martedì 21 aprile 2015

"Mare nostro che non sei nei cieli..." - Erri De Luca



" Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale.
Accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde,
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca 
dei naufraghi salvati.
Mare nostro che non sei nei cieli,
all'alba sei colore del frumento,
al tramonto dell’uva di vendemmia,
ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste.
Mare nostro che non sei nei cieli,
tu sei più giusto della terraferma,
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, da abbraccio e bacio in fronte
di madre e padre prima di partire."

sabato 18 aprile 2015

Radamenes, il gatto infermiere

In una clinica veterinaria della città di Bydgoszcz, in Polonia, c’è un gatto speciale con una storia incredibile. Radamenes dopo aver rischiato la morte ed essere stato salvato dai medici, ha voluto ricambiare, iniziando ad aiutare gli animali bisognosi e convalescenti della clinica. Li abbraccia, li massaggia e gli da tutto il conforto possibile. Ormai è diventato un’attrazione in città, tutti vogliono vederlo, si dice che porti fortuna…


qui tutte le foto

mercoledì 15 aprile 2015

la difficoltà di essere ulivo in Puglia

Ci sono giorni in cui devi alzare il sedere - Alice Mi.

Martedì è stata una giornata di mobilitazione per alcuni, pochi. La mobilitazione, quella vera non si fa dietro alla tastiera del computer. Quello è un lavoro utile per diffondere le informazioni, sensibilizzare … ma quando si tratta di impedire di commettere un’enorme ingiustizia, un crimine contro la natura direbbero gli ambientalisti – un crimine e basta dico io che sono una semplice cittadina – ecco quando si tratta di impedire che un albero sano venga abbattuto, solo perché potenzialmente infetto (da un batterio con cui in molti paesi hanno imparato a convivere e a nessuno è venuto in mente di abbattere gli alberi) allora in quel momento devi alzare il sedere e andare in campagna per opporti fisicamente a questa ingiustizia. È l’unico modo.

Quello che provo dopo questa giornata è, da un lato una certa soddisfazione perché gli alberi non sono stati toccati, proprio perché c’eravamo noi. Dall’altro la sensazione è quella dell’impotenza perché gli ulivi verranno abbattuti lo stesso, magari di notte, al buio, o appena qualcuno non sarà nel luogo giusto, al momento giusto.
Ma la sensazione predominante è senza dubbio l’incredulità: oggi ho visto amici, ragazzi che impiegati nei call center hanno rinunciato alla già misera paga giornaliera, attivisti, giovani anarchici, associazioni, professori universitari, gente comune, contadini, proprietari terrieri, molti giornalisti, purtroppo persino qualche fascista… ma chi proprio mi aspettavo di vedere e non c’era erano le istituzioni, i nostri presunti “rappresentanti” politici, uno almeno un consigliere, un candidato alle prossime elezioni (a parte un cinque stelle a onor di cronaca), loro prima di chiunque altro mi sarei aspettata a difendere la nostra terra, a rappresentarci, a tutelare i contadini che impotenti verranno privati del frutto del lavoro di una vita.
È in questi momenti che cadono le maschere.
#‎difendiamogliulivi

 

da qui



Noi siamo gli ulivi. Fermiamo la strageDonpasta



Al Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina
Al Governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola
Al Presidente della Provincia di Lecce, Antonio Maria Gabellone

Vi scrivo sul tema degli ulivi del Salento e della Puglia tutta, caro a tutti noi, perché nell’anno di Expo, l’Italia rischia di perdere uno tra i monumenti simbolicamente più importanti agli occhi del mondo, l’ulivo secolare Tema complicato, di difficile risoluzione, in cui l’unica certezza per l’Unione Europea è l’ordine di isolare il focolaio per non toccare le altre regioni e gli altri Stati. Per farlo «saranno obbligatori quattro trattamenti insetticidi su tutto il territorio e l’eradicazione di tutte le piante infette con interventi di manutenzione a completo carico dei produttori ». Vorrei partire da una costatazione. In cinquant’anni di finanziamenti agricoli il risultato è che le campagne sono in gran parte deserte. Il paradosso è che gli ulivi sono stati o troppo trattati, oppure abbandonati a loro stessi.
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Ma c’è tanta, tantissima gente che dei propri olivi si prende cura e lo fa in modo sano, pulito. Da loro si deve ripartire. Magari le piante di fronte ad attacchi così violenti forse non si salverebbero comunque. Ma è chiaro che una pianta sana, come un uomo sano, ad una malattia reagisce meglio, con più vigore, più anticorpi. Il nocciolo della questione è triplice: -Identitario: noi senza gli ulivi non siamo niente, siamo come Sansone con i capelli. Se li tagli perdiamo la forza. Perdiamo l’essenza stessa del nostro essere in pace con la terra, in equilibrio con il territorio, con la storia, anche con un autarchico modo di concepire l’economia domestica. -Turistico: perché si crede che la gente abbia scelto il Salento come incontrastata meta nazionale e anche internazionale.
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Per il bel mare? Per il buon cibo? Per la tanta musica? Tutte quelle cose per ogni salentino sono il frutto di un’unica e sola cosa. Non aver omesso, cancellato, cosa rara nella contemporaneità, la nostra essenza più intima racchiusa in quella pianta, simbolo di un mondo che in qualsiasi parte di Occidente era già scomparso. Perché si era pensato che la contemporaneità non avesse bisogno di passato, quindi di memoria. Da noi resiste ancora. Per quanto? – Economico: c’è un mondo la fuori che sta miseramente crollando, che spazza via ogni cosa. Ma noi abbiamo una chiave di volta. Sembra utopico in effetti dire e dirsi che si debba tornare alla terra. Ma esiste un mercato europeo, mondiale, di gente pronta a comprare olio di qualità al giusto prezzo.
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I consumi sono cambiati, in bene e in male, ma diverse forme di organizzazione del commercio vengono incontro a questo tipo di offerta e fanno saltare ogni filiera commerciale per il bene dei nostri contadini. Magari inventando un modo nuovo di concepire i consorzi, le cooperative, l’organizzazione della vendita perché diano veramente accesso alla terra alle nuove generazioni. Non mi inoltro sugli aspetti tecnici delle regole imposte, ma una serie di quesiti vanno posti: si è pensato alla salute degli uomini e della terra dopo interventi così impattanti? Come avverranno questi trattamenti, con che prodotti? C’è un obbligo di trasparenza su azioni del genere. Le eradicazioni che impatto avranno, con che tipologia di alberi verranno sostituiti? Come poter tutelare chi pratica agricoltura biologica e naturale? Ciò che serve, è vero è che ognuna di quelle singole piante sia trattata con cura. Che non significa imbottirla di veleno. Significa prendersene cura come per millenni si è saputo fare, per dargli forza e anticorpi.
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Servono soldi, tanti soldi. Togliete soldi alla sanità, alle strade fatte per i turisti, alla cultura e al turismo che nulla potrebbero raccontare senza quegli ulivi. I turisti non verranno più in un deserto che era un tempo valle rigogliosa. Il Salento e la Puglia, caso raro al mondo, possono fregiarsi di costruire un intero modello di turismo sulla propria identità. Questo modello ha funzionato. Ma questo modello non esiste, non può esistere senza la base, il fondamento di ogni cosa. Noi non siamo nulla, siamo ulivi, lo siamo sempre stati, nella loro metafora di braccia, tante braccia, ad abbracciare, ad avvolgere una comunità tutta.
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Salvare gli ulivi salentini è questione di vita o di morte e noi abbiamo da credere al nostro passato millenario, più che alle soluzioni contemporanee, di demiurghi privi della nozione di memoria e storia, spesso corrotti, condizionati dagli interessi biechi magari di multinazionali, di Commissioni Europee che hanno cecità evidenti sul rapporto tra economia e benessere del cittadino in un territorio. Siamo in una fase talmente drammatica in cui o si ha a che fare con le catastrofi o con la risoluzione delle stesse attraverso utopie. Le mezze misure non funzionano più. Dobbiamo noi tutti prenderci cura degli ulivi, di ogni singolo olivo. Fate fiducia al coraggio dei cittadini, dei contadini, quelli veri, credete in loro, appelliamoci ai nostri anziani, detentori di un sapere infinito su cosa volesse significare essere in equilibrio con la terra. Altrimenti, e sarebbe un peccato, non potrei più dire in giro per il mondo come faccio da tanti anni, quello che mi insegnò mia nonna, “Daniele, se hai un problema aggiungi olio”.


In piazza, con il ramoscello d’ulivo - Massimiliano Guerrieri

 

Abbiamo bisogno di vegliare sulla nostra storia. Siamo un popolo costantemente minacciato. Inchiodato nella gabbia delle nostre medesime paure. Sempre in allerta. In lotta permanente, contro le minacce manifeste e latenti.
Quella del disseccamento degli ulivi non è una fatalità della storia riservata a un manipolo di viventi in un lembo del Mediterraneo. È una storia tra le tante, una storia comune. È la storia che mette in relazione un’infinità di narrazioni apparentemente diverse, è il fil rouge dei dannati della terra.
Noi, non siamo privilegiati rispetto agli altri sud. C’è un sud in ogni parte del mondo e ciascuno porta la sua dannazione.
Noi, siamo i nuovi anfratti di un sud da colonizzare. Merce da gestire, senza limitazioni. E, talvolta, prestati come animali nei combattimenti clandestini. In un clima sempre più emergenziale. Come legittimo arbitrio alla sospensione delle regole democratiche. Affidate ad un sedicente sapere tecnico-scientifico che non ammette diritto di parola. Il tutto, dentro una guerra dichiarata: la quarta guerra mondiale. La guerra dei mercati e del neoliberismo. Dell’egemonia del profitto e del pensiero unico omologante. Del denaro come unica chiave di lettura delle complessità. Degli schemi economici come medicine di ogni male. Le sole ricette accreditate per spiegare fenomeni sociali e ambientali.
In questo scenario, la sola unità possibile che possa favorire un’incrinatura di sistema è nell’essere sud consapevole di appartenere a un mondo in cui il nord rappresenta la speculazione della finanza, l’avarizia del capitale, la brama del potere. Dopo anni di sperimentazioni nei vari sud del mondo, anche noi, siamo divenuti congegno di un dispositivo funzionale alla creazione della loro ricchezza: un meccanismo, a tal punto diabolico, da trasformarci in rigattieri nella nostra stessa miseria.
Per questo credo che, difendere gli ulivi, oggi, significhi qualcosa in più di ciò che appare. Serve più informazione e più coscientizzazione, non possiamo fermarci a testimoniare azioni di dissenso davanti ad un dramma caduto dal cielo. Perché la spocchia con cui si tenta di blindare il dibattito intorno ad un manipolo di esperti accreditati dal potere, ad una politica asservita, ad un ristretto numero di associazioni di categoria e ad un giornalismo ammanicato è la cifra del fanatismo con cui avanzano gli affari di quel nord prima citato.
Nessun dubbio può essere ammesso di fronte alla parola di dio. Non puoi fare domande sulle cause perché bisogna fare in fretta. Non puoi contestare il metodo perché bisogna agire prima che sia troppo tardi. Non puoi parlare perché non conti, non sai e non capisci. Nemmeno quando vorresti dire, pacatamente e con buon senso, attenzione, perchè una soluzione affrettata che mette in pericolo la salute di un milione di persone, che devasta il patrimonio ambientale e paesaggistico di un territorio è qualcosa che irreversibilmente potrebbe danneggiare il nostro futuro, dei nostri figli, delle prossime generazioni. A quel punto realizzi che la battaglia va oltre una fatalità caduta in terra salentina.
La storia comune non può che essere un ulivo che diventa cappello condiviso del dissenso di un’intera comunità che considera ogni albero un patrimonio collettivo dell’umanità, prima che risorsa economica da cui trarne profitto. Che guarda all’ulivo come simbolo di protezione delle biografie dei dannati: paravento dei senza voce, ombrello dei migranti, riparo degli sfruttati, uno scudo contro i sacerdoti della modernità, una corazza per un popolo che rivendica la dignità di esistere, di domandare, di decidere.
Per questo oggi sarò in piazza, con il ramoscello d’ulivo in mano elevato a simbolo di resistenza, contro lo sradicamento selvaggio, contro l’uso indiscriminato dei veleni, dalla parte di chi griderà #difendiAMOgliulivi.
Perché, difenderli, significa soprattutto custodire tutti i volumi di un’antica e sterminata biblioteca comune.


Strage degli ulivi in Puglia, una follia tutta italiana – Antonia Battaglia


In visita a Lecce qualche giorno fa, il Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali non ha perso tempo ad indicare l’intenzione del Governo di chiedere lo stato di calamità naturale per il Salento. Avanti tutta con il cosiddetto “piano Silletti”, che prevede l’abbattimento di migliaia di alberi per combattere il batterio della Xylella fastidiosa, del quale, fino al momento, non vi è prova scientifica di patogenicità sugli alberi di ulivo in Puglia. 

Il Ministro Martina, assieme alla Regione, ha invitato da Lecce gli agricoltori ad arare le proprie terre, concludendo poi che in effetti non si taglierà un milione di ulivi, ma forse “solo 35.000”. Cifra poi smentita dallo stesso Commissario Silletti, che ha parlato di un monitoraggio in corso, di potature e sfrondature. 

Sembra, pertanto, che la questione Xylella sia dominata in ambito istituzionale dal caos, da un rincorrersi di stime, cifre, metodiche, minacce. L’Assessore regionale alle Risorse Agroalimentari ha dichiarato che se sarà necessario, ci saranno multe per chi non avrà arato i campi e ha affermato che “santoni e pseudo-ambientalisti, (sono) gli unici che veramente speculano sulla questione Xylella”. 

Andiamo per punti. L’allarme europeo di quarantena da Xylella fastidiosa viene lanciato dalla Regione Puglia, certa che il disseccamento rapido degli ulivi nella Regione sia causato dal batterio e che tale batterio possa quindi diffondersi altrove sul continente. La Commissione Europea, di conseguenza, lancia un allarme da quarantena nonostante l’EFSA (European Food Security Agency) si fosse già espressa in maniera molto mitigata sulla questione. Il pressing che viene però dall’Italia è molto forte e convinto, e quindi si adotta la misura di quarantena. 

Peacelink, per conto delle associazioni salentine riunite attorno all’Associazione Spazi Popolari, interviene in Commissione, apportando al dibattito le risultanze di ulteriori studi, che evidenziano come la Xylella potrebbe non essere la prima causa di malattia degli ulivi pugliesi, ma semplicemente una concausa o comunque un agente tra altri, riscontrato, dopo l’effettuazione di analisi, NON su tutti gli alberi affetti da disseccamento. 

Studi realizzati dall’Università di Foggia, dall’Università della California nel 2014, pareri scientifici e diverse testimonianze in arrivo da numerose parti del mondo concordano nel sottolineare che la causa prima della malattia potrebbero essere i funghi. Il direttore dell’EFSA risponde a Peacelink con una lettera del 1 aprile 2015, dichiarando clamorosamente che ad EFSA non è mai stato chiesto uno studio sulla eziologia della malattia, quindi sul rapporto causa-effetto del disseccamento rapido degli ulivi. 

Dopo l’intervento di Peacelink, la Commissione Europea ha invitato l’EFSA a fornire un ulteriore urgente parere sulla questione, al fine di discuterne al prossimo Consiglio Europeo Agricoltura e di prendere una decisione per fine aprile, quando si riunirà il Comitato sulla Salute delle Piante. 

Quindi, ancora adesso, non ci sarebbe nessuna certezza scientifica sulla causa della malattia degli ulivi, come invece la Regione Puglia ha dichiarato sin dall’inizio e come sostengono le azioni che vengono messe di nuovo in campo da Regione stessa e Ministero. 

Quello che appare singolare, di nuovo, è il fatto che Governo e Regione si apprestino a preparare un decreto legge per la dichiarazione dello stato di calamità naturale senza avere la certezza scientifica che si tratti di Xylella. 

Ci sono state centinaia di voci che si sono levate, in queste settimane, contro l’abbattimento degli alberi, ma la Regione ha messo in campo un comportamento molto aggressivo, ottuso, chiuso nella propria decisione di continuare sulla strada dello sradicamento degli alberi. 

Coldiretti, sin dall’inizio primo sostenitore della necessità dell’abbattimento immediato, in questi giorni ha sprecato parole durissime nei confronti della Francia, la quale ha bloccato l’importazione di poco più di un centinaio di piante dalla Puglia. Misura esagerata, dice Coldiretti, tuttavia “molto utile” per sostenere l’urgenza dello stato di calamità naturale. 

La misura adottata dalla Francia è fuori dubbio eccessiva ma essa è conseguenza diretta dell’allarme lanciato dalla Regione Puglia e dal Ministero, che continuano a dichiarare urbi et orbi la pericolosità della Xylella per tutto il settore agricolo. 

La Puglia, così facendo, si elimina da sola dal mercato mondiale, grazie alla miopia della propria classe politica e agli interessi spiccioli di una parte di essa che, probabilmente pressata dalla necessità di dover portare a casa un risultato propagandistico a fini elettorali (vedi prossime elezioni regionali del 31 maggio), si getta a capofitto in una storia dai contorni così tanto fumosi che la Magistratura di Lecce continua ad indagare a ritmo serrato. 

E’ difficile immaginare che la Francia, per esempio, dichiarerebbe mai lo stato di calamità naturale nella regione del Bordeaux, laddove ci fosse un qualche rischio di patologia vegetale, mettendo a repentaglio le produzioni, l’esportazione, l’economia, il turismo, l’intero ecosistema di una regione ricca tanto quanto la nostra Puglia, pur di ottenere indennizzi e sussidi europei e nazionali.

La Puglia è un produttore strategico non solo di olio, ma anche di uva, agrumi, prodotti agroalimentari di diversa natura, frutta (mandorle, pesche, albicocche, gelsi, etc.), pomodori, piante aromatiche, cereali, piante ornamentali. Un fatturato annuo di circa 1.3 miliardi di euro. 

Una ricchezza incredibile che dovrebbe esser difesa, protetta e non incautamente svenduta. Il danno all’immagine della regione è una ulteriore conseguenza gravissima di quanto accade: da diversi paesi europei, giungono testimonianze di preoccupazione per ciò che traspare della situazione. Sembra possa essere messa a rischio la stessa identità unica del Salento, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. 

Ci si chiede come sia possibile affrontare sfide di questa portata in modo così malaccorto. Il danno produttivo, economico, non solo sul piano agroalimentare ma anche turistico, può diventare dirompente. La classe politica che si è trovata a gestire la questione avrebbe dovuto farlo cominciando dalla scienza e dalla terra. 

Le misure di sostegno dovrebbero essere indirizzate alla ricerca, al rilancio dell’agricoltura biologica, alla garanzia del rispetto del paesaggio e dell’ecosistema della nostra Regione. 

Coldiretti ha chiesto “un risoluto impegno di tutto il Parlamento italiano affinché sia resa possibile la dichiarazione di stato di calamità naturale nel Salento, dove sono a rischio 11 milioni di piante di ulivo”. 

Ma se davvero a Coldiretti interessa proteggere gli 11 milioni di ulivi, perché non si impegna affinché la cura che ha guarito già più di 500 di questi ulivi venga estesa a tutte le piante malate? Perché non si convoca con immediatezza un panel indipendente di ricercatori che possa non solo produrre un nuovo urgente avviso scientifico, da sottoporre ad EFSA, ma anche testare la cura che già funziona? 

Sarebbe interessante conoscere le risposte alle seguenti domande da parte del Ministro Martina e del Presidente Vendola: 

1) sulla base di quali test di patogenicità siete convinti che il disseccamento degli ulivi sia prodotto dalla Xylella? 

2) perché gli agricoltori che da più di un anno curano con efficacia gli alberi colpiti non vengono ascoltati? 

3) perché non vengono presi in considerazione i numerosi studi scientifici italiani ed internazionali che evidenziano, in linea con l’EFSA, che esistono tipi di funghi riscontrati sulle piante malate che potrebbero essere la causa prima del disseccamento degli alberi? 

4) perché l’azione del Governo e della Regione si concentra non sulla ricerca della causa della malattia ma sull’obiettivo dell’abbattimento e sulla richiesta di indennizzi all’Unione Europea? E questo nonostante la dichiarazione dell’EFSA sull’incertezza dell’eziologia della malattia? 

Vengono prese decisioni così radicali sulla base di poco più di nulla, decisioni le cui conseguenze potrebbero essere devastanti su diversi piani e per centinaia di anni. Un ecosistema finirebbe, un’intera Regione verrebbe sfigurata e trasformata in una landa industriale competitiva e senza identità. 

«Quista è casa mia, terra mia
Lu Salentu nu se tocca!» (Sud Sound System).


Gli ulivi sono creature vive - Cristina Carlà 


Iou ae te quandu su piccinna ca stau a mienzu all’arviri. Te ulia. Percè si, l’auri magari potenu puru essere chiu raffinati e colorati ma quiddhru ca me tanu l’arviri te ulia nu me lu tae ceddhri, mancu li cristiani. Anzi, soprattuttu li cristiani. Appena trasi intra la Masseria, intra lu feu te zziuma ncete quiddhru addu m’aggiu ssittata pe la fotu cu l’abitu te sposa. Matonna cce stia contenta ddhru giurnu, me ssittai torta storta e me misi a ritere percè a ncapu mia ddhru sorrisu ia durare minimu cent’anni. Comu a dhhr’arviru.
Poi ci camini picca picca sulla desthra nci ndete n’auru ca tene le troncu spaccatu a metà. Addhrai nu giurnu quand’era piccinna me purtau nu vagnone, anzi, la verità lu purtai iou, e ndi tiesi nu baciu, lu primu baciu te la vita mia. Sapia te terra russa, te fugghiazze sicche ca se scaffanu intra le scarpe e te pizzicanu, tantu cu te ricuerdi ca si bbiu. Insomma iddhru me uardau e disse: “St’arviru ete nuesciu pe sempre!”  E poi quarche annu dopu ne battezzammo n’auru, arviru sempre. Successe dopu na pasquetta, parlandu parlandu ni firmammu sutta na chioma immensa, beddhra, e siccomu era metà aprile la ntrata brillava allu sule, o sirai era iou ca ia biutu e la itia brillare. Tante stiddhre tutte pe nui ca ni amammu comu mancu sapiamu fare ncora, e ritiamu e ni mbrazzavamu, chianu chianu cunussia ni faciamu male. Cce fose bellu, ddhra fiata.
E già. Però nu bbe spicciata quai ca li arviri su tanti. Nu picca cchiu nanzi nci ndete unu ca stae tuttu piegatu, ria quasi a ‘n terra, iou l’aggiu chiamatu Pigro. Sirma m’ha dittu ca quandu era piccinnu iddhru l’ha aiutatu cu nu se spezza e infatti quiddhru s’a piegatu tuttu ma nu s’è spizzatu. E nu se spezza. Figghiuma ogne tantu ae e se setta ddhra subbra percè tene lu troncu comu na panchina. Certi giurni ci te ttruei all’ura giusta e lu uardi cu la luce giusta pare ca tene la facce disegnata cu l’ecchi, lu nasu e la ucca ca te sorride. Ndaveru sai? Ete beddhru fattu, cu nu piettu forte e le razze sempre perte all’aria prontu cu te mbrazza. E poi nci ndtete n’auru ca a mie me face nu picca paura perè tene le ratici ca essenu tutte te fore a triangulu, tantu ca te lu largu parenu ddo porte e ci sape cce ncete ddhra rretu.
Allu Beneficiu invece ncete n’arviru cu nu troncu talmente scavatu e scaurtatu te lu tiempu ca intra s’è formata comu na grotta e iou quand’ete tiempu te natale au ddhra sutta e mintu li pupi te lu presepe. La Matonna, san Giuseppe e Gesù Bambinu e poi ccappa sempre ca li re magi se li scundenu li musci e nu li ttrou cchiui. Ci rueddhri intra lu fondu sta chinu te Gasparri e Melchiorri. Sicuru! E cce aggiu fare? Pacienza.
L’arviri te Li Scaloti l’anu chiantati li bisnonni mei, praticamente li genitori te la nonna mia, allu 1900. Roba ca quandu all’inviernu au cu ba cogghiu le ulie e pensu ca ddhr’arviri su stati chiantati cu le manu te lu sangu miu, signori, la sacciu ca su sthrana però a mie me ene te chiangere, anzi no, me ene cu me li baciu tutti, cu li ccarizzu, cu ndi pettinu le fronde. Cce su beddhri l’arviri mei. Ca ui li ititi fermi e silenziosi ma ci bbu ssitati ddhra sutta e bu stati citti citti ititi quante storie bu potenu cuntare. Ci bbu stati sittati sutta n’arviru o ci bu stinditi comu uliti, a nu certu puntu ncignati a sentere uci e tamburieddhri, canti antichi ca nu se sentenu cchiui, ncignati a sentere lu rumore te la terra quandu ene mpastata te l’aratru, lu frusciu te le fogghie quandu lu ientu le moe, lu sbattere te ale te n’auceddhru ca se moe te nu ramu all’auru. Storie, nu saccu te storie te sirda e poi te nonnuta e poi te lu nunnu te lu nonnu tou, e poi te lu nonnu te lu nonnu te lu nonnu tou.
A fiate ccappa cu stai nu picca maru, no? Ca tuttu te pare niuru e nu sai propriu te ddu a ncignare. Quandu me sentu cussi iou me nde bbau fore e me scaffu intra a n’arviru, intra propriu, percè sulamente cussì me sentu protetta. Me ticu ca ci ddh’arviru a risistutu tantu tiempu a tante te ddhre disgrazie, beh, nu picca te forza me la pote tare puru a mie. E ma la tae! L’arviri suntu creature vive, suntu cristiani ca tenenu n’intellingenza loru, nu movimentu, na vita ca osce te tae e crai te llea. L’arviru ete comu li cristiani, te tratta pe comu lu tratti, e allora iou aggiu fattu nu pattu cu l’arviri mei. Iddhri me tanu lu fruttu pe quantu è possibile e iou li curu e li rispettu comu quandu ca eranu santi. E pregu pe iddhri cu stanu sempre bueni percè bu immaginati ci te lu oce allu crai l’arviri te ulia nu nc’eranu cchiui? A quai dintava nu desertu e intra lu desertu poesie nu nde cuntanu e nu nde scrivenu.
Ncete gente ca se uanta ca tene lu “sangue blu”. Sapiti cce bu ticu? Iou lu sangu lu tegnu olivastru. Densu, brillante, cu na gradazione intornu allu 0.8, o chiu acida a secundu te quantu me fannu nnervosire. Lu sangu miu ete profumatu, ete na miticina ca te ddu passa pulizza e depura. Ete sacru percè te unge e nu se nda bbae chhiui.
Lu sangu miu ete benitittu, ete nu gigante cu lu troncu spezzatu esattamente a metà, ca quandu lu uardi te lu largu pare ca le ddo parti se sta cercanu e se sta avvitanu comu a nu corteggiamentu ca tura te secoli e nu spiaccia mai. Ratici mbrigghiate una all’aura e rami superbi, te na parte lu passatu e te l’aura l’avvenire ca ballanu pe sempre a ritmu te ientu.


È da quando son piccola che vivo in mezzo agli alberi. Di ulivo. Perché si, magari gli altri possono essere più raffinati e colorati ma quello che mi danno gli alberi di ulivo non me lo dà nessuno, neanche le persone, anzi soprattutto le persone. Appena entri nella Masseria, nel terreno di mio zio c’è quello su cui mi sono seduta per la foto con l’abito da sposa. Com’ero contenta quel giorno! Mi ci sedetti sopra mezza storta e iniziai a ridere perchè nella mia testolina quel sorriso doveva durare minimo cent’anni, come quell’albero.
Un po’ più avanti sulla destra ce n’è un altro che ha il tronco spezzato esattamente a metà. Lì un giorno quand’ero piccola mi portò un ragazzo, anzi per la verità lo portai io, e gli diedi un bacio, il primo bacio della vita mia. Sapeva di terra  rossa, di foglie secche che si infilano nelle scarpe e ti pizzicano, giusto per ricordarti che sei vivo. Insomma, lui mi guardò e disse: “Quest’albero sarà nostro per sempre!”. E poi qualche anno dopo ne battezzammo un altro, albero si intende. Successe dopo una pasquetta, mentre parlavamo ci fermammo sotto una chioma immensa, magnifica, e siccome era metà aprile le foglie nuove brillavano al sole, o forse ero io ad aver bevuto e a vederle brillare. Tante stelle tutte per noi che ci amammo come neanche sapevamo fare ancora, e ridevamo e ci abbracciavamo, piano piano per non farci male. Come fu bello, quella volta.
E già. Però non è finita qui perché gli alberi son tanti. Un po’ più avanti ce n’è uno che sta tutto piegato, tocca quasi terra, io l’ho chiamato Pigro. Mio padre mi ha detto che quand’era bambino l’ha aiutato a non spezzarsi e infatti quello si è completamente piegato ma non s’è spezzato. E non si spezza. Mio figlio ogni tanto ci si siede sopra perchè ha il tronco come una panchina. Alcuni giorni se ti lì trovi all’ora giusta e lo guardi con la luce giusta sembra che abbia il viso disegnato con gli occhi, il naso e la bocca che ti sorride. Davvero! È possente, con un petto forte e le braccia sempre aperte verso il cielo pronto ad abbracciarti. E poi ce n’è un altro che mi fa un po’ paura perché ha le radici che escon tutte fuori a forma di triangolo, tanto che da lontano sembrano due porte e chissà cosa c’è lì dietro.
Al Beneficio invece c’è un albero con un tronco talmente scavato dal tempo che dentro s’è formata una specie di grotta e quand’è tempo di Natale io vado lì sotto e ci metto i personaggi del presepe: La Madonna, San Giuseppe e Gesù bambino e poi i re magi li nascondono sempre i gatti e non li trovi più. Se ti metti a cercare nel terreno sarà pieno di Gasparri e Melchiorri. Sicuro. E che devo fare? Pazienza.
Gli alberi degli Scaloti li han piantati i miei bisnonni, praticamente i genitori di mia nonna, nel 1900. Roba che quando in inverno vado a raccoglier le olive e penso che quegli alberi son stati piantati con le mani del sangue mio, lo so che son strana ma mi viene da piangere, anzi no, mi viene da baciarmeli tutti, da abbracciarli, da pettinar loro i rami. Come son belli gli alberi miei. Perchè voi li vedete fermi e silenziosi ma se vi ci sedete sotto e state un po’ in silenzio vedrete quante storie potranno raccontarvi. Se ve ne state seduti sotto un albero o vi ci stendete, fate voi, ad un certo punto comincerete a sentire voci e tamburelli, canti antichi che non si sentono più, comincerete e sentire il rumore della terra mentre viene impastata dall’aratro, il fruscio delle foglie quando il vento le muove, lo sbattere d’ali di un uccellino che si muove tra un ramo e l’altro. Storie, un sacco di storie di tuo padre e poi di tuo nonno e poi del nonno di tuo nonno, e poi del nonno del nonno di tuo nonno.
A volte capita di esser un po’ triste, no? Di veder tutto nero e non saper più da dove iniziare. Quando mi sento così io me ne vado in campagna e mi ficco in un albero, proprio dentro, perché solo così mi sento protetta. Mi dico che se quell’albero ha resistito a tante di quelle disgrazie, beh, un po’ di forza potrà darla anche a me. E me la dà! Gli alberi sono creature vive, sono persone con una propria intelligenza, un movimento, una vita che oggi ti dà e domani ti toglie. L’albero è come le persone, ti tratta per come lo tratti, e allora io ho fatto un patto con gli alberi miei. Loro mi danno il frutto per quanto è possibile e io li curo e li rispetto come se fossero santi. E prego per loro perché stiano sempre bene: vi immaginate se dall’oggi al domani gli alberi di ulivo non ci fossero più? Qui ci sarebbe un deserto e nel deserto poesie non se ne recitano e non se ne scrivono.
C’è gente che si vanta di avere il “sangue blu”: sapete che vi dico? Io il sangue ce l’ho olivastro. Denso, brillante, con una gradazione intorno allo 0.8 o più acida a seconda di quanto mi fanno innervosire. Il sangue mio è profumato, è una medicina che da dove passa pulisce e depura. È sacro perché ti unge e non se ne va più.
Il sangue mio è benedetto, è un gigante col tronco spezzato esattamente a metà, e quando lo guardi da lontano sembra che le due parti si stiano cercando e avvitando come in un corteggiamento che dura da secoli e non finisce mai. Radici avvinghiate una all’altra e rami superbi, da una parte il passato e dall’altra il futuro che ballano per sempre a ritmo di vento.

Il popolo degli ulivi - Rosaria Gasparro 


«Quello che so io è che sono un albero d’ulivo», dice Nandu Popu. Ed è quello che sa e che sente ognuno dei presenti. Siamo in migliaia, siamo qui per dichiarare il nostro patto d’amore per la nostra terra. Lo cantiamo insieme a lui che non dimentichiamo le radici da cui veniamo e che oggi ci chiamano.
«Quista è casa mia, terra mia, lu Salentu no nù sse tocca».
Ci sono tantissimi giovani. Bellissimi figli degli ulivi, con i ramoscelli tra i capelli. Ci sono i medici per l’ambientedell’Isde, gli oncologi della Lilt, il Forum ambiente e salute. Perché «sarà un attentato alla salute di tutti, saranno usati pesticidi, alcuni dei quali clorati, che entreranno direttamente nella membrana delle cellule» come dice il dottor Carlo De Michele. Sono settanta fra enti e associazioni presenti. Ci sono quelli che hanno fatto quaranta chilometri in bici per essere qui. Ci sono quelli che hanno saltato il pranzo perché oggi è qui la festa. Paola e Marc con il loro campo coltivato con la permacultura. I giovani contadini e gli imprenditori agricoli. Gli anziani che parlano con gli alberi, che sanno che l’ulivo vuole cinque cose: largo, pietra, letame, accetta e sole. Ci sono gli agronomi e gli artisti, i Sud Sound System, Mimmo Cavallo ed Enza Pagliara.
Ivano Gioffreda, l’agricoltore combattente, presidente di Spazi Popolari, uno degli organizzatori dell’evento, infiamma gli animi quando dice che ci vuole l’università della saggezza popolare, che la ricerca deve essere libera e che invece non lo è, che dopo cinquant’anni di agrochimica le università farebbero bene a insegnare come si zappa la terra, come si ama, come si cura, che nessuno può permettersi di eradicare la nostra cultura, il simbolo di ciò che siamo. Ivano, che i denigratori chiamano santone e complottista, che ha guarito i suoi alberi malati disinfettandoli con poltiglia bordolese autoprodotta a base di solfato di rame e grassello di calce.

Ci sono le donne, tante, quelle su cui contare, quelle come Antonia Battaglia di Peacelink che ha sollevato dubbi, presso la Commissione europea, sulla causa del disseccamento rapido degli ulivi, che potrebbe non essere attribuibile al batterio xylella, ma ad altri fattori patogeni come i funghi tracheomicotici. Donne di scienza come Antonia Carlucci, evocata dal palco ricavato sugli scalini, ricercatrice presso l’università di Foggia in patologia vegetale, secondo la quale il fenomeno del disseccamento deve esser ulteriormente studiato, dal momento che non è ancora chiaro se la xylella sia il patogeno primario o secondario e quale ruolo abbiano i funghi nella malattia che sta colpendo gli ulivi salentini.
Donne di legge, come il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone che indaga da un anno sul batterio e che ha denunciato il fatto che l’Istituto agronomico mediterraneo, dove si è svolto il workshop del 2010 nel quale è stato portato il batterio da xylella per scopi scientifici, gode per legge di immunità assoluta e l’autorità giudiziaria non può andare a indagare. Un caso unico nello scenario mondiale.

«È nato un popolo» dice Luigi Russo, presidente del Csv, uno dei promotori della giornata, che si è appellato al principio della precauzione come principio a cui attenersi in assenza di dati certi. Che si chiede come mai nell’ultimo rapporto sulle agromafie, coordinato dal procuratore Caselli, il primo capitolo è dedicato proprio alla xylella fastidiosa.
È nato il popolo degli ulivi, che si ribella all’eradicazione, che si legherà ai tronchi millenari per impedirne la strage. «Gli ulivi non hanno bisogno di essere benedetti, ma di essere accuditi» ha detto don Raffaele Bruno. «E che continuino a interrogarci con la loro salute malferma». Anche la Chiesa è scesa in campo per il bene comune con il messaggio dei vescovi salentini “Terra del Salento, alzati e cammina”.
C’è un popolo senza politici, che si appella alla propria intelligenza, alla propria passione, che rivendica il possesso della propria terra, che rifiuta la politica dell’emergenza, che sa che non c’è risarcimento possibile per un solo ulivo eradicato, che pretende studi e conoscenza, trasparenza e partecipazione. Che rifiuta questo modo d’intervenire così distruttivo che cambierà il volto del Salento, ne farà un deserto aperto alle speculazioni, e segnerà per sempre il destino delle sue genti. Un popolo resistente che da Sofocle in poi sa che l’ulivo è inviolabile e che “nessun uomo, giovane o vecchio, lo distruggerà sradicandolo con forza”.

C’era bisogno della xylella – qualcuno dice – per ripensare il modo di vivere, di sprecare, di trattare la terra e il creato. Con la xylella impareremo a vivere. Questa è la Magna Grecia, qui nacque la cultura. Non svenderemo nulla.
«Quista è casa mia, terra mia e lassu sempre aperta la porta».

martedì 14 aprile 2015

L’arte di aiutare la natura in Sardegna - Elisabetta Pau

A Masainas, nella piazza, c è un olivastro secolare gigantesco, bellissimo. In questo piccolo paese della provincia di Carbonia-Iglesias, sabato 21 e domenica 22 marzo c è stata la quarta edizione della Festa degli innesti. Il primo giorno si è parlato di biodiversità, ambiente, catena alimentare e salute. Il secondo era tutto incentrato sulla pratica dell’innesto (1). Grazie ad alcuni professionisti, che hanno messo a disposizione la loro arte scegliendo delle marze (1) di vecchie cultivar da innestare sui portainnesti – peri, meli e susini, perlopiù -, si è potuto assistere dal vivo a questa tecnica. Volendo, si poteva anche portar via la pianta.
Mi sono ritrovata così ad ammirare le mani esperte al lavoro, a discutere di vecchie varietà di cui ricordavo appena il colore e la forma del frutto e ho carpito anche consigli su come meglio coltivare. C’erano i banchetti dei prodotti locali: il miele, le uova, le spugne di luffa, i carciofi coltivati con metodo biodinamico, il pane di grano biologico. È stata una bella mattinata, terminata con un pranzo collettivo a base di prodotti locali organizzato per bene dalla Pro Loco.
L’intera manifestazione, invece, insieme all’amministrazione comunale l’aveva organizzata il Centro di sperimentazione autosviluppo Domus Amigas di Bindua, frazione di Iglesias. La presidente è Teresa Piras, con entusiasmo, convinzione e una gentilezza fuori dal comune, mi racconta che tutto nasce da un gruppo di donne che hanno reagito alla chiusura delle miniere, sulle quali era basata l’economia di diversi paesi della zona. Si sono riunite e hanno portato nel tavolo di discussione l’esigenza di capire cosa si potesse fare insieme.
“Abbiamo esplorato forme di economia alternativa e di auto-organizzazione capaci di dare una risposta concreta, credibile e realizzabile a una crisi economica che crea disoccupazione e costringe i Sardi ad emigrare. Con questa consapevolezza, abbiamo provato a immaginare uno sviluppo che potesse migliorare da subito la vita di ognuno e cominciato a lavorare su alcuni progetti. Abbiamo cercato di tessere reti di mutuo aiuto e solidarietà verso le realtà esistenti, facendone nascere altre con iniziative rivolte in questa direzione”, spiega Teresa. Una di queste è la Festa degli innesti, nata con lo spirito di evidenziare le risorse locali e le biodiversità: “Ci siamo avvicinati a quello che la Sardegna produceva un tempo e abbiamo sentito l’esigenza di capire perché certe colture erano scomparse e in quale contesto. A partire dal cibo, ci si è resi conto che non si trovava più ciò che ci occorreva per una corretta alimentazione: legumi, grano e frutta. Nel 2010, si è così creato un comitato per la biodiversità, la prima iniziativa è stata proprio quella di innestare antiche varietà. L’ha resa possibile soprattutto Giorgio Deiana, un grande appassionato che innestava per conto suo delle piante selvatiche lungo una linea ferroviaria abbandonata”.
Le ore sono passate veloci, in questa mattinata di scambi e intarsi agricoli. Il clima era sereno e rilassato e chi ha partecipato si è sentito accolto. “La vita si è realizzata sul pianeta grazie alle cooperazione e non con la competizione. Questo è già un cambiamento, una delle cose più importanti sono le relazioni che poi si stringono grazie a questi incontri. Ognuno contribuisce con le proprie caratteristiche e allora si parla di biodiversità sociale, ma è la stessa cosa. La vita influisce attraverso la complessità e la cooperazione e non si può separare il lavoro di conversione della natura, dal sociale. Ecco perché abbiamo lavorato per l’innesto sociale con comunità che hanno differenti origini. Ogni passo è un progetto politico, perché ormai sappiamo che la politica è quella fatta dal basso. Resto incantata ad ascoltare le parole di Teresa, una donna con una figura esile quanto solide e grandi sono la sua energia, la voglia di fare, di spendersi per quello in cui crede, di guardare al futuro: “Innestare è collaborare con la natura ma dobbiamo stare attenti ai suoi limiti. Siamo diventati consapevoli anche dell’atto simbolico e sappiamo che se l’uomo non rispetta i limiti della natura non c è alcun futuro possibile“.


(1) L’innesto consiste nel saldare, sul portainnesto, una parte di pianta del nesto, detta marza, rappresentata da una porzione di ramo o da una gemma, in quest’ultimo caso detta occhio o scudetto. Si ottiene, in questo modo, un’unica pianta formata da due porzioni diverse. La fusione istologica avviene grazie al callo che si forma fra le due superfici tagliate, precisamente dove combaciano i meristemi cambiali.

sabato 11 aprile 2015

TTIP: la democrazia viene prima delle lobbies

Lettera ai parlamentari europei sottoscritta da 375 associazioni in 25 Paesi

Egregi membri del Parlamento europeo,
a fronte del lavoro in corso del Parlamento Europeo su una risoluzione sul Transatlantic Trade and Investment Partnership TTIP (conosciuto anche come Transatlantic Free Trade Agreement o TAFTA) vi scriviamo quale coalizione europea di 375 organizzazioni della società civile che condividono una forte preoccupazione per le diverse minacce poste da tale accordo.
Rappresentiamo un vasto spettro di istanze di interesse pubblico quali la tutela dell’ambiente, la salute, i diritti civili, l’agricoltura, i diritti dei consumatori e la tutela degli standard alimentari e agricoli, il benessere animale, gli standard sociali e del lavoro, i diritti dei lavoratori, i diritti dei migranti, la lotta alla disoccupazione, le istanze dei giovani e delle donne, lo sviluppo, l’accesso pubblico all’informazione e i diritti digitali, i servizi pubblici di base inclusa l’istruzione, l’etica dei sistemi finanziari e altri.
Accogliamo con favore il fatto che il Parlamento Europeo si stia formando una propria opinione sul TTIP e il ruolo che il Parlamento ha già svolto nell’organizzare pubblici dibattiti democratici sul tema. Facciamo appello a tutti i membri del Parlamento Europeo affinché concordino una forte risoluzione che affermi chiaramente che il Parlamento Europeo respingerà qualunque futuro accordo commerciale o sugli investimenti che non sia al servizio dell’interesse pubblico e che minacci importanti diritti conquistati in un lungo processo di lotta democratica in UE, Usa e nel resto del mondo.
A tale scopo, vorremmo condividere con voi le nostre richieste chiave sui negoziati sul TTIP, che abbiamo sviluppato assieme ai nostri alleati negli Stati Uniti e che abbiamo comunicato inizialmente nel maggio 2014 in un documento congiunto della società civile:
1. Trasparenza subito: tutti i documenti relativi ai negoziati TTIP, incluse le bozze dei testi consolidati, devono essere resi pubblici per permettere un dibattito pubblico aperto e un esame critico sul TTIP.
2. Un processo democratico che permetta un’analisi puntuale e una valutazione dei testi negoziali e che assicuri che le politiche adottate siano nel pubblico interesse; che coinvolga il Parlamento Europeo e venga dibattuto nei parlamenti nazionali; e che includa le organizzazioni della società civile, i sindacati e i gruppi portatori dei diversi interessi (stakeholders).
3. No all’ISDS: qualunque disposizione che includa meccanismi di risoluzione di controversie investitore-stato (Investor State Dispute Settlement – ISDS) deve essere tenuta fuori per sempre dai negoziati né possono essere inclusi altri meccanismi (introdotti indirettamente attraverso accordi commerciali preesistenti o successivi) che garantiscano privilegi agli investitori esteri.
4. No a un Consiglio di cooperazione normativa (regulatory cooperation council): tutti i meccanismi di regolamentazione devono essere interamente nelle mani di organismi e processi controllati democraticamente.
5. No alla deregolamentazione di standard di salvaguardia e al servizio del pubblico interesse: gli standard Ue devono essere rispettati non “armonizzati” al ribasso al livello del minimo comun denominatore. Essi comprendono gli standard sociali e lavorativi, la tutela dei consumatori e della salute, la cura dell’ambiente inclusa la rigenerazione delle nostre risorse naturali, il benessere animale, gli standard di sicurezza alimentare e le pratiche agricole ambientalmente sostenibili, accesso all’informazione ed etichettatura, cultura e medicina, regolamentazione del mercato finanziario così come la protezione dei dati, la neutralità della rete e altri diritti digitali. Il mutuo riconoscimento non è accettabile quando compromette standard concordati democraticamente o forti salvaguardie. Il principio di precauzione va applicato estesamente.
6. No a una ulteriore deregolamentazione e privatizzazione dei servizi pubblici. Chiediamo un accesso garantito a un’istruzione di qualità, assistenza sanitaria e altri servizi pubblici e il diritto a scegliere di promuovere appalti pubblici governativi per beni e servizi che sostengano il lavoro e l’economia locali, le risorse locali, la imprenditorialità sociale, economie sostenibili, la considerazione per gli aspetti sociali e al servizio del pubblico interesse.
7. La promozione di pratiche agricole ambientalmente sostenibili e tutela dell’agricoltura locale a conduzione familiare.
8. Le autorità pubbliche devono mantenere il potere politico e le strutture necessarie per proteggere certi settori sensibili e salvaguardare standard importanti per la qualità della vita. Standard lavorativi e ambientali concordati a livello internazionale devono essere rispettati e fatti applicare. Le continue violazioni degli standard del lavoro dovrebbero essere fronteggiati con l’imposizione di sanzioni pecuniarie.
9. No a restrizioni sugli standard internazionali ed europei sui diritti umani.
Le poche informazioni comunicate – o fatte trapelare – sui negoziati TTIP fanno fortemente temere che le nostre richieste non si riflettano nell’approccio tenuto dall’UE. A esempio:
• I negoziati si svolgono a porte chiuse, senza una completa ed effettiva consultazione pubblica. La mancanza di trasparenza e di procedure democratiche rende impossibile per i cittadini e la società civile monitorare i negoziati al fine di assicurarsi che i pubblici interessi vengano tutelati. Ai gruppi lobbistici del modo degli affari è concesso un accesso privilegiato alle informazioni e l’opportunità di influenzare i negoziati.
• Il proposto capitolo sulla protezione degli investimenti, in particolare l’inclusione di una disposizione di risoluzione delle controversie investitore-stato (ISDS), concederebbe agli investitori il diritto esclusivo di citare in giudizio gli Stati quando decisioni democratiche, prese dalle istituzioni pubbliche nell’interesse pubblico, venissero ritenute di impatto negativo sui profitti attesi. Questi meccanismi fanno affidamento su sentenze di tribunali che operano al di fuori dei sistemi giudiziari nazionali e minano così i nostri sistemi legali nazionali ed europei e le nostre strutture democratiche nel formulare leggi e politiche nel pubblico interesse.
• La creazione di nuove strutture e procedure anti-democratiche di governance, quali il proposto regulatory cooperation council, aventi per scopo di “armonizzare le normative”, renderebbero il TTIP e altri accordi un obiettivo in movimento, “accordi viventi”, costantemente sviluppati in segreto da burocrati non eletti e grossi affaristi. Queste strutture non-democratiche minacciano di abbassare importanti standard e norme concepiti per la tutela del pubblico interesse, o di proibire futuri miglioramenti, senza alcun riguardo per la loro necessità e il loro mandato pubblico.
• L’evidenza di documenti di pressione lobbistica da parte dell’industria e del mondo degli affari rivela che la focalizzazione sulle barriere non-tariffarie e sulla convergenza normativa è usata per spingere verso la deregolamentazione, accresciute garanzie sugli investimenti, rafforzato monopolio sui diritti di proprietà intellettuale e, in definitiva una corsa verso il fondo.

Ci appelliamo a voi perché mandiate ai negoziatori un chiaro e forte segnale che il Parlamento Europeo respingerà il TTIP e qualunque altro accordo commerciale o sugli investimenti che vada in questa direzione, in quanto non sono al servizio del pubblico interesse e in quanto minacciano i diritti e le libertà fondamentali conquistati in lungo processo di lotte democratiche.
(*) testo ripreso dal sito di «Medicina democratica», firmataria di questo appello.


mercoledì 8 aprile 2015

Anche le balene salveranno il pianeta - George Monbiot

I grandi predatori sono fondamentali per la salute degli ecosistemi terrestri, acquatici e marini. Il giornalista scientifico britannico George Monbiot spiega in questo video in che modo le balene contribuiscono a nutrire gli oceani e a preservare l’atmosfera del pianeta.

Recenti studi hanno rivelato che la diminuzione del numero di predatori di grandi dimensioni al vertice della catena alimentare ha alterato il funzionamento di molti ecosistemi, dai vertici ai livelli più bassi. Le balene, dice Monbiot, sono come dei bioingegneri del mare che con le loro feci nutrono la superficie degli oceani, e con i loro tuffi e le loro immersioni rimescolano le acque.

martedì 7 aprile 2015

Storia millenaria del seme di pistacchio - Patrizia Cecconi

La regina di Saba ne aveva una piantagione riservata soltanto a lei e ai suoi cortigiani, Nabucodonosor II, re dei Caldei, li faceva coltivare nei giardini pensili di Babilonia. In Grecia sono arrivati con Alessandro Magno. In Spagna e Italia con Tiberio. Gli alberi di pistacchio hanno radici profonde, nobili e millenarie nella storia delle antiche civiltà. Tra i semi oggi considerati di maggior pregio, quelli raccolti alle falde dell’Etna. Terre aride, segnate dalla siccità e da una storia, più recente, di massacri, economia coloniale e interessi britannici. Per certi versi simile a quella della Palestina, dove il pistacchio, amato da tempo immemorabile, cresce quasi senz’acqua ma regala un gusto straordinario a moltissimi dolci e si trova anche nel suq del più povero dei villaggi

Cugino “nobile” di lentisco e terebinto, appartenente alla stessa famiglia delle anacardiacee e al genere Pistacia, il pistacchio è uno dei più antichi alberi coltivati dall’uomo. È originario dell’antica Persia dove pare venisse coltivato già in età preistorica, così almeno risulterebbe dal trattato del sofista greco Ateneo di Naucrati che ne parla nel “Banchetto dei sapienti”.
In Palestina, e in genere nel Medio Oriente, si dice sia usato da oltre 10mila anni, ma di certo da almeno 3 o 4 mila lo è, stando a quanto scritto nella Bibbia circa i pistacchi che Giacobbe usò come dono pregiato (Genesi 43,11); o al fatto che la regina di Saba ne avesse una piantagione ad uso esclusivo suo e della sua corte; o ancora a quel che se ne racconta circa Nabucodonosor che li faceva coltivare negli splendidi giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis.
Questi semi, oggi presenti nella maggior parte dei dolci che si possono acquistare in ogni suq o che vengono preparati nelle occasioni rituali anche nei villaggi più poveri di tutta la Palestina, arrivarono in Grecia nel IV a.C. con Alessandro Magno. Qualche secolo più tardi, sotto l’imperatore Tiberio, i pistacchi varcarono il Mediterraneo ed approdarono in Italia e Spagna, ma fu solo a metà 800, quando gli arabi conquistarono la Sicilia sottraendola ai bizantini, che il pistacchio trovò il suo angolo particolare, alle falde dell’Etna, nel territorio di Bronte dove tuttora rappresenta il fulcro dell’economia dell’intera area.
Questa pianta cresce in zone collinari, esposte a sud e sopporta quasi tutto, dalla siccità estiva al gelo invernale, ma non regge le gelate in tarda primavera, quelle che rappresentano il tradimento della natura quando ormai i fiori sono usciti rispondendo al richiamo della luce.
Il suo frutto è una drupa, di cui si consuma il seme chiamato appunto pistacchio come l’albero che lo produce e che difficilmente supera i 7-8 metri di altezza, ma che arriva a vivere fino a 300 anni. E’ una specie dioica ad impollinazione anemofila, vale a dire che il passaggio del polline dal fiore maschile a quello femminile è affidato al vento. Fruttifica ogni due anni, e l’anno che gli agronomi chiamano di “scarica” serve a dare più vigore all’esplosione vitale di fiori e frutti nella stagione successiva.
Ha una strana caratteristica il pistacchio, infatti il fiore femminile accetta l’impollinazione anche dal terebinto ed i frutti che ne derivano sono esattamente come gli altri. Il legame col terebinto è realmente consociativo, non solo per il suo polline, ma perché la straordinaria forza delle sue radici, capaci di fendere e di aggirare le rocce riuscendo a nutrirsi anche di pochi grani di terra arsa, è messa a disposizione del suo più raffinato cugino, e le piantagioni che fruttificano splendidamente su rocce aride godono sempre del terebinto come portainnesto di ogni rigoglioso pistacchio.
Tra i pistacchi che crescono a Bronte e gli alberi che crescono in Palestina ho notato qualche particolare consonanza. In entrambi i luoghi gli alberi non si concimano né si irrigano: l’acqua non c’è. Ma loro ne fanno a meno e il pistacchio che, sostenuto dal suo rustico cugino, cresce laddove poche altre piante riuscirebbero a vivere, diventa un simbolo di resistenza alle condizioni avverse.
Ma c’è qualcos’altro che accomuna il pistacchio di Bronte al pistacchio palestinese. Qualcosa che cozza con la bontà di questo seme, ma che ha a che fare con la storia. Anche quella che non è facile raccontare. Tanto a Bronte che in Palestina, infatti, nei due secoli scorsi la presenza e gli interessi inglesi, in modo diverso, sono stati responsabili di ingiustizie e di massacri. Alla causa di interminabile durata che i brontesi, civilmente e ingenuamente rispettosi del diritto, hanno portato avanti contro l’esproprio delle proprie terre, prima a favore di un’istituzione religiosa e poi di Horatio Nelson e suoi eredi, fa da specchio, oltre il mare, una “causa” tuttora in corso che vede i palestinesi chiedere al vento il riconoscimento dei propri diritti sulla propria terra!
Se nella seconda metà del 1800 Garibaldi e Bixio, proteggendo gli inglesi usurpatori di terre di Bronte, hanno macchiato di vergogna e di sangue il Risorgimento italiano, di cui pure erano eroi, nella prima metà del 1900 gli inglesi, con la dichiarazione di Balfour, hanno aperto la strada al tentato annientamento dei palestinesi tuttora in atto. Anche gli inglesi di Bronte avevano chiuso le strade ai contadini, esattamente come oggi Israele, figlio anche di quella dichiarazione di Balfour, chiude le strade ai palestinesi. Allora come ora, farseschi tribunali decretavano colpe agli incolpevoli e assolvevano gli aguzzini. Allora fu a Bronte, a eterna vergogna dell’eroica spedizione dei Mille che in Sicilia pagava il favore – e gli interessi – degli inglesi, e ora è in Palestina, a eterna vergogna delle istituzioni internazionali, in primis l’ONU, che si vedono surclassare dal potere fuori legge di Israele.
Lasciando Bronte dove i contadini, costretti a coltivare l’arida sciara, hanno fatto dell’unico albero che potesse resistere il gioiello di questo territorio, viene spontanea una metafora che sa di speranza e che affido alla fantasia di chi mi legge e passo alle proprietà del pistacchio.

Il filosofo e medico islamico Avicenna nel suo “Canone della medicina” lo definiva ottimo rimedio contro le malattie del fegato. Ricco di vitamine A, B ed E, di ferro e di fosforo, è utile contro il colesterolo cosiddetto cattivo favorendo, grazie ai fitosteroli, la produzione del colesterolo HDL, quello cosiddetto buono, divenendo un valido cardioprotettore; la presenza di fosforo aumenta la tolleranza al glucosio e quindi è utile a prevenire il diabete di tipo 2; inoltre, grazie a due particolari carotenoidi protegge la vista dalla degenerazione maculare.   Infine alcuni studi recenti tendono a dimostrare che il consumo di 20 semi al giorno ridurrebbe il rischio di tumore al polmone. Ha solo un difetto questo meraviglioso seme: troppo calorico per chi ha problemi di linea. Ma la perfezione non è di questo mondo!