Da un estremo all’altro, i popoli indios delle
Amériche vivono, costruiscono e resistono. Resistono alle invasioni, sui loro
territori, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti,
all’abbattimento dei loro boschi e alle mega piantagioni di monocolture di
alberi, ai parchi eolici, alle piantagioni di transgenici e alle fumigazioni di
agrotossici, all’avanzare indiscriminato di progetti immobiliari, alla
contaminazione e furto delle loro terre, fiumi, laghi, e aria. Resistono inoltre ai
mille modi per tentare di renderli invisibili, di affermare che non esistono o
che non sono popoli; affinché ogni lotta, quando viene alla luce e suscita
solidarietà, venga vista come un fenomeno localizzato e isolato, dove non c’è storia,
non c’è identità, non c’è organizzazione, non c’è solidarietà e reti con molti
altri. Le lotte indigene hanno molti livelli di significato che ci toccano
tutti e tutte, anche se spesso li percepiamo solo a partire dalle loro
resistenze nei momenti di repressione e minaccia.
Nel Sud del continente, i Mapuche, tanto in
Cile quanto in Argentina – il loro territorio ancestrale non ha mai avuto
questa frontiera – sono perseguiti giudizialmente e militarmente perché difendono
i loro territori contro le grandi imprese forestali, idroelettriche,
petrolifere e altre imprese e contro gli affari dei governi di turno con le loro
terre. In ogni conflitto, nei loro confronti sono state applicate – o si è
cercato di farlo – le leggi antiterrorismo, leggi che provengono dalle
dittature militari, con persecuzione militare, poliziesca e giudiziaria. In
entrambi i casi, in particolare in Argentina, il discorso ufficiale e mediatico
nega perfino che esistano popoli indios, come è successo nel caso di molti
altri conflitti in territori indigeni. Alla fine del 2016, il caso della machi
mapuche Francisca Linconao (autorità morale, medica e consigliera della sua
comunità) ha sollevato solidarietà in tutto il mondo, quando la machi
Francisca, che si dichiara innocente ed è stata arrestata senza prove, accusata
di un incendio che ha fatto due morti in una tenuta forestale che occupa e
devasta i territori della comunità, ha iniziato lo sciopero della fame che è
durato due settimane, fino a quando, il 6 gennaio 2017, le hanno concesso, non
la libertà, ma gli arresti domiciliari. Il processo contro di lei, continua.
Lo scorso 10 e 11 gennaio, il governo
argentino e il governatore Mario das Neves della provincia di Chubut, in
un’operazione congiunta della Gendarmeria Nazionale e della polizia locale,
hanno lanciato una feroce repressione contro una comunità (lof) mapuche che difende il suo
territorio nel dipartimento di Cushamen, Chubut. Questo lof mapuche ha
rioccupato la terra nel marzo del 2015, dopo che era rimasto incapsulato in
quella che dal 1991 è la proprietà della multinazionale italiana Benetton, uno dei maggiori
proprietari terrieri dell’Argentina, con circa 900.000 ettari in Patagonia.
In quella che Amnesty International ha
definito come “operación cerrojo” [operazione serratura], 200 gendarmi hanno
chiuso tutte le vie di accesso e sono avanzati sparando pallottole di gomma e
di piombo contro la comunità, con un’enorme brutalità, attaccando donne, uomini
e bambini. Il primo giorno avevano un ordine del tribunale per liberare i binari
di un treno turistico che la comunità aveva bloccato con materiali, non persone.
Nient’altro. Il secondo giorno non avevano nemmeno questo esiguo ordine, ma in
entrambe le occasioni hanno attaccato la comunità con violenza, lasciando una
scia di feriti e di arresti.
Al brutale attacco, sono seguite le
manipolazioni mediatiche. I media locali hanno accusato i mapuche di tirare
sassi e di “resistere violentemente a un procedimento giudiziario”, implicando
che erano stati loro a provocare la repressione. Il governatore ha aizzato il
conflitto dichiarando che “Da un po’ di tempo nel Chubut c’è un gruppo di
violenti che non rispettano le leggi, la patria, né la bandiera… Su questo sarò
duro fino in fondo, affinché si rispettino le leggi e la gente viva tranquilla”
(12/01/17 lavaca.org). Per il governatore, “la gente” è la multinazionale Benetton.
Così come ha denunciato l’amato storico
Osvaldo Bayer sul sito Garganta Poderosa, si tratta, un’altra volta, della
Patagonia ribelle, una rinnovata “Campagna del deserto” (che venne condotta
da Julio Argentino Roca agli inizi del 1900) per farla finita con i popoli e le
tribù del Sud, per far posto adesso alle imprese multinazionali.
In tutta l’Amazzonia, nella resistenza
all’industria mineraria, petrolifera e alle altre devastazioni, ci sono i
popoli indigeni. In Ecuador, membri del popolo Shuar della comunità di
Nankitz, Morona Santiago, a novembre e a dicembre hanno cercato di recuperare
il loro territorio, dal quale erano stati violentemente cacciati nell’agosto 2016 da forze
militari e di polizia del governo che, ancora una volta, ha preso in
considerazione un ordine giudiziario a favore della società mineraria cinese
Explorcobres S.A, malgrado lo stesso governo non aveva nemmeno attuato la
consultazione libera, preventiva e informata alla quale hanno diritto le
comunità indigene Shuar. Negli scontri è morto un poliziotto e diversi sono
rimasti feriti. Come ripercussione, il governo ha cercato di chiudere
l’organizzazione ecologista Acción Ecológica, che da anni denuncia gli impatti
dell’attività mineraria e petrolifera e la violazione dei diritti indigeni e
umani in queste aree, compreso il caso Shuar. Si è riusciti a fermare
quest’azione, sia per la vacuità delle accuse contro questa organizzazione, sia
per la vasta protesta nazionale e internazionale; però le minacce proseguono:
continua la militarizzazione nella zona Shuar e analoghe situazioni di
sgomberi, abuso e violenza, si ripetono in diversi territori indigeni
dell’Ecuador dove vogliono portare avanti le mega attività estrattive, a favore
delle imprese straniere, soprattutto cinesi.
La difesa territoriale dei popoli indigeni
ha un ruolo fondamentale nella difesa della vita e della giustizia per tutte le
Amériche, come è successo anche con la mobilitazione del Popolo Sioux a Standing
Rock, nel Nord Dakota, contro l’oleodotto DAPL, un’altra devastante
impresa che a dicembre è stata fermata per l’estesa e ferma resistenza
indigena. La convergenza di popoli indigeni e di organizzazioni ecologiste di
base, così come in diversi luoghi con altri movimenti sociali, femministi,
urbani, contadini, non è nuova, ma sta assumendo forme e significati nuovi.
La storia e le convincenti realtà del
movimento e delle comunità zapatiste avalla, direttamente o indirettamente,
tutti questi processi di resistenza. Il Messico, quasi come un continente in
sé, è attraversato da conflitti territoriali, ambientali, sociali, di
ingiustizie, con innumerevoli casi di repressione aperta o occulta, e con
centinaia di lotte e resistenze locali, molte con base nelle comunità indigene
e contadine. Le testimonianze e le denunce del Congresso Nazionale Indigeno
riflettono molti di questi. La decisione di formare un Consiglio Indigeno di
Governo e contrapporre una candidata donna e indigena ai discorsi elettorali è
un altro modo per presentare, invitando molti altri movimenti, queste realtà,
ferite, resistenze, indignazioni e costruzioni.
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Pubblicato su
Desinformémonos con il titolo De Dakota a la Patagonia,
rebeldía que no cesa
Traduzione per Comune di Daniela Cavallo
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