Greta Thunberg non è una scienziata. È (diventata) una figura mediatica che
dà voce a pensieri, timori (anzi terrori, come lei stessa suggerisce) e
convinzioni che molti di noi coltivano sulla base di studi sempre più precisi e
incontestabili. Studi sempre più drammaticamente allarmanti, prodotti da un
Comitato dell’Onu sui cambiamenti climatici (l’Ippc). Che ci avverte che siamo
vicini a un punto di non ritorno, oltre il quale non potranno più essere
ristabilite sul nostro pianeta le condizioni che rendono possibile la vita e la
convivenza di miliardi di esseri umani.
Ora, il quadro che ciascuno di noi ha di fronte è sconcertante. Greta viene accolta
da (quasi) tutti con grandi onori; dice cose semplici e terribili; tutti (o
quasi) la applaudono e lei se ne va verso un prossimo appuntamento di valenza
mondiale. Ma tutto continua come prima. Ci sono, sì, anche quelli che la
chiamano «gretina» e trattano noi che le diamo retta come cretini. Sono quasi
tutti giornali, media e politici di estrema destra, perché il negazionismo
climatico è di estrema destra. Il perché lo ha spiegato bene – tra gli altri –
Naomi Klein nel libro Una rivoluzione ci salverà: affrontare seriamente la
transizione energetica necessaria ad attenuare le conseguenze – in parte già
irreversibili – dei cambiamenti climatici richiede una rivoluzione di tutto il
sistema economico e di tutti gli assetti sociali in direzione di una loro democratizzazione
radicale, cioè di un sistema di relazioni che si regga sulla partecipazione e
sull’iniziativa dei più. Ovunque.
Per questo, tra noi che ci sentiamo compagni di strada di Greta – ormai siamo in
molti – e quelli che ci danno dei cretini c’è una grande «zona grigia»; una
maggioranza smisurata di indifferenti. Che sono tali in parte perché non sanno:
stampa, media, scuola e politici hanno fatto ben poco per informarli (e papa
Francesco, che lo fa da quattro anni, è davvero una voce nel deserto). Ma anche
quelli che un po’ ne hanno sentito parlare preferiscono nascondere la testa
sotto la sabbia: sentono che i problemi da affrontare sono troppo grandi per
loro. A questa categoria sembra appartenere la totalità (o quasi) di politici,
sindacalisti, giornalisti non di destra, docenti, preti. Continuano a parlare
delle cose di sempre – soprattutto «la crescita» e, in subordine, i partiti,
gli equilibri tra loro in Italia e in Europa, l’occupazione, il reddito, la
salute, i migranti, «i giovani», e poi il cinema, la Tv, la moda, le vacanze,
il gossip, ecc. , come se non ci fosse una immane spada di Damocle che penzola
sulle teste di tutti, le loro comprese.
La figura più sciocca l’ha fatta Zingaretti, che ha dedicato a
Greta la sua vittoria (congressuale, non elettorale), per poi complimentarsi
subito per il finto stato di avanzamento del Tav (un progetto che genererà 12
milioni di tonnellate di CO2 in una decina d’anni, ma che non entrerà mai in
funzione perché da un lato e dall’altro del «Grande buco» continuerà a non
trovare dei binari adeguati per iniziare o concludere la sua stupida corsa). Le
elezioni sono passate senza che il problema dell’imminente apocalisse climatica
venisse richiamata, se non come un tema tra gli altri, nel capitolo «ambiente»
a cui ogni partito è ormai in obbligo di dedicare uno spazio, senza peraltro
trarne alcuna conseguenza concreta. Per festeggiarsi il quotidiano Repubblica
raduna 130mila persone, dove tutti parlano di tutto tranne che del clima,
relegato in un angolo a un incontro con quattro esponenti del movimento Fridays
for future. I sindacati minacciano uno sciopero generale nazionale alla ripresa
autunnale contro le politiche del governo (perché non fa niente, in Italia e in
Europa, per affrontare la minaccia climatica? E perché ha rifiutato di firmare
un documento di conferma dell’impegno, assunto al vertice di Parigi, di
azzerare le emissioni carboniche entro il 2050?). Neanche per sogno! Il
problema non è all’ordine del giorno.
Come non lo è nella piattaforma dello sciopero nazionale indetto dalla Fiom
per il 14 giugno, al cui centro c’è l’occupazione senza un solo cenno al
problema dei problemi: che per fare fronte agli impegni assunti al vertice di
Parigi bisogna chiudere molti impianti e molte fabbriche e immettere i relativi
lavoratori – più molti altri da assumere ex novo, creando così molta nuova
occupazione – nelle attività ad alta intensità di lavoro richieste dalla
transizione energetica e dalla conversione ecologica. Intanto gli studenti di
Fridays for future sono scesi in piazza in tutto il mondo (e a centinaia di
migliaia in Italia) il 15 marzo e il 24 maggio (e lo faranno di nuovo il 27
settembre) per esigere un cambio immediato di passo ai Governi nazionali,
sovranazionali e locali. Quale occasione migliore per mettere a punto insieme
una piattaforma politica ed economica che cominci ad affrontare il problema in
termini operativi? E quale occasione migliore, anche, per costruire insieme,
movimento, sindacati e altre associazioni, quella Coalizione sociale –
cambiandole magari nome, ormai screditato – che Landini si era impegnato a
costituire quattro anni fa e che poi ha lasciato per strada, ma che resta un
passaggio obbligato per qualsiasi prospettiva di trasformazione sociale e di
cambio di rotta economica e politica in Italia e in Europa?
Questo giornale ha aperto un dibattito sui rapporti tra ambientalismo e
sinistra, ma forse è partito con il piede sbagliato. Il problema non è mettere
insieme questi due orientamenti, ciascuno dei quali ha una sua storia, in
Italia, ma non solo, sempre più evanescente. Occorre cominciare a dire (Tell
the truth, dicono quelli di Extinction Rebellion) – e poi prendere subito
l’iniziativa (Act now) e poi ancora coinvolgere il maggior numero di persone
(Call assemblies) – sul fatto che tutti i grandi temi all’ordine del giorno,
occupazione, migranti, reddito, salute, diritti, ecc., dipendono dalla capacità
di affrontare a fondo un’unica grande e improcrastinabile questione; che li
ricomprende tutti: come impegnarsi a fondo, e su tutti i fronti, nella lotta
contro i cambiamenti climatici.
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