sabato 7 gennaio 2017

Per le vittime del colera ad Haiti le scuse dell’Onu non bastano - Marina Forti


 

Nel mondo è passato inosservato il discorso pronunciato il 1 dicembre dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, ormai alla fine del suo mandato. Non così a Haiti: quel giorno un centinaio di persone si è raccolto davanti alla sede di una piccola organizzazione per i diritti umani per ascoltarlo in diretta streaming, e molti hanno festeggiato. Quello che hanno sentito era un raro discorso di scuse per l’epidemia di colera scoppiata nell’isola caraibica nel 2010.
“Non abbiamo fatto abbastanza riguardo al colera e alla sua diffusione a Haiti”, ha detto Ban Ki-moon davanti all’assemblea generale dell’Onu, parlando prima in creolo haitiano, poi in francese e infine in inglese. “Siamo profondamente dispiaciuti del nostro ruolo”, ha affermato.
Per la prima volta l’Onu, per bocca del suo massimo rappresentante, ammette di aver avuto un ruolo nell’epidemia che ha ucciso quasi diecimila haitiani in pochi anni (ma forse sono molti di più), e questa è in sé una notizia: per ben sei anni l’Onu aveva negato ogni responsabilità. Ban Ki-moon ha voluto pronunciare queste scuse prima di concludere il suo mandato, come per ripulire la sua reputazione (dal primo gennaio è formalmente insediato il suo successore, il portoghese Antonio Guterres, già alto commissario dell’Onu per i profughi). Nel suo discorso ha però sorvolato su chi o cosa abbia provocato quell’epidemia. Eppure a Haiti, uno dei paesi più poveri dei Caraibi, il colera è arrivato proprio con le Nazioni Unite.
Sul momento nessuno capì cosa l’aveva ucciso, e tutti continuarono a lavarsi i denti e a fare il bucato nel fiumiciattolo contaminato
I fatti sono ormai accertati. Il primo caso di colera a Haiti si è manifestato nell’ottobre del 2010 presso Mirebalais, sulle colline centrali, in una borgata vicina all’accampamento che ospitava 454 caschi blu appena arrivati dal Nepal. Haiti stava cercando di riprendersi dal disastroso terremoto di alcuni mesi prima, e la già debole infrastruttura sanitaria era al collasso. Dall’accampamento dell’Onu l’acqua di scarico defluiva nel vicino fiume Meille, che l’intera borgata usava per lavarsi.
Un giorno un uomo di 38 anni è stato colto da un attacco di diarrea fulminante, e nel giro di poche ore è morto. Sul momento nessuno capì cosa l’aveva ucciso, e tutti continuarono a lavarsi i denti e a fare il bucato nel fiumiciattolo contaminato. In Nepal allora era in corso un episodio di colera, che del resto è endemico nel paese himalayano: ma questo gli abitanti delle colline centrali di Haiti non lo potevano sapere. Gli operatori sanitari sanno che il contagio del colera passa attraverso le feci e l’acqua, ma i caschi blu non devono averci pensato.
Il contagio è stato rapido e virulento. Nel giro di 17 mesi oltre mezzo milione di haitiani si sono ammalati e oltre settemila sono morti di colera. Passata la fase acuta dell’epidemia la mortalità è calata; il colera però non è mai stato debellato e il conto ufficiale si attesta ora su 9.200 morti. Su una popolazione totale di dieci milioni di persone è impressionante. E poi tutto lascia pensare che il bilancio sia più alto. I conteggi ufficiali si basano sui registri degli ospedali pubblici, ma molte vittime non ci sono mai arrivate. In seguito Medici senza frontiere ha rifatto i calcoli e suggerisce che almeno per i primi sei mesi dell’epidemia il conto dei morti sia da moltiplicare per tre (lo studio di Msf è stato pubblicato nel marzo del 2016 sul giornale del Center for disease control and prevention degli Stati Uniti, considerato tra i massimi centri di controllo delle malattie infettive).
Amara ironia. Haiti è passata negli ultimi vent’anni attraverso rivolgimenti politici violenti e disastri più o meno naturali, sconta una devastazione ecologica senza pari e una povertà schiacciante. Già prima del terremoto solo una piccola parte della popolazione aveva accesso ad acqua corrente e fognature. Ma almeno un flagello era assente: da almeno mezzo secolo non c’era notizia di colera. Paradossale che sia arrivato proprio con i caschi blu, mandati dall’Onu nel 2004 per pacificare il paese, e rimasti da allora nel paese.
Eppure, quando nel 2011 un gruppo di cittadini haitiani ha chiesto risarcimenti, la delegazione dell’Onu ha semplicemente definito “irricevibile” la richiesta. Includere il colera nei programmi di assistenza umanitaria, sì. Ammettere una responsabilità, no.
Critiche e proteste
Cosa ha spinto il segretario generale Ban Ki-moon, dopo ben sei anni, a presentare le sue scuse agli haitiani? Forse che la sua posizione era ormai insostenibile. A Haiti le proteste si susseguono da anni, manifestazioni davanti agli uffici locali dell’Onu, dimostrazioni agli accampamenti dei caschi blu. Un gruppo di avvocati haitiani per i diritti umani, il Bureau des avocats internationaux, ha organizzato cause legali per far valere il diritto delle vittime a risarcimenti materiali.
Le critiche circolano ormai anche all’interno all’organizzazione internazionale. L’8 agosto 2016 uno dei consulenti legali delle Nazioni Unite ha consegnato a Ban Ki-moon un rapporto che definiva “una vergogna” l’operato dell’organizzazione a Haiti (il documento è poi trapelato al New York Times). Il giurista Philip Alston, special rapporteur sulla povertà estrema, in quel documento affermava che l’atteggiamento dell’Onu sul colera a Haiti è “moralmente inconcepibile, legalmente indifendibile e politicamente controproducente”. L’epidemia “non sarebbe scoppiata senza l’azione delle Nazioni Unite”, che però hanno rifiutato di riconoscere l’evidenza, cioè che il contagio ha avuto origine dallo scarico del campo dei caschi blu.
L’Onu non ha neppure dato seguito alle sue promesse di assistenza, constatava Alston nel suo rapporto. Nessun progetto di infrastrutture idriche, acquedotti o fognature è stato completato negli anni successivi, due impianti di depurazione delle acque costruiti in tutta fretta dopo l’inizio dell’epidemia hanno smesso di funzionare molto presto per mancanza di fondi. (Da un altro rapporto interno all’Onu, citato dal New York Times, risulta addirittura che nel 2014, due anni dopo l’inizio dell’epidemia, gli accampamenti dei caschi blu continuavano a riversare gli scarichi nei corsi d’acqua).
Il giurista concludeva che un tale atteggiamento “mina sia la credibilità dell’Onu in generale, sia l’integrità dell’ufficio del segretario generale”.
Di fronte a tante pressioni, nell’agosto del 2016 per la prima volta l’ufficio di Ban Ki-moon ha parlato di “coinvolgimento” nella faccenda del colera. “L’Onu ha maturato la convinzione che deve fare molto di più circa il suo coinvolgimento nell’epidemia e nella sofferenza di quanti sono stati contagiati”, ha dichiarato il portavoce del segretario generale, Farhat Haq.
Infine sono arrivate le scuse: ci sono voluti sei anni. Per questo festeggiavano, nell’ufficio della piccola organizzazione per i diritti umani: “Per molte vittime del colera, le parole di Ban Ki-moon sono suonate come un primo passo verso un po’ di giustizia”, dice Beatrice Lindstrom, avvocata presso l’Institute for justice and democracy in Haiti (Ijdh), che ha sede a Boston e lavora insieme al gruppo di giuristi haitiani. “La prima richiesta delle vittime, ripetuta in tante proteste e petizioni, era proprio questa: delle scuse formali. Ora però restano le altre due richieste, assistenza materiale alla popolazione colpita, e serie misure per debellare il colera”.
Ora è il momento di dare seguito concreto alle promesse di assistenza materiale alle vittime
In effetti, per recuperare il suo ritardo l’Onu ha presentato in settembre un nuovo piano per affrontare il colera a Haiti, un “pacchetto” in due fasi da finanziare ciascuna con 200 milioni di dollari. La prima include opere di infrastrutture sanitarie e di “eradicazione” del colera, la seconda parla di “assistenza materiale” alle persone toccate dall’epidemia. Questa seconda fase resta in realtà molto vaga, Ban ha parlato di istruzione e piccoli progetti sociali, da definire in consultazione con “le comunità, le vittime e le loro famiglie”.
“Se funzionasse, un piano simile sarebbe sicuramente una riparazione materiale alle vittime e a tutta la società haitiana”, osserva Lindstrom (che ho raggiunto al telefono). “Ma bisogna che venga davvero finanziato”. E questo è il punto debole: il piano di “assistenza materiale” alle vittime del colera non ha ancora trovato finanziatori. Piani di carattere straordinario come questo dipendono dai paesi “donatori” (a meno che gli stati accettino di farlo rientrare nei contributi ordinari, quelli obbligatori).
D’altra parte, Ban Ki-moon ha scelto con molta cura le sue parole in quel discorso di scuse: responsabilità morale, “coinvolgimento”, “non abbiamo fatto abbastanza”. Ma non ha ammesso che l’epidemia è stata provocata dai caschi blu. Nulla che possa rinviare a una responsabilità tangibile, tanto meno a un danno da riparare: mai usato la parola “risarcimenti”.
“È vero, il segretario generale non ha ancora ammesso che l’Onu ha portato il colera a Haiti. Però ha dato segno di un’assunzione di responsabilità che finora mancava”, osserva Beatrice Lindstrom. “Ora è il momento di dare seguito concreto alle promesse di assistenza materiale alle vittime”.
Questo però resta molto ipotetico. Nel 2011 l’Onu aveva annunciato alcune riparazioni, poi aveva rifiutato di dar seguito alla promessa “senza neppure dare una spiegazione”, spiega l’avvocata. È allora che gli avvocati haitiani e i colleghi di Boston hanno cominciato a rivolgersi ai tribunali degli Stati Uniti a nome di cinquemila cittadini haitiani che chiedono risarcimenti: ma in agosto la magistratura statunitense non ha accettato di considerare la causa, dichiarando che l’Onu gode di immunità legale. “Noi accettiamo il fatto che l’Onu abbia immunità rispetto ai tribunali nazionali. Ma nei suoi regolamenti contempla accordi extragiudiziari per concordare eventuali riparazioni, e nel caso di Haiti è venuta meno a questo suo obbligo”.
Nel suo documento, Alston scriveva che bisogna riconoscere risarcimenti alle vittime del colera, non semplici aiuti umanitari. Ma è proprio quello che l’Onu cerca di evitare.

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