La regina
di Saba ne aveva una piantagione riservata soltanto a lei e ai suoi cortigiani,
Nabucodonosor II, re dei Caldei, li faceva coltivare nei giardini pensili di
Babilonia. In Grecia sono arrivati con Alessandro Magno. In Spagna e Italia con
Tiberio. Gli alberi di pistacchio hanno radici profonde, nobili e millenarie
nella storia delle antiche civiltà. Tra i semi oggi considerati di maggior
pregio, quelli raccolti alle falde dell’Etna. Terre aride, segnate dalla
siccità e da una storia, più recente, di massacri, economia coloniale e
interessi britannici. Per certi versi simile a quella della Palestina, dove il
pistacchio, amato da tempo immemorabile, cresce quasi senz’acqua ma regala un
gusto straordinario a moltissimi dolci e si trova anche nel suq del più povero
dei villaggi
Cugino
“nobile” di lentisco e terebinto, appartenente alla stessa famiglia delle
anacardiacee e al genere Pistacia, il
pistacchio è uno dei più antichi alberi coltivati dall’uomo. È
originario dell’antica Persia dove pare venisse coltivato già in età preistorica,
così almeno risulterebbe dal trattato del sofista greco Ateneo di Naucrati che
ne parla nel “Banchetto dei sapienti”.
In Palestina, e in genere nel Medio Oriente, si dice sia usato da oltre
10mila anni, ma di
certo da almeno 3 o 4 mila lo è, stando a quanto scritto nella Bibbia circa i
pistacchi che Giacobbe usò come dono pregiato (Genesi 43,11); o al fatto che la
regina di Saba ne avesse una piantagione ad uso esclusivo suo e della sua
corte; o ancora a quel che se ne racconta circa Nabucodonosor che li faceva
coltivare negli splendidi giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis.
Questi semi,
oggi presenti nella maggior parte dei dolci che si possono acquistare in ogni
suq o che vengono preparati nelle occasioni rituali anche nei villaggi più
poveri di tutta la Palestina, arrivarono in Grecia nel IV a.C. con Alessandro
Magno. Qualche secolo più tardi, sotto l’imperatore Tiberio, i pistacchi
varcarono il Mediterraneo ed approdarono in Italia e Spagna, ma fu solo a metà 800, quando gli arabi conquistarono
la Sicilia sottraendola ai bizantini, che il pistacchio trovò il suo angolo
particolare, alle falde dell’Etna, nel territorio di Bronte dove
tuttora rappresenta il fulcro dell’economia dell’intera area.
Questa
pianta cresce in zone collinari, esposte a sud e sopporta quasi tutto, dalla siccità estiva al gelo invernale, ma non
regge le gelate in tarda primavera, quelle che rappresentano il
tradimento della natura quando ormai i fiori sono usciti rispondendo al
richiamo della luce.
Il
suo frutto è una drupa, di cui si consuma il seme chiamato appunto
pistacchio come l’albero che lo produce e che difficilmente supera i 7-8 metri
di altezza, ma che arriva a vivere
fino a 300 anni. E’ una specie dioica ad impollinazione
anemofila, vale a dire che il passaggio del polline dal fiore maschile a quello
femminile è affidato al vento. Fruttifica ogni due anni, e l’anno che gli
agronomi chiamano di “scarica” serve a dare più vigore all’esplosione vitale di
fiori e frutti nella stagione successiva.
Ha una
strana caratteristica il pistacchio, infatti il fiore femminile accetta l’impollinazione anche dal terebinto ed
i frutti che ne derivano sono esattamente come gli altri. Il legame col
terebinto è realmente consociativo, non solo per il suo polline, ma perché la
straordinaria forza delle sue radici, capaci di fendere e di aggirare le rocce
riuscendo a nutrirsi anche di pochi grani di terra arsa, è messa a disposizione
del suo più raffinato cugino, e le piantagioni che fruttificano splendidamente
su rocce aride godono sempre del terebinto come portainnesto di ogni rigoglioso
pistacchio.
Tra i
pistacchi che crescono a Bronte e gli alberi che crescono in Palestina ho
notato qualche particolare consonanza. In entrambi i luoghi gli alberi non si
concimano né si irrigano: l’acqua non c’è. Ma loro ne fanno a meno e il
pistacchio che, sostenuto dal suo rustico cugino, cresce laddove poche altre piante riuscirebbero a vivere, diventa un
simbolo di resistenza alle condizioni avverse.
Ma c’è qualcos’altro che accomuna il pistacchio di
Bronte al pistacchio palestinese. Qualcosa che cozza con la bontà di
questo seme, ma che ha a che fare con la storia. Anche quella che non è facile
raccontare. Tanto a Bronte che in Palestina, infatti, nei due secoli scorsi la
presenza e gli interessi inglesi, in modo diverso, sono stati responsabili di
ingiustizie e di massacri. Alla causa di interminabile durata che i brontesi,
civilmente e ingenuamente rispettosi del diritto, hanno portato avanti contro
l’esproprio delle proprie terre, prima a favore di un’istituzione religiosa e
poi di Horatio Nelson e suoi eredi, fa da specchio, oltre il mare, una “causa”
tuttora in corso che vede i palestinesi chiedere al vento il riconoscimento dei
propri diritti sulla propria terra!
Se nella
seconda metà del 1800 Garibaldi e Bixio, proteggendo gli inglesi usurpatori di
terre di Bronte, hanno macchiato di vergogna e di sangue il Risorgimento
italiano, di cui pure erano eroi, nella prima metà del 1900 gli inglesi, con la
dichiarazione di Balfour, hanno aperto la strada al tentato annientamento dei
palestinesi tuttora in atto. Anche
gli inglesi di Bronte avevano chiuso le strade ai contadini, esattamente come
oggi Israele, figlio anche di quella dichiarazione
di Balfour, chiude le strade ai palestinesi. Allora come ora, farseschi
tribunali decretavano colpe agli incolpevoli e assolvevano gli aguzzini. Allora
fu a Bronte, a eterna vergogna dell’eroica spedizione dei Mille che in Sicilia
pagava il favore – e gli interessi – degli inglesi, e ora è in Palestina, a
eterna vergogna delle istituzioni internazionali, in primis l’ONU, che si
vedono surclassare dal potere fuori legge di Israele.
Lasciando
Bronte dove i contadini, costretti
a coltivare l’arida sciara, hanno fatto dell’unico albero che potesse resistere
il gioiello di questo territorio, viene spontanea una metafora che
sa di speranza e che affido alla fantasia di chi mi legge e passo alle
proprietà del pistacchio.
Il filosofo
e medico islamico Avicenna nel suo “Canone della medicina” lo definiva ottimo
rimedio contro le malattie del fegato. Ricco di vitamine A, B ed E, di ferro e di fosforo, è utile contro
il colesterolo cosiddetto cattivo favorendo, grazie ai fitosteroli, la
produzione del colesterolo HDL, quello cosiddetto buono, divenendo un valido
cardioprotettore; la presenza di fosforo aumenta la tolleranza al glucosio e
quindi è utile a prevenire il diabete di tipo 2; inoltre, grazie a due
particolari carotenoidi protegge la vista dalla degenerazione
maculare. Infine alcuni studi recenti tendono a dimostrare che il consumo
di 20 semi al giorno ridurrebbe il rischio di tumore al polmone. Ha solo un
difetto questo meraviglioso seme: troppo calorico per chi ha problemi di linea.
Ma la perfezione non è di questo mondo!
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