nazionale, un
atto di nascita, un passaporto.
Ahmadou ha la mia famiglia che si
prende la responsabilità di ospitarlo e sostenerlo economicamente. Ahmadou ha
una polizza sanitaria italiana che lo assicura. Però Ahmadou ha la
pelle nera…e il sangue rosso, come il mio! Che c'entra il sangue rosso? La
sua pelle è nera e lui ha 32 anni, in Italia viene a rubare il lavoro! Chi ci
crede che poi ci torna quello in Camerun. “Noi li conosciamo, fanno tutti così,
ma poi una volta che sono in Italia scappano e ci va lei in prigione,
signorina!”.
Ahmadou ha la pelle nera e il
visto turistico per l’Italia non gli viene concesso. Una, due, tre e
chissà ancora quante volte. Ahmadou non ha avuto il permesso e non ha potuto
festeggiare con me, nel paese dove son nata e cresciuta, il mio compleanno.
Ahmadou non ha avuto il permesso e non potrà festeggiare con noi la Pasqua, ma
io invece ho potuto festeggiare con loro la "Id al-adha" (La festa
del sacrificio). Ahmadou non ha avuto il permesso e non sapremo quando gli
verrà concesso. E come lui tanti giovani si son trovati un timbro di rifiuto
sul passaporto.
L'unica cosa che sappiamo è che sono
tante le persone che scappano e si imbattono in un viaggio che dura anni alla
ricerca di un posto migliore dove vivere, per poter sfuggire alle guerre, alla
fame, alla povertà, alle ingiustizie! Sappiamo che l’unica certezza per Ahmadou
per poter venire in Italia, sarebbe il matrimonio in terra africana e la
richiesta di un visto per ricongiungimento familiare.
Ma per noi il matrimonio è troppo
importante per “usarlo” come passaporto ed è per questo che abbiamo deciso di
dar voce alla nostra storia, perché tutti coloro che vivono nell’ignoranza
possano conoscere le tante difficoltà che si nascondono dietro quei volti che
navigano nel mare alla ricerca di un porto in cui attraccare. Perché ogni
persona, ogni essere umano, ha il colore della pelle diverso dal nostro, ma
quello del sangue uguale a noi; eppure non conosceremo mai né sguardo, né
volto, perché si perderanno e affonderanno silenziosamente negli abissi del
Mediterraneo.
da qui
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