venerdì 30 settembre 2011

Elogio della bicicletta

Germania: Alcuni giornali italiani (vedi qui per es.) riportano la notizia di un progetto di “autostrada ciclabile” fra Duisburg e Dortmund, in Germania.

E da quelle parti le cose si fanno, non ci si limita agli annunci.Fra Duisburg e Dortmund ci sono 60 km, in mezzo troviamo anche Bochum ed Essen con relative periferie e centri minori, un traffico pendolari massiccio e due grandi università e centri di ricerca.

E questa è la chiave: tutte le modalità di trasporto sono sature: code infinite sulle autostrade, che il governo del Land non amplierà per scelta e anche perchè non porterebbe risultati ma danni.

Le stesse ferrovie, già molto utilizzate, non sono incrementabili se non in misura modesta.

Ed ecco che l’unica via possibile è di far spostare migliaia di persone in più al giorno in bici, non solo dentro le città (già tante) ma anche fra città della regione, su distanze fino a 10 o 20 km.

Muovendosi a circa 30 km/h i tempi di percorrenza sono uguali a quelli reali (e non teorici) in auto, e minori nei quotidiani colossali ingorghi che periodicamente le paralizzano.

La highway delle bici (“Radschnellweg Ruhr”) avrà un percorso circa parallelo alla famigerata autostrada A40 e utilizzerà come base la ferrovia dismessa che collegava le acciaierie Krupp (vedi foto, parte inferiore).

Sarà quasi priva di incroci con il traffico motorizzato ed illuminata…

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povero Hope

È stato il primo orso a nascere in diretta su Internete in pochi mesi, assieme alla mamma Lily, è diventato una star del web. Ma la vita del piccolo Hope è durata meno di due anni: un cacciatore lo ha incrociato poco lontano dalla sua tana in una foresta del Minnesota e lo ha abbattuto lo scorso 16 settembre.

ANNUNCIO - L'annuncio è stata ufficializzato dai ricercatori della North American Bear Center di Ely che da diversi anni portano avanti un'iniziativa ecologista che ha lo scopo di proteggere gli orsi che vivono nello stato nordamericano. Gli stessi studiosi, il 22 gennaio dell'anno scorso, organizzarono la diretta streaming sul web per filmare il parto di mamma Lily…

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mercoledì 28 settembre 2011

Migrazioni

Il Mezzogiorno si allontana dall'Italia: riparte l'emigrazione, il tasso di disoccupazione reale è del 25%, meno di un giovane su tre ha un lavoro e tre donne su quattro stanno a casa. E' questo il quadro drammatico che emerge dal rapporto Svimez 2011 sulle regioni del Sud; il ritratto di una fetta d'Italia a rischio "tsunami demografico", come denuncia Svimez (associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno), che nel 2050 vedrà gli over 75 crescere di dieci punti percentuali e i giovani scendere da 7 a meno di 5 milioni e del 25% già entro i prossimi vent'anni.

Il fenomeno, rileva il rapporto, provocherà un'inversione nella composizione della società, con il Centro-Nord che diventa più "giovane" del Mezzogiorno. La scarsa natalità, l'assenza di lavoro che causa bassa attrazione di stranieri e massiccia emigrazione verso il Centro-Nord e l'estero, rischiano insomma di trasformare il Mezzogiorno da qui ai prossimi 40 anni in un'area spopolata, sempre più anziana e dipendente dal resto del Paese...



lunedì 26 settembre 2011

I will be a hummingbird (colibrì) - Wangari Maathai

Earth Overshoot Day

Il 27 settembre il pianeta entra in rosso. E' l'Earth Overshoot Day. Non siamo ancora al default ecologico, ma la minaccia di bancarotta è concreta e costerebbe più del tracollo della Grecia. Abbiamo consumato tutte le risorse rinnovabili che la Terra ha a disposizione e per andare avanti dobbiamo indebitarci, cioè utilizzare ricchezza che non ci appartiene.

Dobbiamo tagliare le foreste che servono a rallentare la corsa del caos climatico, rubare altri pesci a un mare che si impoverisce anno dopo anno, prelevare acqua dalle vene fossili che non si ricaricano, usare energia fossile turbando l'equilibrio dell'atmosfera, azzerare prati per darli in pasto al cemento.

Continuando così, con una popolazione che sta per sfondare il muro dei 7 miliardi e i consumi pro capite globali in continua crescita, entro la metà del secolo il nostro debito supererà il 100 per cento del Pil ambientale: per portare i conti in pareggio dovremmo avere a disposizione un secondo pianeta. Il calcolo viene dal Global Footprint Network, la rete che calcola la biocapacità globale e la confronta con l'impronta ecologica, cioè con la quantità di risorse e di servizi richiesta dalla specie umana…

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venerdì 23 settembre 2011

Back to start

Nessuno mi ha detto che sarebbe stato facile, nessuno mi ha detto che sarebbe stato così difficile. Ho deciso di tornare all’inizio’, questo il ritornello della canzone che accompagna un video che ci invita a tornare ad un’agricoltura sostenibile.
Un contadino decide di modernizzare la sua azienda e una bellissima animazione ci fa vedere la rapida trasformazione della sua idilliaca fattoria a conduzione familiare ad un conglomerato di capannoni industriali. Si vede poi il contadino ripensare alle sue scelte e decidere di ‘tornare all’inizio’ per assicurare a se stesso e a noi un futuro sostenibile.

E’ il video di "Back to start" il remake della canzone di Willie Nelson che il gruppo inglese Coldplay ha cantato per sostenere una Ong Americana il cui scopo è creare risorse alimentari più salutari e sostenibili e rendere i consumatori più consapevoli sulle tematiche alimentari.

da qui

mercoledì 21 settembre 2011

costi e ricavi di un impianto eolico

Costi

Possiamo suddividere questa voce in tre macro aree: costi dell’impianto, costi di gestione e costi di dismissione.

Il costo più significativo relativamente all’impianto è rappresentato dalla fornitura e dalla posa in opera degli 11 aereogeneratori.

Se vogliamo essere certi di non sottostimare, possiamo arrivare a 1.5 ME (Milioni di Euro) per MW installato, chiavi in mano, e quindi raggiungere la cifra di circa 50 ME (Iva Inclusa) che noncrediamo possa essere contestata Naturalmente il costo effettivo dipende dalla situazione: vanno realizzate strade di collegamento, scavi, fondazioni, cabine di trasformazione e si gioca molto su questo, perché spesso, questo tipo di lavori è appaltato a ditte locali. A Lucera, tra l’altro, la situazione morfologica è tra l’altro comodissima: morbida orografia territoriale, diffusa rete stradale, ecc..

Comunque, queste voci, relative a : opere elettriche e civili, rilievi, attività di consulenza, collaudi e IVA, potrebbero contribuire per altri 8 ME portando questa voce a circa 58ME.

In costi di gestione sono quelli relativi al costo di manutenzione delle pale e ai costi relativi all’affitto dei terreni che possiamo ipotizzare in 7000 euro l’anno per torre.

Facendo un calcolo su 15 anni, potremmo ipotizzare tale costo nell’ordine dei 10-15 milioni di euro.

I costi di dismissione sono quelli relativi alla normativa regionale per le fideiussioni e a un mutuo ipotizzato con interessi al 5% e con un piano di ammortamento in 5 anni.

In 15 anni queste voci potrebbe incidere per circa 7 ME.

Sommando tutte le voci, il costo totale dell’impianto di Lucera potrebbe essere ipotizzato tra i 70 e gli 80 ME (160 miliardi di lire)

Ricavi

Ipotizziamo un funzionamento minimo di 1600 ore l’anno e con un prezzo (vendita energia e CV) di 180 Euro per Mwh prodotto. Questo fornisce 33 x 1600 = 52800 MWh per anno di energia prodotta e 9.500.000 Euro l’anno di ricavi.

In 15 anni (regime dei CV) il ricavo dell’impianto è nell’ordine dei 140 milioni di euro (280 miliardi di lire).

Ed è bene ribadire che i conti sono stati fatti sovrastimando i costi e sottostimando i ricavi.

Come si vede, e senza scomodare gli indovini, è facilmente prevedibile cosa succederà nel futuro prossimo: l’impianto si ammortizza in circa sette- otto anni, in meno di 15 anni raddoppia quasi il capitale investito e, se il contratto avesse la durata di 29 anni, gli utili per la società, raggiungerebbero cifre stratosferiche.

Di tutto questi soldi, solo il 5%-6 finirebbe nelle casse del Comune.

Il Comune infatti, a fronte dei 280 miliardi di lire realizzati dall’impresa, realizza, in 15 anni, tra i 14 e i 17 miliardi di lire.

Una miseria se paragonata ai profitti realizzati dalla società privata.

Se questi calcoli sono esatti e sarebbe un piacere se venissero smentiti, si tratta di una vera e propria beffa, resa ancora più tragica dal fatto che tale comportamento sfugge a qualsiasi logica economica che normalmente vede, nel possessore di un bene scarso, colui che nel venderlo, stabilisce le regole e realizza i profitti maggiori.

E bisogna riconoscere che questa percentuale è comunque un risultato di tutto rispetto se paragonato ai contratti stipulati una decina di anni fa e che prevedevano percentuali dell’1.5%, passati al 4- 4.5%. negli ultimi anni.

E infatti, nelle passate amministrazioni comunali, si narra, che uno degli sport praticati da parte di qualche amministratore, fosse quello di lavorare“per il bene della città” affinché le percentuali delle società private risultassero più alte.

La beffa finale è rappresentata dai guadagni di coloro che renderanno possibile tale affare: i proprietari delle terre dove saranno installate gli impianti.

A fronte dei 140 milioni di euro (280 miliardi di lire) che l’azienda privata ricaverà in 15 anni, i contadini, realizzeranno circa 100 mila euro lordi in quindici anni, da cui tra l’altro dovranno detrarre la quota riservata all’erario.

I contratti stipulati negli ultimi anni, prevedono, per l’affitto dei terreni, quote che mediamente arrivano alla cifra che abbiamo ipotizzato (7.000 euro). Dieci anni fa i contratti non superavano i 400 euro l’anno e i profitti per le imprese erano come quelli attuali se non superiori.

Siamo nella situazione paradossale che a pochi chilometri di distanza, vendendo lo stesso bene, ci sono contadini che, stipulando i contratti una decina di anni fa, realizzano pochi centinaia di euro e altri che ricavano cifre molto superiori.

Uno scandalo, reso possibile dalla crisi del mercato agricolo che ha reso improduttive le campagne, ma soprattutto, dall’inerzia delle associazione di categoria che, in questo caso, non sembra che abbiano tutelato a dovere gli interessi dei propri iscritti.

Nella convenzione dovrebbe essere prevista anche la possibilità che, in alternativa al pagamento dei contributi, la società ceda al comune la proprietà del 7% dell’impianto.

Questa percentuale dovrebbe essere utilizzata per la realizzazione di un impianto comunale.

Non avendo avuto modo di studiare la convezione, non è possibile entrare nel merito di questo aspetto, ma si ribadisce che, se con la realizzazione dell’impianto comunale finissero nelle casse dell’ente pubblico molti più soldi di quelli previsti dalla liberalità al 5%-6%, non ci sarà nessun problema a riconoscerne l’utilità.

Se l’impianto servisse a creare posti di lavoro tali da incidere sull’assetto economico della città, nessuno avrebbe nulla da eccepire.

Se i ricavi servissero ad aiutare le fasce deboli della popolazione, con mezzi concreti che potrebbero essere tra l’altro: aiuti economici alle famiglie e agli anziani in difficoltà, incentivi per l’acquisto della prima casa alle giovani coppie, contributi alle famiglie numerose, incentivi per incrementare la natalità e altre iniziative analoghe a queste, nessun avrebbe nulla da obiettare.

Se con questi soldi si riuscisse a migliorare le condizioni dell’ambiente, del paesaggio e dei beni storici e culturali che sono investiti dal degrado eolico e da tutte le discariche che appestano la nostra terra, l’eolico rappresenterebbe senz’altro un ottimo affare…

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lunedì 19 settembre 2011

lavatrice in bici


le usanze civiche, di George Carlin

Oda al vino - Pablo Neruda

ODA AL VINO

VINO color de día,
vino color de noche,

vino con pies de púrpura

o sangre de topacio,

vino,

estrellado hijo

de la tierra,

vino, liso

como una espada de oro,

suave

como un desordenado terciopelo,

vino encaracolado

y suspendido,

amoroso,

marino,

nunca has cabido en una copa,

en un canto, en un hombre,

coral, gregario eres,

y cuando menos, mutuo.

A veces

te nutres de recuerdos

mortales,

en tu ola

vamos de tumba en tumba,
picapedrero de sepulcro helado,

y lloramos

lágrimas transitorias,

pero

tu hermoso

traje de primavera

es diferente,

el corazón sube a las ramas,

el viento mueve el día,

nada queda

dentro de tu alma inmóvil.

El vino
mueve la primavera,

crece como una planta la alegría,

caen muros,

peñascos,

se cierran los abismos,

nace el canto.
Oh tú, jarra de vino, en el desierto

con la sabrosa que amo,

dijo el viejo poeta.
Que el cántaro de vino

al beso del amor sume su beso.

Amor mio, de pronto
tu cadera
es la curva colmada

de la copa,

tu pecho es el racimo,

la luz del alcohol tu cabellera,

las uvas tus pezones,

tu ombligo sello puro

estampado en tu vientre de vasija,

y tu amor la cascada

de vino inextinguible,

la claridad que cae en mis sentidos,

el esplendor terrestre de la vida.

Pero no sólo amor,
beso quemante

o corazón quemado

eres, vino de vida,

sino

amistad de los seres, transparencia,

coro de disciplina,

abundancia de flores.

Amo sobre una mesa,

cuando se habla,

la luz de una botella

de inteligente vino.

Que lo beban,

que recuerden en cada

gota de oro

o copa de topacio

o cuchara de púrpura

que trabajó el otoño

hasta llenar de vino las vasijas

y aprenda el hombre oscuro,

en el ceremonial de su negocio,

a recordar la tierra y sus deberes,

a propagar el cántico del fruto.

ODE AL VINO di Pablo Neruda

Vino color del giorno,vino color della notte,vino con piedi di porpora o sangue di topazio,vino,stellato figlio della terra,vino, liscio come una spada d`oro,morbido come un disordinato velluto,vino inchiocciolatoe sospeso,amoroso,marino,non sei mai presente in una sola coppa,in un canto, in un uomo,sei corale, gregario,e, quanto meno, scambievole. A volteti nutri di ricordi mortali,sulla tua onda andiamo di tomba in tomba,tagliapietre del sepolcro gelato,e piangiamo lacrime passeggere,mail tuo bel vestito di primavera è diverso,il cuore monta ai rami,il vento muove il giorno,nulla rimane nella tua anima immobile. Il vino muove la primavera,cresce come una pianta di allegria,cadono muri,rocce,si chiudono gli abissi,nasce il canto. Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto con la bella che amo,disse il vecchio poeta. Che la brocca di vino al bacio dell`amore aggiunga il suo bacio

Amor mio, d`improvviso il tuo fianco è la curva colma della coppa il tuo petto è il grappolo, la luce dell`alcol la tua chioma,le uve i tuoi capezzoli,il tuo ombelico sigillo puro impresso sul tuo ventre di anfora,e il tuo amore la cascata di vino inestinguibile,la chiarità che cade sui miei sensi,lo splendore terrestre della vita.

Ma non soltanto amore,bacio bruciante e cuore bruciato,tu sei, vino di vita,ma amicizia degli esseri, trasparenza,coro di disciplina,abbondanza di fiori. Amo sulla tavola,quando si conversa,la luce di una bottiglia di intelligente vino Lo bevano;ricordino in ogni goccia d`oro o coppa di topazio o cucchiaio di porpora che l`autunno lavorò fino a riempire di vino le anfore,e impari l`uomo oscuro,nel cerimoniale del suo lavoro,e ricordare la terra e i suoi doveri,a diffondere il cantico del frutto.

sabato 17 settembre 2011

cambia il mondo

Il Times ha pubblicato la tredicesima edizione del suo prestigioso Atlante, che evidenzia lanuova normalità instauratasi nel mondodurante gli ultimi tre anni.

Si sono modificati confini politici e amministrativi, certo, ma anche gli ambienti naturali. L’Atlante del Mondo fra l’altro prende nota che alcuni tratti di (ex) grandi fiumi comeil Tigri, il Colorado, il Fiume Giallo e il Rio Grande ora sono secchi per parte dell’anno e che accanto alla Groenlandia il ritiro dei ghiacci ha evidenziato una nuova isola, chiamata Uunartoq Qeqertaq, “Isola del Riscaldamento” in lingua Inuit.

Per la verità l’isola è comparsa nel 2006, così come la portata dei grandi fiumi si è modificata lentamente: ma secondo i redattori dell’Atlante ormai questi cambiamenti sono da considerare definitivi.

E definitivo – secondo loro – è anche il fatto che la Groenlandia ha perso rispetto al 2008 il15% dei ghiacci: ora quest’area non va più colorata di bianco, bensì di marrone e di verde. Cosa, qualcuno sta dicendo “Era così anche al tempo dei Vichinghi“? Ah, come è dura a morire la balla dell’ “isola verde”.

La calotta di ghiaccio che copre la maggior parte della Groenlandia è vecchia di 100.000anni e spessa circa 3.500 metri. Non c’è alcuna possibilità che mille anni fa l’isola fosse verdeggiante e magari coperta di boschi. Eppure il suo nome significa “terra verde”.

Glie lo diede Erik il Rosso, che dalla Norvegia, causa omicidi, fu esiliato prima in Islanda e poi intorno al 982 in quella che ancora oggi chiamiamo Groenlandia.,,

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venerdì 16 settembre 2011

Un battito d’ali a New York, un uragano nella Repubblica dominicana - Gennaro Carotenuto

Stamane (-8 rispetto all’Italia) ascolto le notizie che mi raccontano di un tornado grande come l’Europa (‘sagerati) che si abbatte sugli Stati Uniti. Poi esco in strada e penso che -porca miseria- nonostante viva a un km in linea d’aria dal confine col Texas e tra il Sud e il Nord del mondo non ci è toccato neanche il bene di una fantozziana nuvoletta dell’impiegato. Azzurro fisso (meraviglioso peraltro) qui nel deserto e 38° all’ombra.

Rientro e la sempre splendida Annalisa Melandri mi offre un altro punto di vista da un altro Sud del mondo sempre al confine con l’impero. Nella Repubblica dominicana, nella totale indifferenza dei media, il passaggio dell’uragano Irene ha causato la bellezza di 30.000 senzatetto e almeno tre morti. Accendo RadioRai e nonostante sia domenica pomeriggio i GR sono quasi un filo diretto da New York dove peraltro i danni sono zero o quasi.

Struggono il cuore i servizi su quei poveri turisti italiani rimasti in albergo a guardare la tivù invece di addentare la grande mela che disperati chiedono: “e adesso a noi chi ci ripaga”? Vorrebbero il rimborso, come no! Sicuramente qualche associazione di consumatori disposta ad una class action contro Irene la troveranno. Che pena mi fanno… Poi riguardo la foto postata da Annalisa (sopra) e penso: e adesso a quei 30.000 senzatetto chi li ripaga? Neanche uno straccio di servizio al GR1.

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il social ort non è l'orto sociale

Piras è un cognome agricolo, vedremo cosa sarà - francesco

IL SUO NOME è Grow the Planet 1, ma in rete si è già guadagnato l'appellativo di "FarmVille per il mondo reale" perché, proprio come nel celebre gioco su Facebook, vuole convincere i suoi utenti a dare il via alle coltivazioni. L'unica differenza è che qui non si parla di zappe e carote digitali, ma di orti veri e propri.

Il nuovo social network per chi ha il pollice verde è stato lanciato dal palco del TechCrunch Disrupt, uno dei principali eventi per le startup web, ed è un'iniziativa tutta italiana che sta già raccogliendo ottime critiche oltreoceano. "L'obiettivo di Grow the Planet è di incuriosire e coinvolgere le persone nel crearsi un proprio orto - spiega il fondatore Leonard Piras - Ci piacerebbe che tutti capissero come è facile e divertente far crescere un orto, mangiare del cibo più salutare e migliorare l'ambiente che ci circonda".

Il sito si distingue dalle altre esperienze simili per il suo approccio che cerca di coinvolgere sia il dilettante che il giardiniere più esperto. Proprio come in un social network, ogni utente può creare una lista di propri amici e, grazie alle geolocalizzazione degli orti, possono nascere delle comunità locali per lo scambio di semi e ortaggi, o con cui organizzarsi per acquisti a distanza...

giovedì 15 settembre 2011

Nè sardi nè eroi

Beato quel Paese che non ha bisogno di eroi. Ovidio Marras è diventato, suo malgrado, il simbolo di una lotta impari (e anacronistica) tra gli interessi economici e la vita, una sorta di “eroe” che combatte per la propria sopravvivenza, in una Regione che, già da tempo, è entrata a far parte del mondo civilizzato. Eppure, non c’è niente di romantico o di eroico nella sua lotta, si tratta di un uomo di ottantadue anni che, naturalmente, non vuole essere sradicato dal luogo in cui ha vissuto la propria vita, che è poi l’incubo di qualsiasi persona anziana, con abitudini, tempi, ritmi ormai radicati e difficilmente modificabili. Ovidio Marras non è un eroe, è un uomo coraggioso, forte, ostinato e pieno di dignità, doti che, invece, mancano ai vigliacchi che qualche giorno fa hanno ucciso i suoi cani ed il suo gatto, quasi con certezza con scopo intimidatorio, per impedire all’uomo di continuare ad opporsi al progetto di speculazione immobiliare iniziato sulla costa di Malfatano e Tuerredda, che gli impedisce di accedere al proprio terreno, dove ha le sue coltivazioni, i suoi animali, la sua vita. In Sardegna funziona ancora così, dal nord al sud, passando per il centro: cavalli uccisi, pecore sgozzate, cani presi a fucilate, gatti bastonati a morte, sono l’unica forma di dialogo conosciuta da alcuni esseri umani incapaci di gestire qualsiasi forma di comunicazione e di conflitto, pavidi a tal punto, da rimanere nell’anonimato, nella totale oscurità, come se le loro stesse vite non esistessero. Piccoli, piccolissimi, sardi che fanno il gioco di grandi speculatori, ben più furbi, più ricchi, più potenti di loro, che li manipolano e li illudono, senza nemmeno troppa fatica. Piccoli sardi che se unissero le loro energie per un progetto positivo e non per danneggiare il prossimo, potrebbero contribuire a fare della Sardegna l’isola felice che dovrebbe essere, considerato lo straordinario patrimonio che la natura le ha donato. E, invece, l’autolesionismo in molti casi prevale, a favore di chi intende usare quello stesso patrimonio a proprio vantaggio. Mi chiedo, però, se sia questa l’immagine che i sardi vogliono dare di sé al resto d’Italia e del mondo. Mi chiedo se tutti gli altri sardi, quelli onesti, che sono la maggioranza, quelli che subiscono in silenzio l’odio e la violenza, abbiano intenzione di distinguersi da chi rimane nell’oscurità, nell’anonimato, covando rabbia e rancore, e se abbiano veramente voglia di regalarsi una vita migliore, dignitosa e libera, alimentando la speranza e l’entusiasmo per dei progetti positivi e utili per la collettività. Mi chiedo se, da qualche parte, dietro il fucile, sotto un sasso, o tra le foglie di un leccio, ci sia ancora l’orgoglio dei sardi e, soprattutto, se qualcuno abbia voglia di andare a riprenderlo.

Claudia Basciu

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mercoledì 14 settembre 2011

limiti al latifondo?

«Contadini mandati alla guerra in frontiera, per dar la terra nuova ai gringos forestieri; e noi che siam qui da prima della bandiera, di nutrirci di rape dovremmo anche esser fieri». Lo diceva più di cent'anni fa il gaucho Martin Fierro, se si ammette la parafrasi piuttosto libera del poema epico argentino che porta il suo nome, ma ora il governo di Cristina Kirchner sembra deciso ad ascoltarne la rima: in parlamento c'è una legge che vieta agli stranieri la possibilità di acquistare grandi appezzamenti di terreno.
Una norma non retroattiva, che permetterà ai grandi gruppi italiani di restare, anche se per farlo saranno probabilmente obbligati a riconoscere più diritti ai dipendenti e rispettare le comunità indigene, perchè l'Argentina del nuovo millennio cammina sola nella crisi e ha uno scudo ideologico contro parole come neocolonialismo e imperialismo.


«Lo Stato deve porre un limite alla proprietà estera della terra», ha già detto due volte in pochi giorni Cristina, esortando i suoi legislatori a darsi una mossa, perché se la borsa delle commodities di Chicago ha fatto alzare il tetto per fare entrare il grafico della soia, allora bisogna procedere in fretta verso quella che lei stessa ha chiamato «la seconda indipendenza» e vender caro il proprio tesoro verde: solo il 20% delle terre coltivabili potrà restare in mani non argentine e un unico proprietario non potrà intestarsi più di mille ettari. «Stiamo discutendo alcune modifiche al disegno di legge - hanno detto dal gruppo parlamentare del governo - ma in linea di massima ci siamo», lasciando intendere che di qui a qualche giorno arriverà l'ok dalle commissioni e poi anche dal Congresso.
Alcuni giuristi ritengono che la norma sia incostituzionale, poichè va contro il principio secondo cui gli stranieri godono degli stessi diritti dei cittadini nativi, tuttavia, con un'opposizione debole e d'accordo con lo spirito della proposta, le uniche attività volte a rovesciare il pronostico restano in mano alle lobby agricole, che ultimamente hanno perso il potere di cui godevano in passato...

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lunedì 12 settembre 2011

Preferirei non essere Anna - Arundhati Roy

Mentre i suoi mezzi forse sono gandhiani, le sue richieste non lo sono di sicuro.

Se ciò che stiamo vedendo alla TV è veramente una rivoluzione, allora è una di quelle più imbarazzanti e inintelleggibili dei tempi recenti. Per ora, qualunque siano le domande che voi avete in merito al Jan Lokpal Bill, qui ci sono le risposte che verosimilmente otterrete: spuntate la casella - (a) Vande Mataram (b) Bharat Mata ki Jai (c) India is Anna, Anna is India (d) Jai Hind[1].

Per ragioni completamente differenti, e in modi completamente differenti, potreste anche dire che i Maoisti e il Jan Lokpal Bill hanno in comune una cosa: entrambi mirano a sovvertire lo Stato indiano. I primi lavorando dal basso, per mezzo di una lotta armata, condotta da un esercito in larga parte adivasi, composto dai più poveri tra i poveri[2].

Il secondo partendo dall’alto, per mezzo di un incruento colpo maestro gandhiano, condotto da un santo coniato di fresco, e un esercito di persone largamente urbanizzate e di sicuro più benestanti (in questo il Governo sta facendo tutto ciò che gli è possibile per sovvertire se stesso).

Nell’aprile del 2011, pochi giorni dall’inizio del primo “sciopero della fame fino alla morte” di Anna Hazare, cercando qualche maniera per distrarre l’attenzione dai grandi scandali di corruzione che hanno ridotto i suoi margini di credibilità, il governo ha rivolto un invito al “Team Anna” - il logo scelto da questo gruppo della “società” civile - affinché entrasse a far parte di una commissione incaricata di redigere una nuova proposta di legge anti-corruzione. Dopo pochi mesi però ha abbandonato quel tentativo e ha presentato un suo proprio progetto di legge, ma talmente pieno di difetti che era impossibile prenderlo sul serio.

Poi, il 16 agosto, la mattina del suo secondo “digiuno fino alla morte”, prima che avesse iniziato il digiuno stesso o di aver commesso alcun atto illegale, Anna Hazare è stato arrestato e imprigionato. Così ora la lotta per il Jan Lokpal Bill si è fusa con quella per il diritto a protestare, con quella per la stessa democrazia.

Dopo poche ore di questa “Seconda Lotta per la Libertà”, Anna è stato rilasciato.

Ma con una decisione astuta ha rifiutato di lasciare la prigione ed è rimasto nel carcere di Tihar, come un ospite riverito, dove ha iniziato un digiuno reclamando il diritto di digiunare in un luogo pubblico.

Per tre giorni, mentre fuori si accalcavano la folla e i furgoni delle televisioni, membri del Team Anna, sfrecciavano dentro e fuori dalla prigione di massima sicurezza, portando fuori messaggi video da mandare in onda su tutti i canali della TV nazionale (a chi altro si sarebbe concesso un simile lusso?). Nel frattempo 250 impiegati della Commissione Municipale di Delhi, 15 camion e sei ruspe lavoravano senza sosta per mettere a posto il terreno fangoso del piazzale Ramlila in vista del grande spettacolo del weekend[3].

Ora Anna, servito da capo a piedi, vegliato da folle salmodianti e telecamere montate su gru, sorvegliato dai medici più cari di tutta l’India, ha iniziato la terza fase del digiuno fino alla morte. “Dal Kashmir a Kanyakumari, l’India è una”, ci dicono i conduttori televisivi...

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Acque minerali: la privatizzazione delle sorgenti in Italia

L’acqua e la sua gestione sono questioni centrali nel nostro Paese. Lo hanno confermato 1 milione e 400mila cittadini che si sono impegnati in prima persona per chiedere a Governo e Parlamento di modificare la legge che obbliga la privatizzazione del servizio idrico, e che hanno ottenuto con una straordinaria raccolta firme l’indizione del referendum per modificarel’attuale normativa del settore, il cosiddetto Decreto Ronchi.
Ma mentre il dibattito pubblico/privato per la gestione del servizio idrico è ancora in corso, e lo sarà sempre di più nei prossimi mesi che ci separano dai due referendum sull’acqua, in Italia esiste già una forma di privatizzazione dell’acqua, o meglio delle sorgenti concesse a prezzi ridicoli alle società che imbottigliano l’acqua. L’ormai annuale rapporto di Legambiente e Altreconomia (realizzato attraverso un questionario mandato a tutte le amministrazioni regionali e alle province autonome di Trento e Bolzano a cui solo la Sicilia non ha risposto) fa il quadro aggiornato sulle concessioni rilasciate dalle Regioni evidenziando i canoni, irrisori nella quasi totalità dei casi, che le società pagano per tale diritto. Una sorta di obolo in netto contrasto con il volume di affari del settore ma soprattutto in confronto all’altissimo valore di una risorsa limitata e preziosa come è l’acqua di sorgente...


venerdì 9 settembre 2011

Akuntsu

“You say laughter and I say larfter “ [Tu dici “laughter” e io dico “larfter”] cantava Louis Armstrong. La differenza tra le due parole, che significano entrambe “risata”, è così sottile che in italiano non ha equivalente. Eppure, in tutto il mondo, dall’Amazzonia all’Artico, i popoli tribali esprimono questo concetto in 4.000 modi completamente diversi.

Tuttavia, oggi più nessuno può dire “risate” in eyak, una lingua del Golfo dell’Alaska, perché i suoi ultimi fluenti interpreti sono morti nel 2008. Nessuno può più dirlo nemmeno nella lingua bo delle isole Andamane: l’ultima persona che sapeva parlarla, Boa Senior, è morta nel 2010. Quasi 55.000 anni di pensieri e idee – la storia collettiva di un intero popolo – sono morti con lei.

La maggior parte delle lingue tribali sta scomparendo più velocemente di quanto possano essere documentate. I linguisti dell’Istituto Living Tongues for Endangered Languages ritengono che in media scompaia una lingua ogni due settimane. Entro il 2100, più della metà delle oltre 7.000 lingue parlate sulla Terra – molte delle quali non ancora registrate – potrebbero scomparire. Il ritmo con cui stanno diminuendo supera persino quello delle specie in estinzione.

Le lingue tribali del mondo stanno scomparendo di pari passo con lo sfratto dei popoli indigeni dalle loro terre, con l’allontanamento forzato dei loro figli, costretti a subire sistemi educativi che li privano della saggezza tradizionale del loro popolo, con le guerre, l’urbanizzazione, il genocidio, le malattie, l’accaparramento violento di terra e la globalizzazione che continuano a minacciare i popoli tribali d’estinzione. E via via, con la morte delle tribù e l’estinzione delle loro lingue, di queste componenti uniche della società umana non restano nient’altro che ricordi…

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lunedì 5 settembre 2011

cos'era è cos'è





Carlotta Zavattiero - Lo Stato bisca

Secondo la scrittrice: “L’Italia è uno dei Paesi nei quali si gioca di più al mondo. Un’attitudine crescente incentivata da un’insistente pubblicità,che apre a sua volta scenari sociologici inquietanti con uno Stato biscazziere che spinge a comportamenti e abitudini che dovrebbero allarmare: dietro una simile promozione del gioco si cela l’assenza di reali strategie economiche, di prospettive di sviluppo, di crescita culturale”.

un epitaffio - francesco

In questo volume si segnala che il giro d'affari legato al grande casinò nazionale italiano è il più alto d'Europa. A prima vista, sembra un affare per tutti: l'erario incassa cifre da capogiro, i concessionari dall'inesauribile inventiva fanno profitti stellari, ogni settimana nelle case di qualche italiano arriva la lieta notizia di un'entrata imprevista. C'è però un piccolo e trascurato particolare: il gioco dà facilmente dipendenza psicologica, illude nella possibilità di facili guadagni e spinge coloro che hanno difficoltà economiche e sociali a dilapidare interi patrimoni di famiglia nell'inseguimento del "sogno milionario".

Molti non hanno la percezione della bassissima probabilità di vittoria e della legge secondo la quale "il banco vince sempre": si ostinano così a puntare ripetutamente cifre consistenti nell'errata convinzione che più volte si gioca e più aumentano le possibilità di sbancare. A un certo punto, il giocatore rimane impigliato in un pericoloso pseudo-ragionamento: "Ho giocato tante volte che ormai mi merito di vincere, se insisto ancora un'altra volta la fortuna mi sorriderà". In realtà, sui giochi dalle vincite milionarie le probabilità di vincere sono statisticamente così basse che giocare una, cento o mille volte non cambia le possibilità di farcela. I giochi in cui si vince poco e spesso sono se possibile ancor più insidiosi, perché la saltuaria soddisfazione di portare a casa 5, 10 o 50 euro occulta il bilancio complessivo in perdita e dà la spinta a "provare un'altra volta".

Le conseguenze di una dipendenza dal gioco sono disastrose: alcuni individui non riescono più a controllare la propria pulsione e arrivano a rubare, o a vendere i beni di famiglia per procurarsi il denaro necessario. Alcuni si rifugiano nell'alcolismo o cadono in una profonda depressione, con il rischio concreto di perdere il lavoro e la vicinanza dei parenti. Le ricevitorie dove si gioca da mattina a sera diventano spesso luoghi squallidi per le frequentazioni e deprimono il valore di mercato della zona circostante. La cascata di effetti negativi crea aree di esclusione sociale, drammi familiari e problemi di salute, con costi per lo Statoche possono essere persino superiori agli incassi ottenuti tramite il monopolio sul gioco d'azzardo. Alla fine, sul medio e lungo periodo, chi festeggia sono solo i concessionari.

La degenerazione degli ultimi anni è avvenuta per il progressivo abbandono di certi princìpi di prudenza - con l'introduzione di premi sempre più alti, possibilità di gioco sempre più diffuse e insistenti, con tanto di spot pubblicitari in televisione, innalzamento del limite delle puntate - e per il morso della crisi economica che ha spinto un numero crescente di persone a cercare la soluzione dei problemi finanziari nelle schedine e nelle slot machines. Tutto questo, combinato con lapsicologia scaramantica di buona parte degli italiani, la tendenza ad affidarsi a colpi di scena provvidenziali e la diffusa ignoranza di basilari elementi della statistica, ci ha reso il popolo più "giocatore" d'Europa.

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qui le prime pagine del libro

domenica 4 settembre 2011

Tra 40 anni, la metà degli italiani sarà vegetariano

...Sono sette milioni, secondo un’indagine dell’AcNielsen rielaborata dall’Eurispes, i vegetariani in Italia, pari a circa il 12% della popolazione. Nel 2000 erano appena 1,5 milioni, nel 2004 circa sei. Secondo le proiezioni, entro il 2050 il numero di persone che abbracceranno il vegetarismo è destinato a crescere in maniera esponenziale, toccando quota 30 milioni: nell’arco di quarant’anni, insomma, un italiano su due sarà vegetariano. I vegani, che oltre a non consumare carne e pesce rinunciano anche agli alimenti di derivazione animale, sono attualmente circa 600 mila. Secondo i dati AcNielsen, a seguire uno stile di vita vegetarista sono per lo più donne (70%) di età compresa fra i 25 e i 54 anni (62%) e con un livello di istruzione medio-alto (85%). Secondo una ricerca della Oxford University, l’aumento di popolazione, la crescente ricchezza e il sempre maggior ricorso alle forme intensive d’allevamento hanno fatto sì che il consumo di carne risulti oggi quadruplicato rispetto ai dati del 1961. Il cittadino britannico medio consuma 125 kg di carne l’anno, mentre il consumo pro capite annuo di carne in Italia si ferma a quota 92 kg. La ricerca della Oxford University ha calcolato che diminuendo il consumo di carne a 25 kg l’anno e a 11 kg l’anno si eviterebbero rispettivamente 32.352 e 45.361 morti all’anno. Un recente studio statunitense ha inoltre confermato come chi consumi una quantità maggiore di proteine animali abbia una probabilità di diventare obeso maggiore di 4,6 volte rispetto a chi ne consumi quantità più basse.

A quei medici che dicono che un bambino non può crescere senza carne, dico che io non ho mai mangiato carne, perché quando sono nata i miei genitori erano già vegetariani. Eppure sono stata campione di salto in alto e lungo, … e non ho mai avuto malattie serie“. Margherita Hack.

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giovedì 1 settembre 2011

Chilometro zero - Giuliano

Nel mio piccolo giardino c’era un pesco, che dava pesche bianche di ottima qualità. Ma poi il tempo passa, gli alberi di pesco non sono molto longevi, il mio era diventato molto alto (più di tre metri) e quasi completamente secco. Rimaneva solo qualche ramo verde, tra i più difficili da raggiungere, e di pesche ormai non se ne vedevano da tempo. Che fare? Molto a malincuore, lo diamo per perduto; si decide di tagliarlo e di farne crescere un altro un po’ più in là. Tutto questo avveniva nel 2009: la pianta del pesco viene completamente tagliata fino a livello terra, e io evito di assistere all’opera della motosega perché veder tagliare le piante mi fa star male.
Il giorno dopo, la prima sorpresa: dal tronco tagliato rasoterra sorge molta linfa, abbondante. Dopo qualche giorno, nascono i primi butti (così li chiama mia mamma: il nome italiano pare che sia “polloni”). Sono tanti, e rigogliosi: che fare? Aspetto un po’, poi bisogna decidersi: prendo una forbice da giardiniere e comincio a tagliare, a sfoltire. Lo faccio un po’ a caso, perché io non ho mai potato nulla, fin qui: l’unica mia attività in questo campo era di tagliare i rametti che sporgevano un po’ troppo pericolosi, e del resto questa non la considero una potatura, la pianta non vuole morire e – confesso – per molti miei motivi personali che non sto qui a spiegare ne sono un po’ commosso. La nuova pianta comincia a crescere rigogliosissima, nel giro di poche settimane è già alta come me, cioè quasi due metri: ed è piena di rami e di foglie.
Poi arriva l’inverno, e non ci si pensa più: è difficile che le piante nate in questo modo facciano i frutti che facevano prima, di solito “rinselvatichiscono” e le nuove pesche sono di qualità inferiore...