mercoledì 25 gennaio 2017

La ribellione indigena nelle Americhe - Silvia Ribeiro

Da un estremo all’altro, i popoli indios delle Amériche vivono, costruiscono e resistono. Resistono alle invasioni, sui loro territori, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti, all’abbattimento dei loro boschi e alle mega piantagioni di monocolture di alberi, ai parchi eolici, alle piantagioni di transgenici e alle fumigazioni di agrotossici, all’avanzare indiscriminato di progetti immobiliari, alla contaminazione e furto delle loro terre, fiumi, laghi, e aria. Resistono inoltre ai mille modi per tentare di renderli invisibili, di affermare che non esistono o che non sono popoli; affinché ogni lotta, quando viene alla luce e suscita solidarietà, venga vista come un fenomeno localizzato e isolato, dove non c’è storia, non c’è identità, non c’è organizzazione, non c’è solidarietà e reti con molti altri. Le lotte indigene hanno molti livelli di significato che ci toccano tutti e tutte, anche se spesso li percepiamo solo a partire dalle loro resistenze nei momenti di repressione e minaccia.
Nel Sud del continente, i Mapuche, tanto in Cile quanto in Argentina – il loro territorio ancestrale non ha mai avuto questa frontiera – sono perseguiti giudizialmente e militarmente perché difendono i loro territori contro le grandi imprese forestali, idroelettriche, petrolifere e altre imprese e contro gli affari dei governi di turno con le loro terre. In ogni conflitto, nei loro confronti sono state applicate – o si è cercato di farlo – le leggi antiterrorismo, leggi che provengono dalle dittature militari, con persecuzione militare, poliziesca e giudiziaria. In entrambi i casi, in particolare in Argentina, il discorso ufficiale e mediatico nega perfino che esistano popoli indios, come è successo nel caso di molti altri conflitti in territori indigeni. Alla fine del 2016, il caso della machi mapuche Francisca Linconao (autorità morale, medica e consigliera della sua comunità) ha sollevato solidarietà in tutto il mondo, quando la machi Francisca, che si dichiara innocente ed è stata arrestata senza prove, accusata di un incendio che ha fatto due morti in una tenuta forestale che occupa e devasta i territori della comunità, ha iniziato lo sciopero della fame che è durato due settimane, fino a quando, il 6 gennaio 2017, le hanno concesso, non la libertà, ma gli arresti domiciliari. Il processo contro di lei, continua.

Lo scorso 10 e 11 gennaio, il governo argentino e il governatore Mario das Neves della provincia di Chubut, in un’operazione congiunta della Gendarmeria Nazionale e della polizia locale, hanno lanciato una feroce repressione contro una comunità (lof) mapuche che difende il suo territorio nel dipartimento di Cushamen, Chubut. Questo lof mapuche ha rioccupato la terra nel marzo del 2015, dopo che era rimasto incapsulato in quella che dal 1991 è la proprietà della multinazionale italiana Benetton, uno dei maggiori proprietari terrieri dell’Argentina, con circa 900.000 ettari in Patagonia.
In quella che Amnesty International ha definito come “operación cerrojo” [operazione serratura], 200 gendarmi hanno chiuso tutte le vie di accesso e sono avanzati sparando pallottole di gomma e di piombo contro la comunità, con un’enorme brutalità, attaccando donne, uomini e bambini. Il primo giorno avevano un ordine del tribunale per liberare i binari di un treno turistico che la comunità aveva bloccato con materiali, non persone. Nient’altro. Il secondo giorno non avevano nemmeno questo esiguo ordine, ma in entrambe le occasioni hanno attaccato la comunità con violenza, lasciando una scia di feriti e di arresti.
Al brutale attacco, sono seguite le manipolazioni mediatiche. I media locali hanno accusato i mapuche di tirare sassi e di “resistere violentemente a un procedimento giudiziario”, implicando che erano stati loro a provocare la repressione. Il governatore ha aizzato il conflitto dichiarando che “Da un po’ di tempo nel Chubut c’è un gruppo di violenti che non rispettano le leggi, la patria, né la bandiera… Su questo sarò duro fino in fondo, affinché si rispettino le leggi e la gente viva tranquilla” (12/01/17 lavaca.org). Per il governatore, “la gente” è la multinazionale Benetton.

Così come ha denunciato l’amato storico Osvaldo Bayer sul sito Garganta Poderosa, si tratta, un’altra volta, della Patagonia ribelle, una rinnovata “Campagna del deserto” (che venne condotta da Julio Argentino Roca agli inizi del 1900) per farla finita con i popoli e le tribù del Sud, per far posto adesso alle imprese multinazionali.
In tutta l’Amazzonia, nella resistenza all’industria mineraria, petrolifera e alle altre devastazioni, ci sono i popoli indigeni. In Ecuador, membri del popolo Shuar della comunità di Nankitz, Morona Santiago, a novembre e a dicembre hanno cercato di recuperare il loro territorio, dal quale erano stati violentemente cacciati nell’agosto 2016 da forze militari e di polizia del governo che, ancora una volta, ha preso in considerazione un ordine giudiziario a favore della società mineraria cinese Explorcobres S.A, malgrado lo stesso governo non aveva nemmeno attuato la consultazione libera, preventiva e informata alla quale hanno diritto le comunità indigene Shuar. Negli scontri è morto un poliziotto e diversi sono rimasti feriti. Come ripercussione, il governo ha cercato di chiudere l’organizzazione ecologista Acción Ecológica, che da anni denuncia gli impatti dell’attività mineraria e petrolifera e la violazione dei diritti indigeni e umani in queste aree, compreso il caso Shuar. Si è riusciti a fermare quest’azione, sia per la vacuità delle accuse contro questa organizzazione, sia per la vasta protesta nazionale e internazionale; però le minacce proseguono: continua la militarizzazione nella zona Shuar e analoghe situazioni di sgomberi, abuso e violenza, si ripetono in diversi territori indigeni dell’Ecuador dove vogliono portare avanti le mega attività estrattive, a favore delle imprese straniere, soprattutto cinesi.
La difesa territoriale dei popoli indigeni ha un ruolo fondamentale nella difesa della vita e della giustizia per tutte le Amériche, come è successo anche con la mobilitazione del Popolo Sioux a Standing Rock, nel Nord Dakota, contro l’oleodotto DAPL, un’altra devastante impresa che a dicembre è stata fermata per l’estesa e ferma resistenza indigena. La convergenza di popoli indigeni e di organizzazioni ecologiste di base, così come in diversi luoghi con altri movimenti sociali, femministi, urbani, contadini, non è nuova, ma sta assumendo forme e significati nuovi.
La storia e le convincenti realtà del movimento e delle comunità zapatiste avalla, direttamente o indirettamente, tutti questi processi di resistenza. Il Messico, quasi come un continente in sé, è attraversato da conflitti territoriali, ambientali, sociali, di ingiustizie, con innumerevoli casi di repressione aperta o occulta, e con centinaia di lotte e resistenze locali, molte con base nelle comunità indigene e contadine. Le testimonianze e le denunce del Congresso Nazionale Indigeno riflettono molti di questi. La decisione di formare un Consiglio Indigeno di Governo e contrapporre una candidata donna e indigena ai discorsi elettorali è un altro modo per presentare, invitando molti altri movimenti, queste realtà, ferite, resistenze, indignazioni e costruzioni.
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Pubblicato su Desinformémonos con il titolo De Dakota a la Patagonia, rebeldía que no cesa
Traduzione per Comune di Daniela Cavallo


martedì 24 gennaio 2017

ricordo di Mark Baumer (tempi impossibili per i sognatori)

Mark Baumer attraversava gli Usa a piedi (nudi) per smuovere le coscienze sui cambiamenti climatici.
qui sotto il video del suo centesimo giorno di camminata, il giorno dopo è stato ammazzato da un'automobile (da qui




qui il suo diario di viaggio

qui il canale youtube dove postava i video del viaggio

mi ricorda il viaggio di Pippa Bacca (qui)

e il viaggio di Christopher Supertramp Mccandless (qui)


lunedì 23 gennaio 2017

gioventù bruciandosi e perdendosi

un articolo davvero interessante, leggerlo per credere - francesco



Il 17% degli studenti delle scuole secondarie superiori è frequent player, ha giocato, cioè, una volta a settimana o anche più spesso. Tuttavia, il gioco è nella maggior parte dei casi un passatempo occasionale e ha un impatto limitato sulla vita quotidiana: l’11% degli studenti gioca con cadenza mensile, un altro 21% gioca più raramente; per il 72% dei giocatori la spesa media settimanale è inferiore a 3 euro e il 62% degli studenti (il 41% di chi gioca) non spenderebbe nulla in giochi davanti a un’inaspettata disponibilità di 100 euro.

L’IDENTIKIT DEL GIOVANE GIOCATORE D'AZZARDO
La propensione al gioco non è uniforme e varia in modo marcato per tipologia di gioco, genere e contesto sociale e familiare degli studenti. Vi sono alcuni fattori che incidono sulla propensione al gioco d’azzardo: innanzitutto il genere. L’incidenza del gioco d’azzardo è sensibilmente maggiore tra i ragazzi (59% rispetto al 38% delle ragazze). Altri fattori incisivi sono: area geografica, età, tipo di scuola frequentata e background familiare. La propensione al gioco è maggiore al Sud-Isole e al Centro rispetto al Nord (rispettivamente il 53% e il 54% dei giovani gioca vs il 42% al Nord), per i maggiorenni (53% contro il 47% dei minorenni), negli istituti tecnici e professionali (rispettivamente 58% e 52% vs 42% dei licei) e nelle famiglie in cui vi è un’abitudine al gioco (64% vs 9% in famiglie non giocatrici).
 
L’interesse per il gioco d’azzardo è spesso legato alle competenze necessarie a valutare le probabilità della possibile vincita. La propensione al gioco cambia - ad esempio - in relazione al rendimento scolastico in matematica: la quota di giocatori raggiunge il 51% tra chi ha un rendimento insufficiente, mentre è pari al 46% tra chi ha votazione superiore a 8 decimi. Anche il possesso di specifiche competenze probabilistiche è un fattore predittivo: la quota di giocatori sale al 55% tra chi non è in grado di risolvere semplici quesiti probabilistici (mentre la quota di giocatori tra chi ha competenze in merito diminuisce - 46%).
Anche la connessione tra gioco e stili di consumo è rilevante: la quota di giocatori sale nel caso di consumo frequente di energy drink (63%), super-alcolici (60%) e sigarette (57%). Dalla ricerca Young Millennials Monitor Nomisma emerge quindi un gruppo di giocatori che ha un rapporto problematico con il gioco d’azzardo, causa di riflessi negativi sulla vita quotidiana e sulle relazioni familiari: il 36% dei giovani giocatori ha nascosto o ridimensionato le proprie abitudini di gioco ai genitori, il 4% ha derogato impegni scolastici per giocare, mentre il gioco ha causato discussioni con familiari/amici o problemi a scuola nel 5% dei giocatori.
 
COME INDIVIDUARE I GIOCATORI PROBLEMATICI
Young Millennials Monitor Nomisma in collaborazione con l’Università di Bologna ha adottato uno strumento di screening riconosciuto a livello internazionale (il South Oaks Gambling Screen – Revised For Adolescents, SOGS-RA) che identifica la presenza di eventuali comportamenti di gioco problematici che producono effetti negativi tanto sulla sfera psico-emotiva (ansia, agitazione, perdita del controllo), quanto su quella delle relazioni (familiari, amicali e scolastiche).
 
L’indicatore SOGS-RA individua nel 5% degli studenti italiani la quota di ragazzi con un rapporto problematico con il gioco d’azzardo. Un ulteriore 9%, inoltre, può essere considerato a rischio rispetto alla probabilità di sviluppare comportamenti di gioco problematici. Per contro, il 33% degli studenti, pur giocando, non evidenzia alcuna problematicità ed ha un rapporto con il gioco che non appare disfunzionale. L’individuazione delle principali caratteristiche dei giocatori problematici è di estrema importanza per determinare non solo chi necessita di specifici interventi di aiuto e supporto, ma anche per identificare i potenziali fattori di rischio correlati con il rischio di sviluppare un rapporto problematico con il gioco.

L’indagine conferma alcuni risultati emersi in altre recenti ricerche: l’incidenza di giocatori con approccio problematico è più alta in alcune regioni meridionali e tra la componente maschile (14% dei giocatori) rispetto a quella femminile (6% delle giocatrici).
Il conseguimento della maggiore età, invece, non appare un elemento significativo…

...GIOCO D'AZZARDO E COMPORTAMENTI DEVIANTI
Una cruciale dimensione aggiuntiva, è la condizione di malessere, che l’indagine individua attraverso metodi diretti che indiretti.
Tra gli adolescenti, c’è un forte consumo di superalcolici (il 39% ne ha fatto uso nell’ultimo mese e il 17% li ha assunti almeno una volta alla settimana) e di energy drinks. Il 14% ha usato stupefacenti (il 9% in maniera continuativa).
Anche il dato sull’uso dei farmaci fornisce utili informazioni sullo stato emotivo degli adolescenti: la metà ha utilizzato farmaci almeno 1 volta nell’ultimo mese, soprattutto per ragioni che non coincidono con malattie da trattare in maniera intensiva (es. mal di testa, disturbi digestivi, mancanza di energia, ansia): questi comportamenti possono essere indice di uso inappropriato dal punto di vista clinico e di un più generale stato di malessere dal punto di vista socio-sanitario.
La percezione di malessere - misurata dall’indicatore internazionale KIDSCREEN - riguarda il 21% dei giovani e si associa sia all’uso di farmaci sia al gioco problematico. Quando il malessere viene definito da una combinazione di percezione diretta e uso di farmaci legati ad esso è maggiormente predittivo di gioco problematico.

domenica 22 gennaio 2017

Simona e quella voglia di viaggiare

(di Vittoria Iacovella)

L’ennesima valigia si chiude, questa volta per l’India: il rossetto preferito, la canotta “sì mamma”, la maglietta con il mandala della raccolta fondi, i pantaloni facili da indossare, il cuscino anatomico, il motorino per la sedia a rotelle così piccolo da entrare nella cappelliera dell’aereo.  Simona è malata di sclerosi multipla primaria progressiva a evoluzione rapida, ha 42 anni. Dal 2012 a oggi ha perso l’uso delle gambe e ora anche quello delle braccia. “All’inizio è stata dura, sono rimasta un anno chiusa in casa, Roma è una città impossibile per un disabile, poi ho reagito, ho cercato nuovi strumenti, ho imparato a chiedere aiuto a chiunque per strada e ho ricominciato anche a viaggiare”.
Incontriamo Simona accanto al Vaticano. Mentre attraversa la strada, una ruota si incastra tra i sanpietrini, un autista irritato suona il clacson, un passante accorre a spingerla.
Condividi Viaggiare come stile di vita. Prima di ammalarsi lavorava come tour leader. Dopo la laurea in Belle Arti il trasferimento a Londra, poi Danimarca, Svezia, New York, Chicago, Germania. Inarrestabile era, inarrestabile è rimasta anche quando ha cominciato a manifestarsi la malattia. “Mi sentivo come ubriaca, spesso mi si addormentavano le gambe, i medici ipotizzarono fosse lo stress ma poi è arrivata la mazzata. In ospedale mi dicono che non ci sono cure”. Appena scoperta la malattia, Simona parte per il Brasile, foresta Amazzonica. “Non ho detto a nessuno cosa avevo, spesso inciampavo, perdevo le scarpe. Peggioravo ogni giorno, ma rimanere a casa a piangere mi faceva solo stare peggio. In viaggio dormivamo anche all’aperto, sulle amache nella natura incontaminata”. Poi è stata la volta di Miami e dell’Islanda.
Tra pochi giorni partirà per Nuova Delhi grazie a una campagna di crowfounding . “Per viaggiare non ci vogliono tanti soldi ma molta fantasia. L’India, poi, è un Paese che ti sbatte in faccia tanta povertà ma la gente ride e affronta la vita in modo spirituale: voglio assorbire la loro forza per affrontare questo mio mostro”. Grazie a CittadinanzAttiva è riuscita a trovare una serie di sponsor per il viaggio. “Risalirò la parte est dell’India fino a Calcutta muovendomi in treno. Non ho un tragitto preciso, mi lascerò guidare dagli eventi e dalle persone che incontrerò. Infine, mi sposterò a Varanasi e Kakinada e, se tutto andrà bene, la mia ultima tappa sarà ad Almora, la città ai piedi dell’Himalaya. Voglio abbattere ogni barriera, dimostrare che si può».
Per arrivare fino alla montagna più alta del mondo, Simona è riuscita ad ottenere una sedia a rotelle elettrica ultra leggera e maneggevole. “Pensa che non la concedono in tutte le regioni. Nel Lazio me l’hanno accordata ma ho dovuto iscrivermi all’Università per dimostrare che avrei avuto bisogno di uscire. Una sedia così costa sui tremila euro, io ho una pensione di invalidità di 300 euro e una di 500 euro per un accompagnatore , è ovvio che costa molto di più un badante e non posso permettermelo. Mia madre mi aiuta, ma da quando mi sono ammalata è caduta in depressione.  Ho anche pensato di andare in un campo profughi e chiedere a qualcuno se per così poco se la sente di aiutarmi. Non posso permettermi un professionista”.
Mentre giriamo tra i marciapiedi di Roma, alla ricerca di quelli con una discesa e una salita percorribili, Simona si accorge di dover andare in bagno. “Il pannolino non lo uso, mi rifiuto, anche se questa città è inaccessibile, se è necessario chiedo aiuto, ecco ora per favore aiutami tu”. Quattro bar, nessuno accessibile in una zona di grande turismo e pellegrinaggi, il quinto finalmente ha un servizio per disabili, per poter entrare, però, bisogna scalare tre grossi gradini. E’ un’impresa. In bagno Simona chiede di essere sollevata in piedi, le gambe sono rigide, appoggia la fronte al muro,  apre la giacca, ogni movimento è faticosissimo, strizza gli occhi con aria di sfida, tira fuori una protesi a imbuto in silicone e ride. “Vedi, nulla mi ferma, arriverò anche sull’Himalaya”.

sabato 21 gennaio 2017

In America Latina l’estrazione illegale dell’oro rende più del narcotraffico – Marcello Rossi



L’immagine dominante della criminalità organizzata latinoamericana è stata per decenni quella del cartello della droga. Ma negli ultimi anni, per un numero crescente di gruppi di narcotrafficanti, di milizie paramilitari di destra e di ribelli di sinistra, la principale fonte di guadagno è rappresentata dalle miniere d’oro illegali.
Fino all’inizio di questo decennio, il legame tra l’attività mineraria illegale e i gruppi criminali non era considerato una questione di rilevanza nazionale. Il problema è giunto all’attenzione dell’opinione pubblica nel 2011, quando un rapporto del servizio di sicurezza colombiano ha segnalato al governo che il 50 per cento delle miniere del paese era illegale e molte di esse erano controllate da gruppi armati. Grazie alle indagini e alle denunce che ne sono seguite, l’opinione pubblica ha cominciato a capire quanto fosse esteso il business delle miniere illegali; oggi si ritiene che il suo valore sia superiore a quello del traffico di droga.
Secondo il World drug report pubblicato nel 2015 dall’Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), in Colombia i ricavi all’ingrosso dei cartelli della droga, tra cocaina ed eroina, ammontano a 1-1,5 miliardi di dollari l’anno, mentre quelli dei trafficanti di oro estratto illegalmente si aggirano tra 1,9 e 2,6 miliardi di dollari l’anno. In Perù la situazione è simile: il valore delle esportazioni di oro illegale, circa 2,6 miliardi di dollari l’anno, ora supera ampiamente quello del traffico di cocaina (1-1,5 miliardi l’anno).
Benché la produzione illegale sia difficile da quantificare, diverse stime, tra cui un recente rapporto di Giatoc (Global initiative against transnational organised crime, Iniziativa globale contro il crimine organizzato transnazionale), concordano sul fatto che la percentuale dell’attività mineraria illegale svolta in Sudamerica sia molto più alta di quella dell’attività mineraria illegale in altre parti del mondo. Per esempio, sia in Colombia che in Venezuela, due delle aree aurifere più ricche del mondo, quasi il 90 per cento dell’oro viene estratto in modo illecito, mentre in Ecuador questa percentuale è dell’80 per cento circa.
Secondo Livia Wagner, consulente di Giatoc per il settore privato e autrice del rapporto, la portata del problema è sconcertante. “È spaventoso andare in queste miniere illegali e vedere il loro impatto negativo sull’ambiente e sulle persone,” afferma.
Questa moderna corsa all’oro è stata alimentata principalmente dalla domanda crescente e dalla conseguente impennata dei prezzi negli ultimi 15 anni. In un’epoca segnata dallapolitica monetaria espansiva del mondo sviluppato e dalla perdita di fiducia nelle monete a corso forzoso come il dollaro statunitense, l’oro si è rivelato una delle opzioni migliori per creare riserve di valore e persino per generare ritorni sugli investimenti. Il prezzo dell’oro ha raggiunto il picco a ottobre del 2012, quando un chilo valeva 57mila dollari. Oggi, anche se i prezzi sono scesi notevolmente, un chilo d’oro costa ancora 37mila dollari contro, per esempio, i mille o duemila dollari al chilo della cocaina freebase all’ingrosso.
Il vero prezzo dell’oro
Benché sia stato estratto per secoli, l’oro è un bene estremamente raro sulla terra. Si stima che, nel corso della storia, siano state estratte dal suolo soltanto 161mila tonnellate d’oro – quanto basta per riempire a malapena due piscine olimpioniche. Il grosso è stato estratto negli ultimi cinquant’anni, e in questo periodo la produzione mondiale è raddoppiata, passando da circa 1.500 a quasi tremila tonnellate l’anno. Secondo il World gold council, quasi tre quarti dei giacimenti d’oro del pianeta sono esauriti, e le nuove scoperte sono rare.
Alcuni dei più grandi giacimenti d’oro rimasti si trovano in America Latina, dove perciò il minerale è un elemento cruciale di numerose economie nazionali. In molte aree di questa regione è l’unica fonte di sostentamento per gli abitanti privi di istruzione superiore.
Ma negli ultimi anni gran parte del suo valore è passato dalle mani dagli stati a quelle dei gruppi criminali che operano nei loro confini. L’aumento del prezzo dell’oro da una parte e, dall’altra, le sfide della “guerra alla droga” portata avanti dagli Stati Uniti, hanno spinto molti gruppi armati e terroristici verso la decisione più semplice: passare dal narcotraffico all’attività mineraria illegale. Poiché i siti ricchi d’oro si trovano di solito in zone isolate e di difficile accesso, per i cartelli è stato facile infiltrarsi con la complicità dei militari locali.
C’è un altro fattore chiave che ha reso così facile per i gruppi criminali latinoamericani appropriarsi dell’attività estrattiva: nella maggior parte dei paesi ricchi di giacimenti auriferi (come gli Stati Uniti, la Cina, il Sudafrica, l’Australia e il Canada) l’estrazione dell’oro è svolta da grandi multinazionali che utilizzano tecnologie avanzate e operano in miniere a larga scala. Ma in America Latina è un’attività soprattutto artigianale, a scala ridotta. Alcune piccole miniere sono esistite per decenni, echi delle frenesie risalenti al saccheggio perpetrato secoli fa dai conquistadores spagnoli in cerca di favolosi giacimenti d’oro.
Benché l’attività mineraria su scala ridotta e artigianale non sia di per sé illegale, in America Latina il settore è in larga parte informale e privo di regolamentazione, e perciò particolarmente esposto alle infiltrazioni criminali. Quasi ogni settimana spunta una nuova miniera. Nel 2014 si stimava che in Colombia fossero attive circa 17mila miniere (in cui lavoravano circa 50mila persone) prive di titoli e licenze ambientali, mentre in Brasile (all’undicesimo posto tra i produttori mondiali d’oro) soltanto nel bacino amazzonico operano illegalmente circa 75mila minatori. In Colombia le Farc (il gruppo guerrigliero di sinistra che ha appena firmato uno storico accordo di pace con il governo), hanno ottenuto più del 20 per cento dei loro finanziamenti attraverso l’estrazione illegale di oro, con il trentaquattresimo fronte del gruppo guerrigliero che guadagnava oltre un milione di dollari al mese.
L’estrazione illegale dell’oro è anche uno dei modi più semplici e redditizi per riciclare il denaro. La natura e le dimensioni del mercato, la forte dipendenza di quest’ultimo dai pagamenti in contanti, la possibilità di vendere e comprare l’oro in forma anonima, la difficoltà nel tracciare e verificare le transazioni: tutto ciò rende questa attività particolarmente attraente per i gruppi criminali organizzati, poiché fornisce un meccanismo per convertire il denaro sporco in un bene da reinvestire caratterizzato da stabilità, anonimato e facile commerciabilità.
Costi umani e ambientali
Oltre a finanziare le attività criminali, in America Latina l’estrazione illegale dell’oro ha avuto un pesante impatto ambientale. La regione possiede alcune delle zone più ricche di biodiversità del mondo, e molte di esse sono messe a rischio dall’attività mineraria illegale su scala ridotta, molto più distruttiva di quella delle grandi compagnie. Mentre queste ultime tendono a concentrarsi su aree con ricche vene aurifere sotterranee, le piccole attività illegali di solito si spostano rapidamente all’interno di vasti territori. Aprono grandi varchi nella giungla e passano al setaccio tonnellate di terreno per trovare qualche granello d’oro, lasciandosi alle spalle quello che sembra un paesaggio lunare.
Tra il 2001 e il 2013, soltanto per l’estrazione dell’oro su scala ridotta sono stati abbattuti circa 168mila ettari di foresta. Altre perdite significative si sono verificate nell’ecoregione della foresta umida della Guyana, nella foresta umida dell’Amazzonia sudoccidentale peruviana, nella foresta umida brasiliana di Tapajós-Xingú e nelle regioni colombiane di Urabá e della valle del fiume Magdalena. Secondo la Fao, tra il 2000 e il 2015 la Colombia ha perso oltre il 5 per cento delle proprie foreste.
L’anno scorso, un gruppo di ricerca della Carnegie institution for science di Washington ha pubblicato una valutazione sulla regione diMadre de Dios, nel bacino amazzonico del Perù sudorientale, utilizzando satelliti, aerei e ricercatori sul campo. Lo studio ha scoperto che l’estrazione illegale dell’oro distrugge ogni giorno dai cinque ai dieci ettari di foresta pluviale protetta. “Per noi è stato uno shock,” dice il coordinatore del progetto Greg Asner. “Siamo tutti abituati a considerare la deforestazione un problema serio. Ma questa è una rimozione totale dell’ecosistema oltre il livello del suolo.”
Inoltre, le attività estrattive in territori senza legge stanno inquinando pericolosamente fiumi e bacini idrici, con conseguenti rischi sanitari per le comunità vicine e lontane. Dopo che l’oro viene estratto, deve essere separato dal materiale in cui è incorporato. Nelle attività informali e illegali, l’oro grezzo polverizzato si unisce al mercurio per creare una miscela che viene poi bruciata dai lavoratori: in questo modo il mercurio evapora e resta solamente l’oro allo stato solido. Questo procedimento, spesso eseguito senza attrezzature di sicurezza, sta portando i livelli di mercurio in molti laghi e fiumi della regione a più di 34 volte il limite di sicurezza. Analizzando campioni di capelli, un’altra ricerca della Carnegie ha scoperto che il 78 per cento delle persone nella regione di Madre de Dios ha nel corpo il triplo della concentrazione di mercurio normale. In alcuni casi, più di 27 volte oltre il limite internazionale stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità.
A livello globale, l’estrazione artigianale dell’oro su scala ridotta è la prima causa di inquinamento da mercurio nei corsi d’acqua causato da attività umane (almeno mille tonnellate l’anno secondo le stime dell’Onu). Si ritiene che l’estrazione artigianale dell’oro su scala ridotta rilasci ogni anno circa 800 tonnellate di mercurio nei corsi d’acqua e nei terreni; soltanto nella regione di Madre de Dios, si stima che ogni anno siano scaricate nell’ambiente da 30 a 40 tonnellate di mercurio. Questa pratica avvelena il pesce e può causare problemi di salute permanenti agli esseri umani che vivono fino a quattrocento chilometri a valle. Il recupero di queste aree, spogliate di tutto lo strato superficiale del terreno e cariche di mercurio, secondo gli esperti potrebbe richiedere decine di anni.
Circa un terzo delle 45mila persone che lavorano nelle miniere d’oro boliviane è costituito da bambini
La proliferazione di attività minerarie artigianali in tutta l’America Latina sta comportando costi umani notevoli. Poiché le miniere si trovano generalmente in zone prive di vere e proprie autorità governative, i lavoratori sono estremamente esposti al lavoro forzato e alla servitù per debiti. Il lavoro in sé è sporco, pericoloso e difficile, e perciò poco attraente per chiunque, tranne che per i più disperati. Sfollati, minoranze e singoli individui privi di documenti di identità spesso lavorano nelle miniere per mancanza di altre opportunità.
Tutto ciò per quanto riguarda gli uomini. Le donne, a cui è vietato lavorare nel sottosuolo, sono invece oggetto di tratta e di sfruttamento sessuale. I responsabili delle attività minerarie criminali usano false offerte di lavoro che promettono alti salari per attirare le ragazze nelle città minerarie e costringerle a lavorare nei bordelli. Un esempio impressionante è La Rinconada, un centro minerario peruviano vicino al confine con la Bolivia. La polizia stima che oltre 4.500 ragazze siano state vittime di tratta finalizzata allo sfruttamento sessuale nei bar frequentati dai minatori.
Va poi ricordato che circa un terzo delle 45mila persone che lavorano nelle miniere d’oro boliviane è costituito da bambini. Alcuni anni fa, il difensore civico nazionale della Bolivia, Rolando Villena, ha affermato che nella regione mineraria di Potosí i bambini possono essere acquistatiper una cifra che va dai tre ai sette dollari.
Lo sfruttamento da parte dei responsabili delle attività minerarie illegali ha colpito anche le tribù locali. Nel 2012 ha fatto notizia il caso della tribù indigena yanomami, dopo che alcuni suoi membri sono stati trovati con dei numeri tatuati sulle spalle, come schiavi.
La debole risposta del governo
Negli ultimi due anni, i governi locali hanno aumentato moltissimo il numero delle operazioni volte a sradicare le miniere illegali. Le forze armate peruviane, colombiane e brasiliane hanno raso al suolo decine di campi minerari, e le autorità hanno limitato la vendita di gasolio e benzina nelle zone a rischio, nel tentativo di ostacolare le attività.
Tuttavia, la forza dei gruppi criminali e la loro determinazione nel condizionare i funzionari locali attraverso la corruzione o l’intimidazione rendono difficile questa battaglia. Inoltre, quando vengono ostacolate in un determinato luogo, le attività di estrazione selvaggia si trasferiscono rapidamente in altre aree difficilmente raggiungibili. Concretamente, finora la maggior parte degli sforzi per stroncare l’attività mineraria illegale ha dato risultati limitati.
L’estrazione dell’oro presenta un altro elemento chiave: i minatori illegali possono guadagnare dei 30 ai 75 dollari al giorno. Non è abbastanza per diventare ricchi, ma è molto più di quanto un adulto privo di istruzione potrebbe guadagnare facendo il contadino sugli altopiani circostanti. Alcuni politici locali hanno affermato che in realtà i governi non dovrebbero puntare alla chiusura delle miniere illegali, perché creano posti di lavoro. In Perù, per esempio, alcuni politici hanno dichiarato pubblicamente che si dovrebbe permettere ai minatori di guadagnarsi da vivere, sostenendo che tutti hanno il “diritto di sbarcare il lunario.”
“Questa battaglia non ha alcun senso”, dice Luis Pardo, direttore del think tank Colombia punto medio. Ma Pardo ha una soluzione: il governo dovrebbe dare la caccia a chi sta dietro alle attività estrattive, anziché ai minatori o ai siti in cui avvengono le operazioni.
“Puoi bombardare una ruspa e mandare in galera il ragazzo che la faceva funzionare, ma il vero proprietario dei macchinari vive in una grande città e ha soldi a sufficienza per comprare un’altra ruspa nel giro di poche settimane,” afferma Pardo. “Perciò, quando il governo deciderà davvero di stroncare le attività minerarie illegali, dovrà dare la caccia a chi investe in queste attività”.
(Traduzione di Cristina Biasini)

lunedì 16 gennaio 2017

Bayelsa, Nigeria: 1000 riversamenti di petrolio l'anno, accuse infinite all'ENI - Maria Rita D'Orsogna,

"AGIP has continued to pollute a canal within its facility in 
Brass despite several representations by the community and state government" 

Attorney-General e Commissioner for Justice
Bayelsa State Government, Nigeria


“We cannot drink water, we cannot bathe in the river, 
our aquatic life such as fish and animals are dying."

Lettera aperta dei residenti di Bayelsa sull'ennesimo episodio
 di inquinamento AGIP nelle loro comunita'


Filippo Cotalinni, Media Relations Manager at ENI, 
has yet to respond to a request for comments on the incident.



Qualche mese fa il Bayelsa State Government ha rilasciato i dati per l'inquinamento da petrolio nell'anno 2014.

Un totale di 1,000 sversamenti di greggio nel paese in un solo anno.
Zero rimedi.  Zero rimborsi.

Secondo l'Attorney-General e Commissioner for Justice, Kemeasuode Wodu, nessuna delle grandi compagnie ha fatto molto per  migliorare le cose, che la situazione in Bayelsa e' drammatica a causa dei signori del petrolio.

Anche l'ENI/AGIP e' chiamata in causa.

Nel 2015 scoppio' l'oleodotto dell'AGIP presso Clough Creek, Azuzuama.

Morirono in 14 fra cui un membro dello staff del Ministero dell'Ambiente di Bayelsa.

La nostra beneamata, secondo Wodu, evacuo' i corpi dei feriti e dei morti in fretta in furia a Port Harcourt nel vicino Rivers State, per cercare di insabbiare le indagini. Non hanno mai cooperato con le autorita' per far si che ci fosse una investigazione appropriata sull'incidente.

E poi ancora Wodu ricordo' l'enorme sversamento da un'impianto a mare dell'AGIP on localita' Brass il 27 Novembre 2010, che causo' enormi danni all'ecosistema.

Neanche qui gli elegante eredi di Enrico Mattei fecero niente. Niente fecero loro, niente fecero gli enti nigeriani. Anzi, l'AGIP continua a inquinare i canali marini, nonostante le proteste della comunita' e delllo stato di Bayelsa.


Passa neanche un mese, e il 2 Novembre 2016 i residenti di Ekole Creek sempre dello stato di Bayelsa riportano un "massive oil leak" dell'AGIP di Nigeria.

Distrutta la pesca distrutti i campi

Secondo i residenti, il petrolio ha coperto uno strato di circa 5 centimetri sulla superficie dell'acqua dei loro fiumi. Il copione e' sempre lo stesso, pesci morti, spaventati, ed impossibile da catturare sani o da mangiare. Acqua contaminata che non si puo' piu' usare ne per bere, ne par farsi il bagno.

In una lettera aperta, i residenti scrivono

“We cannot drink water, we cannot bathe in the river, our aquatic life such as fish and animals are dying."

Il rappresentante ENI,  Filippo Cotalinni, il loro Media Relations Manager non ha risposto alle richieste di speigazioni o di commenti da parte della stampa di Nigeria.


Siamo nella regione dell'Ogbia dove la Shell rilascia petorlio da un oleodotto nel piu' importante fiume della zona, l'Ekoli. Sono morti in due. Perche' e' successo questo? Secondo Sodaguwa Festus-Omoni, rappresentante dell'area, a causa della scarsa manutenzione di oloeodtto vecchi e corrosi.

Era vecchio di 40 anni. Avrebbe dovuto essere rimpiazzato dopo venti. 
Cioe' venti anni fa. 

Sono dieci anni che accadono queste cose, a Ogbia come a Bayelsa, da parte della Shell come da parte dell'ENI e nessuno fa niente. 

Sodaguwa Festus-Omoni dice chiaramente che e' la politica di queste multinazionali di sperare che il silenzio conservi lo status quo. Cioe' qui non si preoccupano nemmeno di dichiarare il tuttapposto, non dicono proprio niente:

“I think it is a practice of these oil majors to cover up. They take it for granted that the people are so ignorant that it will not go anywhere."

Ovviamente fa sempre comodo parlare invece di vandali e di attacchi da parte dei ribelli.

Ma secondo Sodaguwa Festus-Omoni tutto questo disastro di cui non parla nessuno ne in Nigeria ne tantomeno in Europa o negli USA, e' solamente a causa della negligenza da parte della Shell.

Con la scusa del vandalismo, i vecchi oleodotti non vengono controllati, riparati o sostituiti, e .. voila',
petrolio dappertutto. E silenzio.

Anche qui la storia e' la stessa, di fiume essenzialemente distrutto, pesca e usi potabili non piu' possibili, gente con eczemi a causa degli idrocarburi dispersi nel mare.

La Shell dice di ora stare facendo delle indagini.

E infine, il 2017 si apre con la stessa Royal Dutch Shell che ha dovuto chiudere l'oleodotto nigeriano Trans Niger oil pipeline a causa di un incendio in localita' Kpor, in Ogoniland.

Passano qui circa 180,000 barili di petorlio al giorno, greggio che arriva fino al Bonny Export Terminal nel Niger Delta.

La produzione di petrolio dalla Nigeria continua a crollare a causa dei ribelli e di attacchi alle infrastrutture che si sono asusseguiti nel 2016. Ad Agosto 2016 il minimo storico delle estrazioni con circa 1.39 milioni di barili al mese, il valore piu' basso dal 1988.

La Shell non ha avuto alcun commento.

Tutto questo accade lontano.

Ma quel petrolio lo usiamo noi.

L'ENI e' al 30% di proprieta' statale.

Siamo noi.


il bel Danubio blu










domenica 15 gennaio 2017

persone che restano umane

Questo è il momento di alzarsi in piedi - Marco Arturi

L’uomo che vedete nella foto qui sopra si chiama Cedric Herrou e vive a Breil sur Roya, un villaggio al confine con l’Italia, più precisamente con l’entroterra di Ventimiglia (qui l’archivio delle notizie sulle lotta con i migranti nella cittadina della provincia di Imperia). È un contadino ed è sotto processo per avere dato aiuto e ospitalità nei mesi scorsi ad alcune centinaia di profughi (molti dei quali bambini e bambine) costretti, visto l’ormai celebre blocco di Ventimiglia, a tentare clandestinamente il passaggio in cerca di una vita migliore.
È accusato di favoreggiamento e rischia cinque anni di carcere e una sanzione economica pesante. Qualche giorno fa di fronte a un giudice di Nizza ha rivendicato le proprie azioni affermando che è giusto trasgredire le leggi davanti alla disperazione e che continuerà perché “questo è il momento di alzarsi in piedi”.
La notizia, che ha cominciato a fare il giro di mezzo mondo – è comparsa anche sulle pagine del New york times (qui articolo e video, Farmer on Trial Defends Smuggling Migrants: ‘I Am a Frenchman’) – è ignorata dai media italiani per ragioni che sono davvero difficili da spiegare se non mettendo in dubbio la libertà, l’indipendenza e la buona fede della stampa in questo paese, forse condizionata o forse distratta da questioni come il maltempo, le stronzate di Saviano oppure le liti tra Partito democratico e grillini. Sia come sia, pubblichiamo questa notizia per chiedervi di seguire e diffondere una vicenda esemplare in un momento nel quale i migranti vengono dipinti come un’emergenza nazionale e continentale con il chiaro fine di distogliere l’attenzione da altre questioni.
Cedric Herrou non va lasciato solo (il giudizio sul caso di Herrou è previsto per il 10 febbraio), come non vanno lasciati soli i migranti che hanno l’unica colpa di essere nati dalla parte sbagliata del mondo: o stiamo con loro o stiamo con chi è impegnato a diffondere il terrore, l’egoismo e l’intolleranza. E allora sarà troppo comodo dire “non è colpa mia”.


Salvare di nascosto i rifugiati - Phil Wilmot

Certo, la Danimarca ha una legge sul sequestro dei beni ai migranti, ha diversi gruppi i neonazisti e un insopportabile Partito del Popolo danese. Tuttavia, lontano dalle attenzioni dei “grandi” media migliaia di persone comuni negli ultimi mesi hanno cominciato a disobbedire alle leggi e a fornire ai rifugiati letto caldo, via clandestine per raggiungere la Svezia, indumenti e spesso anche chiavi per una casa. Tutto in modo informale e spontaneo. Si tratta in realtà di strumenti ritagliati dai ricordi della II Guerra mondiale, quando migliaia i danesi portarono di nascosto alla salvezza centinaia di famiglie ebree.
Martedì 18 ottobre, circa cento danesi, vecchi e giovani, stavano in piedi davanti al tribunale cittadino al freddo vento che arrivava dal mare, per mostrare la loro solidarietà a quattro attivistisospettati di avere illegalmente aiutato dei rifugiati ad attraversare il mare dalla Danimarca alla Svezia.
Mentre soltanto due degli accusati sono cittadini danesi, tutti sono membri diMedMenneskeSmuglerne, o “Coloro che fanno entrare di nascosto il loro amico” – un “prodotto” dell’iniziativa con una base più ampia «Benvenuti in Danimarca» che accoglie i migranti e i rifugiati in questo Paese. L’anno scorso, oltre un milione di migranti provenienti da Siria, Afghanistan, Eritrea e da altre regioni instabili, hanno affrontato i rischi di un esodo in Danimarca, e in altre parti di Europa. Molti sono morti durante il viaggio o sono finiti in campi profughi per periodi prolungati. Questa ondata migratoria si correla direttamente alla crescente xenofobia e allo spostamento a destra in atto in molti Paesi europei, compresa la Danimarca.
“Praticamente tutte le organizzazioni di sinistra in Europa hanno trascurato di considerare il flusso dei rifugiati nelle loro agende” ha detto Mimoza Murato, una delle attiviste non-danesi che quel giorno affrontava accuse penali. “Avremmo dovuto essere preparati perché conosciamo il panorama politico”.
Mentre gli accusatori danesi forse non erano d’accordo, il loro caso alla fine è stato rigettato per mancanza di prove sostanziali. I quattro membri di Med Menneske Smuglerne sono stati accolti da applausi trionfali dalle loro coorti di «Benvenuti in Danimarca», fuori dall’edificio del tribunale.
Fornire ospitalità per chi cerca asilo
Quando Trime Simmel, una giovane attivista danese di Aarhus, ha visto alla televisione le masse di migranti che si riversavano nella penisola danese dello Jutland, attraversando il confine tedesco, nel settembre 2015, si è messa in contatto con i suoi amici per capire che cosa potevano fare per provvedere alle necessità elementari per i nuovi arrivati. I migranti venivano scortati dai poliziotti nello Jutaland e quindi i giovani all’inizio hanno programmato di aspettare su un cavalcavia dove potevano lasciar cadere dei pacchi pieni di indumenti caldi, di prodotti per l’igiene e altri articoli essenziali. I migranti, tuttavia, avevano il sospetto di poter essere scortati dalle autorità statali e si sono sparsi nelle foreste, e questo ha reso molto più difficile rintracciarli.
“I giovani residenti nello Jutland telefonavano ai loro genitori per riunire quattro o cinque macchine, in modo che le scarpe e altri articoli simili potessero essere distribuiti – ha spiegato Simmel – Quando gli autisti incontravano i migranti, gli offrivano i pacchi di generi alimentari e chiedevano loro dove volevano andare all’interno della Danimarca”.
Un buon numero di rifugiati decideva di andare a Copenhagen, appena al di là del mare dalla Svezia, dove alcuni avevano già dei familiari.
“Molte persone apolitiche si facevano avanti per aiutare a guidare coloro che camminavano lungo i binari – ha detto Simmel – Molte di queste persone avevano contesti familiari come immigrati e provavano comprensione, ma di solito non erano attivi rispetto a problemi politici”. Una rete di ospitalità informale nota come Venligboerne, che comprende oltre 150.000 membri in tutta la Danimarca, ha contribuito a facilitare gli sforzi dei volontari.
Attivisti come Simmel sentivano che questa crisi offriva l’occasione di allontanarsi dai tipici doveri di un attivista di incontri e dimostrazioni, e di fornire un servizio diretto. L’afflusso dei rifugiati dava uno strattone alle loro coscienze.
“Proprio come mio nonno, dovetti decidere da quale parte della storia volevo stare – ha detto Simmel – I politici ci demonizzavano perché mettiamo fotografie su Facebook di migranti che venivano aiutati, ma anche i danesi durante la II Guerra Mondiale furono demonizzati e considerati trasgressori della legge [perché aiutavano gli ebrei]”.
Far rivivere una tradizione di far entrare di nascosto i rifugiati
La Danimarca è stato l’unico Paese in Europa che ha ridotto le dimensioni delle sue forze armate all’inizio della II Guerra Mondiale, e tuttavia è stata senza dubbio tra le più operative a opporsi all’occupazione tedesca. Poco dopo un’invasione notturna della Danimarca, il 9 aprile 1940, lo studente diciassettenne di Slagelse, Arne Sejr, divenne frustrato a causa della passività danese verso il dominio straniero. Tornò a casa da scuola e usò la sua macchina da scrivere per stampare 25 copie dei suoi “Dieci Comandamenti per i Danesi”. L’ultimo di questi diceva: “Proteggerai chiunque venga inseguito dai tedeschi.”
I giovani danesi componevano in modo nascosto dei volantini di questo tipo nel corso dell’occupazione tedesca. Gruppi come l’Associazione della Gioventù Danese guidato dal professore di teologia Hal Koch e il Club Churchill ad Alborg sabotavano regolarmente le autorità tedesche, a volte distruggendo i veicoli che trasportavano armi e munizioni. Le comunità cristiane facevano circolare messaggi contro l’occupazione tedesca per mezzo delle loro prediche. Questo provocò l’uccisione di Kaj Munk, che era tra gli ecclesiastici più espliciti che sostenevano l’autogoverno danese.
Fra tutte le tattiche impiegate, i danesi dell’epoca della II Guerra Mondiale sono forse ricordati soprattutto per aver efficacemente fatto entrare di nascosto, attraverso il confine, in Svezia i rifugiati ebrei. Nel corso di pochi mesi, nel 1943, 7.220 ebrei – quasi l’intera popolazione ebraica della Danimarca – riuscirono a scappare in Svezia con l’aiuto dei loro compagni danesi. Soltanto 472 furono catturati all’inizio di ottobre durante i raid dei nazisti.
“All’inizio, usavamo questa storia del servizio diretto ai rifugiato, come nostra motivazione” ha detto l’organizzatore di «Benvenuti in Danimarca», Søren Warburg. Fornire un letto caldo, una via clandestina per la Svezia, indumenti caldi e una chiave per una casa: queste sono tattiche letteralmente ritagliate dai ricordi della II Guerra mondiale e appiccicate all’attuale contesto della migrazione in Europa. Anche mentre l’attuale governo della Danimarca si è reso intenzionalmente sgradevole ai richiedenti asilo politico, i danesi stessi – rafforzati da una storia di sindacati e di organizzazione di comunità – stanno fornendo i servizi che i loro rappresentanti eletti nello stato sociale, si rifiutano di concedere.
Riflettendo sull’aiuto danese ai rifugiati ebrei, la portavoce di «Benvenuti in Danimarca», Line Søgaard ha detto: “Avevamo la sensazione che qualcosa di storico stava accadendo di nuovo”. Secondo lei, cinquecento danesi hanno inizialmente risposto all’invito all’azione e hanno formato gruppi di lavoro, che si focalizzano sia su una campagna politica che sui servizi diretti”.
Navigare in solidarietà
Dato che Copenhagen è situata circa venti miglia al di là dello Stretto di Öresund da Malmö, in Svezia, i membri della comunità che voleva aiutare i rifugiati a cercare i membri delle loro famiglie, o degli amici, decisero di agire. Raccolsero una lista di quasi cento nomi di proprietari di barche e organizzarono il trasporto dei migranti come pubblico atto di sfida.
“All’inizio non pensavamo che nessuno sarebbe stato perseguito – ha detto Søgaard – Ci sono veri trafficanti di esseri umani che potrebbero essere perseguiti, ma invece i capi dicono che noi siamo quelli che tradiscono la nazione”.
Salire di nuovo sulla barca non è una cosa facile per i rifugiati che sono sopravvissuti all’attraversamento del Mar Mediterraneo. “Molti dei migranti che abbiamo aiutato a raggiungere la Svezia di solito ci mandavano messaggi audio dopo che erano sollevati per il fatto di aver raggiunto i membri della loro famiglia” ha detto Søgaard.
“C’era questa sensazione che stessimo continuando l’eredità della II Guerra mondiale di assistenza ai rifugiati, che avevano cominciato alcuni membri della nostra famiglia. Eravamo rimasti attaccati al nostro senso della morale e dell’etica anche quando la legge contro l’uscita clandestina dei migranti è sbagliata”.
Attraversare il mare non era, tuttavia, l’unico modo di raggiungere la Svezia. Calle Vangstrup, uno degli altri quattro attivisti che affrontano accuse penali, lavorava con i membri del suo movimento per fornire assistenza ventiquattro ore su ventiquattro alle stazioni di Rødby, Padborg e a quella centrale, tre importanti punti di incontro da dove i migranti che di solito non parlano danese o che non sono in grado di capire il sistema dei trasporti, potrebbero partire per la Svezia in treno.
“C’erano gruppi di persone che erano disponibili ad aiutare secondo la legge e quelli che volevano infrangerla (che proibisce l’assistenza durante il trasporto al di là del confine)” ha detto Vangstrup. “Fortunatamente, gli svedesi sono più aperti in questi giorni, al contrario che durante la II Guerra mondiale quando spesso rimandavano indietro gli ebrei fatti entrare di nascosto e mettendoli di nuovo a rischio”.
Vangstrup crede che i membri dei gruppi nazisti danesi e il Partito del Popolo danese, populista, sono stati quelli a vedere Med Menneske Smuglerne nel notiziario e che li hanno denunciati alla polizia. “Come socialista e come essere umano penso che non dovrei godere di così tanti diritti quando i rifugiati non ne hanno nessuno” ha detto Vangstrup.
Anche se la polizia ha compiuto indagini che hanno provocato accuse contro Vangstrup e i suoi amici attivisti, la polizia non sempre ha perpetuato quella xenofobia che caratterizza la crescente ideologia politica di destra della Danimarca.
Durante la II Guerra mondiale, migliaia di poliziotti furono arrestati dalle autorità tedesche: la polizia danese sviluppò la reputazione di essere inaffidabile e spesso deliberatamente trascurava gli atti di sabotaggio compiuti dai giovani danesi contro gli occupanti. Questo tipo di umanità tra la polizia è riemersa durante il recente flusso di migranti in Danimarca. “Molte persone chiedevano alla polizia che cosa potevano fare per aiutare i rifugiati” ha detto Line Søgaard. “La polizia non sapeva neanche in che modo consigliare le persone, e quindi alcuni guardavano dall’altra parte quando i trasportatori continuavano il loro lavoro”.
Dopo che i quattro attivisti accusati di traffico di esseri umani sono stati assolti dalle accuse, hanno parlato a una conferenza stampa, incoraggiando chi aiuta direttamente i migranti e i rifugiati, a continuare il loro lavoro.
“Non siamo neanche un gruppo estremista” ha detto Line Søgaard. “Diciamo soltanto le stesse cose che dicono i gruppi come l’Onu [circa la crisi dei migranti]. Tuttavia c’è ancora opposizione ai nostri sforzi”. Alla fine della giornata, i cosiddetti trafficanti di esseri umani stavano proprio aiutando altre persone che avevano bisogno di un passaggio dovunque andassero.
“Tutti abbiamo diritto alla sicurezza e a un posto sicuro per noi e i nostri figli – ha continuato – Non possiamo soltanto chiudere i confini e vivere una vita confortevole”