venerdì 26 aprile 2024

Alaji, la sua storia, dal mare al carcere - Federica Rossi


                                  (foto di Federica Rossi)

Alaji Diouf, arriva in Italia dal Senegal nell’ottobre 2015. Appena sbarcato viene arrestato e indicato da un testimone come il “capitano” che aveva guidato l’imbarcazione sulla rotta Mediterranea. Questo basta per farlo condannare a 7 anni di carcere. Una volta fuori però l’uomo non si arrende e insieme a Baobab Experience e l’avvocato Romeo sta tentando la strada della revisione del giudizio per dimostrare la sua innocenza. Una storia, la sua, come quella di tanti altri accusati di essere scafisti, con un tentativo, quello dell’annullamento della sentenza, che potrebbe cambiare la storia di questi processi.

“L’unica cosa che mi ha dato la forza di sopportare 7 ingiusti anni di carcere è stato pensare alla giustizia che avrei cercato una volta uscito, voglio far sentire la mia voce anche se mi prende tutto il resto della vita” dice Alaji Diouf, 34 anni di origine senegalese arrivato in Italia nell’Ottobre del 2015. Dopo l’accusa di scafismo aggravato che l’ha costretto in carcere, oggi tenta la revisione del giudizio insieme all’associazione Baobab Experience che lancia una campagna ad hoc “Capitani Coraggiosi”. Questo processo è già storico: nessuno prima in Italia aveva mai provato a contestare l’accusa di scafismo e il caso di Alaji riporta il dibattito sulla questione. “La campagna Capitani Coraggiosi nasce con un triplice intento: sensibilizzare, tentare la revisione della condanna di Alaji e far modificare l’Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione che regola il traffico di esseri umani”, spiega Alice Basiglini, vice presidente di Baobab e responsabile dell’iniziativa.

Un falso soccorso 

Ma come arriva una persona innocente in carcere? Il percorso di Alaji parte dal Senegal, la sua terra natale. Da lì si sposta per arrivare in Europa, attraversando le zone desertiche del Mali e del Burkina Faso, “ma il viaggio in mare è stato ancora più duro. Sono rimasto in piedi tutto il tempo, non c’era spazio” spiega il giovane, che nella notte tra il 18 e 19 ottobre di nove anni fa arriva sulle coste italiane in un’imbarcazione con altre 120 persone. Il sovraffollamento infatti causerà la rottura degli assi di legno e la morte di otto persone per asfissia. Due unità della Marina Militare e una di Msf riescono a soccorrere un totale di 633 persone, tra cui Alaji. 

Una volta approdati, un uomo che non aveva viaggiato sullo stesso gommone di Alaji, né tantomeno lo conosceva, punta il dito verso di lui, pare su richiesta delle forze dell’ordine. Un gesto sufficiente per riconoscerlo come la persona che ha guidato l’imbarcazione, il cosiddetto scafista. Quel dito, tradotto a livello giuridico, costa ad Alaji l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione). Nel suo caso sarà aggravata sia per la morte delle persone, che per i “fini di profitto”. Quando viene chiamato, nello scambio di parole in italiano tra i presenti, Alaji non è consapevole e segue gli ufficiali “credevo mi portassero in bagno – ricorda – ho riconosciuto dei ragazzi che avevo incontrato in Libia e pensavo di stare nel posto giusto”. “Poi è arrivata una signora che parla francese, inglese e arabo. Dopo, anche un mediatore della lingua wolof, che comunque non è la mia”. L’idioma di Alaji infatti è il mandinga e le figure che gli parlano lo stanno interrogando. Del poco che riesce a comprendere in wolof risponde “no” quando gli viene chiesto se ha guidato il gommone. Ma il suo diritto alla difesa è comunque compromesso. “Se avessi parlato italiano non sarei finito in carcere”, commenta il giovane che oggi lavora come piastrellista per giardini.

I metodi d’identificazione dello “scafista”, indicati nel manuale di Operazione Sophia di Frontex del 2017, sono vaghi, come guardare se la persona è “eccessivamente educata e collaborativa, oppure se dimostra segnali di essere nervoso e scomodo”. Il metodo principale rimane attraverso l’uso di testimoni, come nel caso di Alaji. Un ex Capitano della Guardia Costiera racconta ad Arci Porco Rosso, circolo antirazzista attivo a Palermo, che la parola d’ordine in quei casi è “trovate un colpevole”. Alaji, nonostante abbia paura del mare, viene così condannato per scafismo con rito abbreviato (senza ascoltare altri testimoni). Nella sentenza lui e gli altri condannati saranno definiti dei “disgraziati”. “Questo passo è una singolare anomalia – dice Francesco Romeo, avvocato del giovane – sono stati condannati per aver agito a scopo di profitto e non si capisce come mai, essendo dei disgraziati, dei poveracci, dove c’è stato questo profitto”.

L’angolo buio della figura dello scafista

Alaji, come molte delle altre 3mila persone fermate negli ultimi otto anni, secondo i dati raccolti da Arci Porco Rosso nel report “Dal mare al carcere”, è stato riconosciuto come uno scafista, una figura che viene equiparata al trafficante di esseri umani. Gli esperti, come Basiglini, sottolineano la differenza tra le due: “Le persone che guidano l’imbarcazione non hanno nulla a che vedere con la criminalità organizzata. Sono persone che sono state costrette dalle stesse milizie, dagli stessi trafficanti a guidare sotto violenza, minaccia e ricatto, oppure che attraverso la disponibilità a guidare l’imbarcazione ottengono il viaggio gratis, se non possono permetterselo”. Una confusione che trova le sue radici nell’art 12 del TUI che la campagna Capitani Coraggiosi propone di modificare. Guardando l’articolo non si trova nessuna differenza tra i trafficanti e chiunque abbia favorito in modo indiretto l’arrivo di persone sul territorio nazionale. Un errore che porta l’Italia ad identificare uno scafista ogni trecento persone sbarcate secondo Arci Porco Rosso, ma anche ad accusare Baobab di traffico illecito per aver pagato il biglietto dell’autobus a 9 migranti arrivati in Italia. Effetti sproporzionati che portano molti a sostenere che il concetto stesso andrebbe ripensato. “Vogliamo modificarlo ma la modifica sarebbe così radicale che si può chiamare abrogazione” dice Basiglini. 

“Una figura polisemica”. Così Romeo definisce lo scafista: “Ha molti aspetti. Da un lato è un nemico pubblico perché nell’immaginario collettivo lo scafista sfrutta i passeggeri, allo stesso tempo è un capro espiatorio, perché è colui o coloro sui quali ricadono tutte le responsabilità”. Lo scafista diventa così il responsabile dell’intero viaggio delle persone che entrano nei confini italiani, un capro espiatorio “da cercare in tutto il globo terracqueo” secondo la Premier Meloni. 

In carcere

In questo malfunzionante sistema di identificazioni e accuse, Alaji è colpevole per la legge italiana. Glielo comunica Bakari, un altro ragazzo accusato che parla inglese e gli traduce la notizia. “Venire a conoscenza di questo è stato orribile. Non sapevo come difendermi, che strumenti usare per far capire a queste persone che sono innocente – ricorda Alaji – ho visto diventare realtà tutto ciò a cui non potevo credere”. Il giovane una volta in carcere prova a manifestare lo stato d’ingiustizia. “Mi sono levato tutti i vestiti nel cortile, volevo mettermi a nudo, per dirgli ‘se mi potete sparare, fatelo. Basta che non rimango qui’. Mi hanno calmato poi, non so neanche con cosa”. Non c’è via d’uscita dal carcere per il giovane per quasi 7 anni, di cui per i primi due non gli è permesso il contatto con nessuno all’esterno. “Un giorno volevo chiamarli per fargli sapere che ero vivo, mi hanno chiesto dei soldi, ero frustrato. Ho provato a togliermi la vita con dell’olio bollente”, una sorte da cui l’amico Bakari lo salva, e non sarà l’unica. L’amico, che parla inglese, lo aiuta anche a spiegare la situazione agli altri detenuti. Questi scrivono una lettera in italiano per aiutarlo a comunicare nei tribunali. Un diritto alla difesa che tenta di acquisire in ogni modo, ma che continua ad essergli negato. “Non prendevano la lettera neanche in considerazione, poi mi hanno proprio impedito di portarla con me”, ricorda.

Ribaltare la storia

Negli anni di carcere, la rabbia che si accumula in Alaji si trasforma in un ardente desiderio di giustizia, che ricerca fin da subito. “Quando esce dal carcere e si rivolge a noi non aveva solo un decreto di espulsione dal Paese, ma anche una grande cartella. In quegli anni infatti aveva raccolto tutti i documenti – racconta Basiglini – e quasi subito ci spiega di averli tenuti nella speranza di usarli per provare la verità”. Ora con l’aiuto di Baobab e l’avvocato Francesco Romeo tenta una revisione della sentenza alla Corte d’Appello di Potenza. “Dobbiamo fare un’indagine al contrario di quella che fa la polizia. Mettere insieme le condizioni meteorologiche di quei giorni, gli orari, le distanze, altri testimoni” spiega l’avvocato impegnato a ricostruire i fatti dalla scorsa estate. 

Baobab chiede così alla Questura e al Prefetto di Taranto un elenco delle persone sbarcate e dei rispettivi centri di accoglienza. La Prefettura di Taranto a luglio replica che la richiesta è «poco efficace» in luce degli otto anni trascorsi dall’evento. Dopo un ulteriore passaggio con il Garante per la Privacy e l’avvocatura Distrettuale di Lecce in merito alle corrette modalità di condivisione della lista richiesta dall’Ong, accade l’inaspettato: i documenti non esistono più. La Prefettura risponde che «a seguito di ripetute ricerche anche negli archivi di deposito di questa Prefettura, non sono stati rinvenuti gli atti relativi allo sbarco di migranti avvenuto a Taranto in data 20/10/2015». Tuttavia, non ci sono tracce di sparizione di quei documenti nella data dello sbarco. “Questo è un impedimento al diritto di difesa” sostiene Romeo. In ogni modo, le ricerche continuano. “Dopo il lancio della campagna qualcuno che ha fatto quel viaggio si è messo in contatto con noi e adesso stiamo cercando di tirare questo filo per vedere dove ci porta” aggiunge. 

Una revisione favorevole comporterebbe l’annullamento della sentenza di condanna e quindi la proclamazione di innocenza e il risarcimento del danno subito. Ma soprattutto“sarebbe un precedente importante per sensibilizzare sulla figura dello scafista, e mostrare come questa sia costruita a tavolino” dice Romeo.

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giovedì 25 aprile 2024

Ecco come proteggere la salute dalle microplastiche

 

Non passa giorno senza che venga pubblicato uno studio scientifico sui danni che le microplastiche provocano a diversi organi e tessuti, oltre che all’ambiente

“In un’epoca in cui la coscienza ambientale e i temi di One Health sono al centro del dibattito globale quello delle microplastiche resta un problema ancora largamente sottovalutato e misconosciuto, anche se profondamente impattante – Queste minuscole particelle di plastica (le microplastiche hanno un diametro inferiore a 5 mm e le nanoplastiche inferiore a 1 micron), in genere invisibili a occhio nudo, hanno invaso ogni angolo del nostro pianeta, comprese le acque di fiumi e oceani e rappresentano una minaccia significativa per la salute dell’uomo, degli animali e di tutto l’ambiente. È dunque urgente mettere in campo azioni di consapevolezza e prevenzione”. Le microplastiche sono particolarmente insidiose anche per la loro capacità di accumulare sostanze tossiche come pesticidi, metalli pesanti e altri inquinanti. Queste tossine inquinano l’ambiente e trovano la loro strada nella catena alimentare, venendo in questo modo a rappresentare una minaccia diretta per la salute. Studi recenti hanno confermato l’allarmante grado di contaminazione da microplastiche del cibo e dell’acqua che consumiamo ogni giorno. L’ingestione di microplastiche provoca danni a tutti gli organi e apparati, determinando disturbi gastrointestinali e del microbiota, problemi riproduttivi, effetti cancerogeni, problemi neurologici (è dimostrato che compromettono l’integrità della barriera emato-encefalica) e cardio-vascolari. Microplastiche sono state isolate persino nei vasi, all’interno delle placche di aterosclerosi e possono aumentare il rischio di infarti e di ictus. Presenti anche nell’aria che respiriamo, possono essere inalate e arrivare profondamente nei polmoni, causando problemi respiratori e aggravando condizioni come asma e bronchite. Dovremmo cercare di adottare una serie di azioni individuali volte a limitare l’esposizione alle microplastiche, anche se è chiaro che servirebbero iniziative politiche di ampio respiro, coordinate a livello internazionale. Le azioni auspicate dalla comunità scientifica internazionale vanno da regolamentazioni rigorose per limitare la produzione e l’uso di plastica monouso, a investimenti in tecnologie avanzate di filtrazione per rimuovere le microplastiche dalle acque reflue, alla promozione di pratiche sostenibili di gestione dei rifiuti. “La consapevolezza del pubblico e l’educazione giocano un ruolo cruciale nel combattere l’inquinamento da microplastica. Migliorando la cultura di tutela ambientale e la consapevolezza dei rischi, si possono prendere decisioni informate mirate a ridurre il contributo delle singole persone all’inquinamento da plastica, adottando una serie di azioni volte a mitigare l’impatto delle microplastiche sulla loro stessa salute. Mancare l’appuntamento con azioni di prevenzione e mitigazione del rischio afferma il professor Sesti – potrebbe avere conseguenze terribili per le generazioni presenti e per quelle future”. 

un decalogo UN Le raccomandazioniLe raccomandazioni della SIMI per proteggerci dalle microplastiche

Ecco dieci azioni pratiche, proposte dagli esperti della Società Italiana di Medicina Interna, che tutti possono adottare per proteggere sé stessi e l’ambiente dalle microplastiche, facendo guadagnare in salute chi vive oggi e le generazioni future.

1.       

o    Riduci il consumo di plastica monouso e optare per alternative riutilizzabili come bottiglie/borracce termiche in acciaio inossidabile, contenitori di vetro, borse della spesa (shopping) in tessuto.

o    Scegliere per l’abbigliamento le fibre naturali. Nella scelta dei vestiti e dei tessuti, preferire sempre quelli in fibre naturali come cotone, lana, viscosa e canapa, rispetto a materiali sintetici come poliestere, poliammide, polipropilene e nylon (molto diffusi soprattutto nella fast fashion perché economici), che rilasciano microplastiche durante la produzione e il lavaggio.

o    Installa filtri contro le microplastiche nelle lavatrici per catturare le microplastiche rilasciate dai tessuti durante i cicli di lavaggio, impedendo loro di entrare nel sistema idrico; così si rispetta di più l’ambiente ad ogni lavaggio.

o    Evita prodotti cosmetici contenenti microplastiche. I microgranuli in polietilene (presenti in esfolianti, dentifrici, creme da barba e scrub a risciacquo) sono vietati dal 2020, ma i cosmetici possono contenere altri polimeri insolubili. Controlla dunque sempre l’elenco degli ingredienti in etichetta per assicurarti che non contengano PE (polietilene), PMMA (polimetil metacrilato), PET (polietilene tereftalato) e PP (polipropilene).

o    Consuma acqua filtrata. Investi in un sistema di filtrazione dell’acqua di alta qualità per rimuovere le microplastiche e altri contaminanti dall’acqua di rubinetto, o scegli acqua minerale e bibite in bottiglia di vetro. Evita invece quelle in bottiglie di plastica.

o    Previeni la contaminazione dei cibi con la plastica. Riduci al minimo l’acquisto di cibi confezionati in imballaggi e contenitori di plastica, optando per alternative in vetro, acciaio inossidabile, silicone o sacchetti di carta per ridurre il rischio di ingerire microplastiche. Anche in frigorifero, ridurre o eliminare l’uso di contenitori di plastica e pellicole.

o    Mangia alimenti freschi e integrali. Scegli alimenti freschi e integrali anzichè prodotti processati e confezionati; questi ultimi, oltre ad esser meno salutari, potrebbero contenere livelli più alti di contaminazione da microplastica (per imballaggi di plastica e modalità di lavorazione).

o    Sostieni pratiche di pesca sostenibili. Acquistando prodotti ittici provenienti da fonti sostenibili, riducendo la probabilità di consumare pesce e frutti di mare contaminati da microplastiche.

o    Smaltisci correttamente i rifiuti. Pratica lo smaltimento responsabile dei rifiuti, separando la plastica quando possibile e gettandola nei bidoni designati; è un altro modo per evitare che la plastica inquini l’ambiente e contamini cibo e acqua.

o    Sii ‘ambasciatore’ del cambiamento, dando il buon esempio e sensibilizzando familiari, amici e colleghi di lavoro sugli effetti dannosi delle microplastiche per la salute dell’uomo e dell’ambiente.

Ecco come le microplastiche danneggiano la nostra salute

L’inquinamento da plastica è una delle sfide ambientali e sanitarie più urgenti e impattanti del nostro tempo. La presenza pervasiva della plastica minaccia l’integrità dei nostri ecosistemi e la salute delle generazioni attuali e future. L’impatto delle microplastiche sulla salute umana è molteplice e richiede immediata attenzione. Queste sono alcune delle principali conseguenze per la salute, associate alle microplastiche, a seconda della via di penetrazione nell’organismo.

1.       

o    Ingestione: le microplastiche possono essere ingerite attraverso cibi e fonti d’acqua contaminate. Una volta ingerite si possono accumulare nel tratto gastrointestinale, dove e causare irritazione, infiammazione e disturbi gastrointestinali.

o    Disfunzione del microbiota intestinale: le microplastiche ingerite, giunte nel tratto gastrointestinale possono alterare l’equilibrio del microbiota intestinale, essenziale per mantenere la salute digestiva e del sistema immunitario, contribuendo a causare malattie infiammatorie intestinali, obesità e disturbi metabolici.

o    Effetti sull’apparato respiratorio: le microplastiche in sospensione nell’aria, possono essere inalate e causare dunque irritazione delle vie respiratorie e infiammazione, portando ad un peggioramento di condizioni come l’asma e la bronchite. L’esposizione cronica alle microplastiche nell’aria può anche compromettere la funzionalità respiratoria e aumentare la suscettibilità alle infezioni.

o    Assorbimento di sostanze chimiche tossiche: le microplastiche possono assorbire e concentrare sostanze chimiche tossiche come pesticidi, metalli pesanti e inquinanti organici persistenti (POP) presenti nell’ambiente. Queste tossine assorbite con le microplastiche una volta ingerite possono comportare un rischio di tossicità sistemica e provocare effetti a lungo termine sulla salute.

o    Effetti sul sistema immunitario: l’esposizione alle microplastiche e alle sostanze chimiche tossiche associate può compromettere la funzione del sistema immunitario, portando ad una maggior suscettibilità alle infezioni, alle allergie e alle malattie autoimmuni.

o    Effetti neurologici: recenti ricerche suggeriscono che le microplastiche possano attraversare la barriera emato-encefalica e andare ad accumularsi nei tessuti cerebrali, dove potrebbero causare effetti neurotossici. L’esposizione prolungata alle sostanze neurotossiche rilasciate dalle microplastiche potrebbe dunque contribuire allo sviluppo di patologie neuro-degenerative quali la malattia di Alzheimer e di Parkinson e contribuire al decadimento cognitivo.

o    Effetti sull’apparato cardiovascolare: un recente studio pubblicato su The New England Journal of Medicine, a firma di ricercatori italiani, ha dimostrato la presenza di microplastiche e nanoplastiche all’interno delle placche aterosclerotiche di alcuni pazienti. I soggetti con queste caratteristiche presentavano un rischio maggiorato del 450% di incorrere in un infarto, ictus o mortalità per tutte le cause, nell’arco dei successivi 2-3 anni, rispetto alle persone che non presentano microplastiche nelle placche.

o    Interferenza endocrina (endocrine disruption): alcune sostanze chimiche presenti nelle microplastiche, come ftalati e bisfenolo A (BPA), sono degli interferenti endocrini, possono cioè interferire con i sistemi ormonali nel corpo. L’esposizione prolungata a queste sostanze può contribuire a problemi dell’apparato riproduttivo, disturbi dello sviluppo e squilibri ormonali.

o    Genotossicità: le microplastiche in esperimenti di laboratorio hanno prodotto effetti genotossici, cioè danni al DNA e mutazioni. La genotossicità può aumentare il rischio di cancro e comportare altre gravi conseguenze per la salute.

https://smips.org/2024/04/22/ecco-come-proteggere-la-salute-dalle-microplastiche/

mercoledì 24 aprile 2024

Ti ammali ? Vieni demansionato o messo a zero ore senza stipendio - Federico Giusti


Il personale dichiarato inidoneo alla funzione per motivi di salute non dorme sonni tranquilli, la inidoneità può arrivare come un fulmine a ciel sereno e distruggere ogni certezza nella nostra vita.

Oggi i diritti degli inidonei sono ridotti a carta straccia, nel settore autoferrotranviario un tempo venivano collocati in altre mansioni oggi invece rischiano di trovarsi a casa senza stipendio.

Manca in tante aziende private la possibilità di percorsi formativi per ricollocare l’inidoneo ad altre mansioni e una recente Sentenza della Corte di Cassazione consente al datore di lavoro pubblico di inquadrare il lavoratore  in mansioni inferiori specie se lo stesso non ha presentato alcuna istanza per essere adibito ad altre mansioni previste dalla normativa contrattuale. Ma questa istanza può anche non essere avanzata specie se la inidoneità arriva in un momento di crisi aziendale o se interi settori sono stati nel frattempo oggetto di esternalizzazioni.

I contratti nazionali offrono ormai scarse tutele, se nel corso della visita periodica aziendale vengono riscontrate problematiche di salute incompatibili con la mansione svolta non esiste alcun automatismo che preveda la salvaguardia dei diritti pur con mansioni diverse specie se l’azienda è piccola e non sa ove ricollocare l’inidoneo.

Dopo la visita medica arriva il documento di idoneità alla mansione, in caso contrario inizia un autentico calvario per evitare il quale si va al lavoro cercando di occultare anche uno stato di salute precario. In teoria ogni lavoratore è obbligato a rilasciare dichiarazioni non fallaci sul suo stato di salute ma davanti al rischio di essere licenziati quanti di noi sarebbero disposti a dire la verità fino in fondo?

Molte volte la patologie riscontrate sono anche conseguenza di ritmi insostenibili, si contraggono patologie proprio per la tipologia del lavoro, per lo stress psico fisico a cui veniamo sottoposti. La Sentenza di Cassazione esclude il licenziamento del dipendente per inidoneità fisica o psichica prima di aver cercato di ricollocarlo ad altra mansione, ma se queste mansioni alternative non esistono in azienda cosa succederà?

Si potrà in teoria essere adibiti a mansioni diverse, mansioni compatibili con la stessa qualifica, ma ormai è acclarato che per conservare il posto di lavoro si subisce il ricatto dell’inquadramento in qualifiche inferiori che ormai è nelle potestà datoriali. E se nel pubblico è possibile che esista anche una carenza di posti e di mansioni alle quali adibire l’inidoneo, immaginiamoci cosa potrà accadere nel privato o negli appalti, nelle cooperative e in piccole aziende.

Il diritto del lavoro è ormai diritto del più forte a solo vantaggio della parte datoriale, la salvaguardia della salute e degli stessi diritti diventano un optional.

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martedì 23 aprile 2024

I più fessi d'Europa - Gilberto Trombetta


In Italia l'elettricità è più cara che in tutto il resto d'Europa. Perché? Le cause sono molteplici.


Innanzitutto la privatizzazione del settore energetico avvenuta durante gli anni 90, quelli della svendita dell'IRI: tra il 1992 e il 1995 l’ENI è stata prima trasformata in S.P.A. e poi privatizzata per il 70%, l’ENEL è diventata S.P.A. nel 1992 e privatizzata per il 75% nel 1999.


Poi è arrivata la liberalizzazione del mercato dei prezzi energetici imposta dall'Unione Europea a partire dal 1996, quando è stato approvato il primo "Pacchetto energia". In Italia sono stati i decreti Bersani del 1999 e Letta del 2000.


Poi ci sta il perverso meccanismo dell’asta marginale del mercato del giorno prima che fa si che tutta l'energia elettrica venga pagata al prezzo massimo offerto dai produttori energetici che partecipano all’asta.


Poi ci sono le pratiche scorrette di molti fornitori energetici che per aumentare i profitti non vendono l'elettricità nel mercato principale (quello del giorno prima) ma in quello del Servizio di Dispacciamento che può raggiungere prezzi anche del 600% superiori a quelli del mercato principale.


Ovviamente un contributo all'aumento dei prezzi lo hanno dato anche la transizione energetica targata UE (i costi dei permessi per l'emissione della CO2 sono passati dai 5,96 euro a tonnellata di 20 anni fa agli 83,5 del 2023) e le sanzioni alla Russia (che era il nostro maggiore fornitore di materie prime energetiche a basso costo).


Senza dimenticare che il peso di IVA e accise sulle bollette elettriche degli italiani vale tra il 10% e il 15%.

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domenica 21 aprile 2024

Il pianeta ha un clima diverso - Alberto Castagnola

 

Industria e criminalità organizzata estraggono ogni giorno immense quantità di sabbia dai fiumi e dalle coste, devastando ecosistemi e comunità, soprattutto in Marocco. La sabbia è la risorsa primaria per la produzione del cemento e il settore edilizio globale è in rapida crescita da decenni. Solo l’acqua supera questo consumo… Dietro il riscaldamento senza precedenti degli oceani, il ritiro dei ghiacciai e l’aumento degli eventi estremi registrati in tutto il mondo negli ultimi 14 mesi, a causa dei cambiamenti climatici, c’è anche quell’attività estrattiva

 

Sono ormai più di due anni che le temperature dei principali fenomeni climatici presentano dati in continuo aumento, ma le fonti ufficiali e il mondo economico dominante evitano accuratamente di affrontare questi eventi che richiederebbero immediate e strutturali misure economiche contrarie ai loro interessi di breve periodo. Ma procediamo ad analizzare con ordine i principali fenomeni in atto.

Negli ultimi 14 mesi (gennaio 2023 – febbraio 2024) numerosi sono gli eventi climatici che caratterizzano una trasformazione planetaria oramai in atto.

Oceani e ghiacciai

Il riscaldamento senza precedenti degli oceani. Quasi un terzo degli oceani, più esattamente il 32%, è stato colpito quotidianamente da una ondata di calore, misurabile in 10 punti percentuali in più rispetto al record precedente registrato nel 2016. Oltre il 90% degli oceani aveva fatto registrare ondate di calore durante l’anno.

Il ritiro dei ghiacciai. Nel 2023 è stata registrata la maggiore perdita di ghiaccio nei ghiacciai, mai prima registrati nelle rilevazioni effettuate a partire dal 1950. In particolare, le perdite maggiori si sono registrate in Nord America (9%) e in Svizzera (10%). La perdita di ghiaccio in  Antartico è stata la maggiore mai prima registrata, con un massimo di estensione di circa un milione di Kmq, equivalente ai territori di Francia e Germania.

Eventi estremi

L’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha reso noto che l’avanzamento degli eventi estremi, legati al clima, come le inondazioni, i cicloni, i temporali, le ondate di calore, la siccità e gli incendi, hanno aggravato l’insicurezza alimentare, le migrazioni e in genere gli impatti sulle popolazioni più vulnerabili.

Secondo un rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea), nel 2023 le emissioni globali di metano legate al settore dell’energia sono aumentati rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 120 milioni di tonnellate e restando vicine al record toccato nel 2019. È da notare che si tratta solo di una parte delle emissioni di metano, e che il metano è un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica.

In base ai dati dell’Osservatorio europeo sul cambiamento climatico (EOCC) quello del 2024 è stato il mese di febbraio più caldo di sempre. La temperatura media dell’aria sulla superficie della terra è stata 13,54 gradi, lo 0,81 in più rispetto alla media del periodo 1991 – 2020 e 0,12 in più rispetto al record precedente, risalente al 2016. È il nono mese consecutivo a risultare il più caldo mai registrato. La temperatura media della superficie dei mari ha toccato un nuovo record assoluto di 21,06 gradi. In alcune aree geografiche le temperature hanno raggiunto livelli molto elevati: in India 48,2 gradi centigradi, in Tunisia 49,0 gradi, ad Agadir in Marocco 50,4 e ad Algeri 49,2. In Brasile, al termine della stagione estiva, si sono registrati 42 gradi, con una umidità superiore al 70%. La temperatura “percepita” a Rio de Janeiro ha raggiunto il 62,3 gradi. La temperatura media globale del pianeta ha superato di 1,45 gradi centigradi quella registrata prima dell’inizio della fase industriale.

Una risorsa chiamata sabbia

Le mafie delle sabbie. La criminalità organizzata estrae sabbia dai fiumi e dalle coste, rovinando ecosistemi e comunità. Sono pochissime le persone che stanno procedendo ad esaminare da vicino il sistema illegale della sabbia o che richiedono di cambiarlo. Un problema sottovalutato? Il punto è che la sabbia può sembrare una risorsa di poco conto e illimitata, se si pensa solo a una mezza dozzina di grossi camion ribaltabili carichi di sabbia scura che venivano caricati in pieno giorno. Evidentemente l’azione era protetta da qualche grande impresa, o da personaggi altolocati, oppure, come spesso accade in Marocco, da trafficanti di stupefacenti. In questo paese esiste, grazie alle sue cave estese, la più vasta industria estrattiva del mondo. La sabbia è la risorsa primaria per la produzione del cemento e il settore edilizio globale è in rapida crescita da decenni. Ogni anno il mondo usa fino a 50 miliardi di tonnellate di sabbia, secondo un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, UNEP. Solo l’acqua supera questo consumo. Uno studio del 2022 dell’Università di Amsterdam ha concluso che stiamo dragando la sabbia di fiume a ritmi che superano di molto la capacità della natura di ripristinarla, al punto che il mondo rischia di esaurire la sabbia adatta all’edilizia entro il 2050.

La domanda maggiore di questa materia prima viene dalla Cina, una richiesta (6,6 giga tonnellate), nel periodo 2021 – 2023,  che supera notevolmente le quantità che gli Stati Uniti d’America hanno utilizzato nel corso di tutto il XX secolo (4,5 giga tonnellate); il valore delle importazioni è arrivato a 1,9 miliardi di dollari nel 2018, man mano che nei paesi si esaurivano le risorse interne. Anche il solo commercio legale è difficile da tracciare e potrebbe aver superato gli 800 miliardi di dollari già nel 2018.

Un’altra fonte stima che l’importo globale del commercio illegale di sabbia sia compreso tra i 200 e i 350 miliardi di dollari l’anno: più delle attività relative a tagli degli alberi, estrazione dell’oro e pesca messi insieme. Gli impatti ambientali causati sono pesanti. Dragare i fiumi distrugge estuari e habitat e conseguentemente aggrava le inondazioni. Erodere gli ecosistemi costieri sconvolge la vegetazione, il suolo e i fondi marini e danneggia la vita dei mari. In alcuni paesi l’estrazione illegale costituisce un’ampia parte di quella totale e il suo impatto ambientale è spesso più grave di quello dovuto agli operatori legittimi, sostiene l’esperto Beiser.

La sabbia è costituita da varietà diverse di materiali duri in granuli, come sassi, conchiglie o altro, di diametro inferiore a 2 millimetri. Quella di qualità fine è usata per fare il vetro e quella ancora più fine per costruire i pannelli solari e i chip di silicio per l’elettronica. La più adatta per l’edilizia è quella a granelli spigolosi, che favoriscono la presa della miscela cementizia. La sabbia di fiume è preferita a quella costiera, anche perché quest’ultima, prima di essere utilizzata, va lavata per liberarla dal sale. Se viene meno questo ulteriore passaggio, si realizzano edifici meno durevoli e più pericolosi per chi ci vive. 

Gli impatti ambientali sono devastanti, perché si distrugge il sistema fisico con cui la natura trattiene l’acqua, le conseguenze sulle vite umane sono visibili quando si verificano i terremoti. La sabbia dei fiumi funziona come una spugna, contribuendo a ripristinare l’intero bacino dopo i periodi secchi, ma se viene rimossa in misura consistente, il ripristino naturale non basta più a sostenere il fiume, emergono così difficoltà di approvvigionamento idrico per uso umano e fa perdere vegetazione e fauna selvatica. Inoltre, portare via la sabbia dalle coste rende ancora più esposti quei territori che già subiscono gli effetti dell’aumento del livello del mare.

Un mondo senza barriere

Lo sbiancamento delle barriere coralline. Numerose sono le barriere coralline che risentono del cambiamento climatico. Uno studio recente, apparso su Internazionale del 15 marzo 2024, fornisce una serie di dati relativi a una di esse che rappresenta solo il 10% di questo tipo di realtà marine, ma gran parte della altre dovrebbe trovarsi in situazioni analoghe. Si tratta della grande barriera corallina presente sulla costa orientale dell’Australia: lo sbiancamento è dovuto al riscaldamento delle acque del Pacifico, che negli ultimi mesi hanno raggiunto temperature da record a causa del cambiamento climatico e degli effetti del Nino.

Lunga oltre 2.300 chilometri, larga da 60 a 250 chilometri, la grande barriera corallina rappresenta appunto il 10% di tutte le barriere coralline del mondo. Oltre alla scogliera di corallo comprende centinaia di isole. Ospita migliaia di specie, tra cui spugne, più di seimila varietà di molluschi, 1.625 tipi di pesci, rettili marini, squali, oltre trenta specie di delfini e balene.

Il sito patrimonio dell’Unesco, ha subito negli ultimi otto anni cinque episodi critici. Lo sbiancamento avviene quando i coralli, sottoposti a stress a causa della temperatura, espellono le alche con cui vivono in simbiosi e che gli forniscono energia e nutrimenti. I coralli così diventano bianchi e se la situazione continua, possono anche morire. Secondo la Great barrier reef marine park autority sono in corso esami per determinare la gravità e la profondità del danno, che probabilmente varia notevolmente da una barriera all’altra.

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sabato 20 aprile 2024

Pesticidi su frutta e verdura: un’analisi di Consumer Reports

 

Un recente rapporto di Consumer Reports ha evidenziato preoccupanti livelli di pesticidi in alcuni prodotti alimentari, tra cui i fagiolini che presentano tracce di sostanze non più permesse dal 2011.

Secondo l’analisi, frutta e verdura come angurie e fagiolini presentano un elevato rischio a causa di contaminanti come l’oxamyl, che gli esperti ritengono particolarmente pericolosi per la salute.

L’articolo scritto da Catherine Roberts per Consumer Reports, e ripreso da USA TODAY, rassicura che non è necessario evitare completamente la frutta e la verdura, ma consiglia un consumo moderato delle varietà più a rischio, suggerendo di limitarsi a mezza porzione giornaliera.

Nonostante la pulizia dei prodotti possa rimuovere alcuni residui superficiali, i pesticidi possono anche essere assorbiti dalla pianta rendendo impossibile eliminarli completamente solo con il lavaggio.

Inoltre, l’EPA ha testato circa 30.000 campioni di prodotti agricoli, trovando che il 99% aveva residui al di sotto delle soglie di sicurezza stabilite. Tuttavia, secondo Roberts, anche questi livelli potrebbero essere troppo alti, suggerendo che le normative potrebbero necessitare di aggiornamenti per garantire una sicurezza maggiore.

Roberts sottolinea anche i rischi specifici per popolazioni vulnerabili come bambini e donne incinte e richiama l’attenzione sulla pericolosità di alcuni pesticidi che possono interferire con il sistema endocrino.

La giornalista spinge per una maggiore adozione di pratiche agricole biologiche, che utilizzano pesticidi a basso rischio e sono meno dannose per i consumatori e l’ambiente.

In conclusione, il rapporto invita i consumatori a preferire prodotti biologici e sollecita l’EPA a rivedere le sue politiche sui pesticidi per una maggiore protezione della salute pubblica e dell’ambiente, riflettendo sul bisogno di misure più severe contro i pesticidi più nocivi come gli organofosfati e i carbammati.

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venerdì 19 aprile 2024

L’impatto culturale di Amazon - Leonardo Animali

 

Un’area definita ad “elevato rischio di crisi ambientale” nella quale una raffineria di petrolio è circondata da altri impianti industriali, allevamenti intensivi, una centrale a turbogas e un aeroporto si prepara ad accogliere l’ennesimo polo logistico Amazon. Poco importa se aumenterà il traffico pensante su una rete stradale già congestionata, se ci sarà un rincaro del mercato immobiliare e se crescerà il lavoro precario… Accade nelle Marche. Scrive Leonardo Animali: “L’impatto più pesante di Amazon in questo territorio, non sarà tanto quello ambientale e paesaggistico, ma quello culturale… Non emerge nessun altra riflessione, se non quella dell’impossibile riconversione di questi territori all’industria del turismo…”

 

Ottimismo ed entusiasmo. Sono questi i sentimenti che si percepivano alla Coppetella il 28 marzo, durante l’attesa del viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami. La Coppetella è una zona della bassa Vallesina, attraversata dal fiume Esino. Quello che l’imperatore Federico II di Svevia, nato a Jesi il 26 dicembre 1194, propose alle autorità jesine del tempo, in un gesto di riconoscenza per i natali avuti, di trasformare in un canale navigabile, dalla foce fino a Jesi; così almeno narra la storia mista a leggenda. Una moderna infrastruttura per quel tempo, capace di dare una impulso commerciale ed economico alla città, e di competere con la portuale Ancona. Ma gli jesini del Basso Medioevo, scelsero l’altra opzione che lo “Stupor Mundi” mise sul piatto: il conferimento del titolo prestigioso di “Città Regia”. Sarà per questa scelta di quasi mille anni fa, che i marchigiani hanno sempre avuto un desiderio di riscatto da quella rinuncia, tanto da continuare a voler costruire ancor oggi strade inutili.

Mentre a Jesi, con la giunta di destra, qualche anno fa, l’identitario titolo di “Città Regia”, è stato persino inserito nello Statuto Comunale, al pari del valore costituzionale dell’antifascismo. Ma dal XIII secolo, la Vallesina rimasta senza canale navigabile, fino al boom industriale del secondo Novecento, fu nota a livello economico per le piantagioni di cavolfiori e carciofi, che crescevano sui campi pianeggianti a ridosso dell’asta fluviale; non a caso nei generi ortofrutticoli, si distinguono il “carciofo precoce Jesi” e “il cavolfiore precoce Jesi”, del cui antico seme, non manipolato geneticamente dalla Monsanto, sarebbe gelosa custode certamente Vandana Shiva. Ma poi con lo sviluppo industriale, il territorio un tempo a vocazione agricola, ha lasciato il posto al manifatturiero, all’industria agroalimentare, e alla meccanica, che hanno fatto del contadino un lavoratore di serie B. E oggi, dall’estuario dell’Esino fino alla montagna della Gola della Rossa verso il fabrianese, lungo il fiume si susseguono solo segni di un’attività antropica fortemente impattante, che fanno di questo territorio da Ancona fino a Jesi, una zona AERCA (Area ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale).

Partendo dalla foce del fiume, troviamo la raffineria API (una mini-Ilva di Taranto), zone artigianali ed industriali, gli allevamenti avicoli intensivi di Monteroberto, Jesi e Falconara Marittima del gruppo Fileni, l’aeroporto delle Marche, l’Interporto Marche, i 30 ettari da bonificare dell’ex zuccherificio Sadam del gruppo Maccaferri, la centrale Turbogas di cogenerazione a metano della Edison (oggi spenta), e tra poco il primo impianto delle Marche “End and waste” per rifiuti pericolosi e contaminati a Jesi. Si arriva così, risalendo circa 50 chilometri di fiume, a Serra S.Quirico, dove fino al 2048 le montagne verranno spolpate dalle cave di calcare massiccioE tra un anno, proprio alla Coppetella, verrà inaugurato il nuovo totem del rilancio occupazionale di questo territorio, perno di quella che il presidente della Regione Acquaroli definisce la “transizione economica”: l’undicesimo polo logistico italiano Amazon, la cui struttura di staglia già visibile in mezzo alla pianura, con i suoi 25 metri di altezza e 66 mila mq di superficie, e 300 metri di lunghezza.

Sotto un cielo da Triduo Pasquale, ad attendere il viceministro Bignami, c’era davvero tutta la cosiddetta classe dirigente di questo territorio, per la stretta di mano e la foto opportunity. I venti sindaci dei Comuni della Vallesina, capitanati da quello di Jesi Lorenzo Fiordelmondo, mezza giunta regionale, il presidente della Provincia e quello della Camera di Commercio delle Marche, il Presidente dell’Interporto Marche Massimo Stronati, vero artefice della concretizzazione dell’arrivo di Amazon, con i due componenti del cda, tutto di nomina regionale a marchio Fratelli d’Italia-Lega, Roberta Fileni vicepresidente dell’omonimo gruppo industriale leader degli allevamenti avicoli, e Gilberto Gasparoni, segretario regionale di Confartigianato. Non c’è nessuna autorità religiosa, come peraltro già avvenuto in occasione della posa della prima pietra del cantiere l’anno prima; perché, come spiegarono i vertici Amazon, essendo la multinazionale laica, non invitano mai i rappresentanti religiosi del Paese in cui mettono fondamenta.

 

La ragione della convocazione del 28 marzo, con gli onori di casa fatti dall’ad di Amazon Italia Logistica Lorenzo Barbo, era la visita al cantiere avviato il 24 maggio del 2023, con lo scopo non solo di illustrare lo stato dei lavori, ma anche di ribadire che per questo territorio Amazon sarà la panacea di tutti i mali, un farmaco del capitalismo senza alcuna controindicazione. La vicenda industriale è iniziata nel 2021, quando il Comune di Jesi era amministrato dal sindaco “civico” Massimo Bacci ma che, per la prima volta, dal 2012 portò sotto evolute spoglie, gli eredi del Movimento Sociale Italiano al governo della città per dieci anni, scalzando dopo decenni la sinistra. Un lungo tira e molla tra Regione, già a trazione meloniana, Comune e Interporto Marche (proprietario della stragrande maggioranza delle aree), guidato allora da un cda espressione della giunta regionale del Pd. Un percorso amministrativo con notevoli e complessi problemi urbanistici, che ad un certo punto fu sul punto di far fallire l’operazione, con le classiche accuse da ‘tutti contro tutti” tra i diversi protagonisti, che portarono Amazon a minacciare di dirottare la propria scelta verso la Spagna. Ma le malelingue della politica, narrano che ci furono diversi movimenti in Regione per provare a spostare il polo Amazon verso il piceno, forte roccaforte meloniana, e zona in forte crisi occupazionale. Ma, i meglio informati, raccontano che a premere sulla Regione per far saltare l’arrivo a Jesi del colosso di Seattle fondato da Jeff Bezos, sia stato il “sempreverde” potere industriale fabrianese, sostenitore elettorale del presidente di Fratelli d’Italia. La ragione molto semplice: la preoccupazione, considerata la strutturale depressione economica, sociale e occupazionale di Fabriano, iniziata dal 2009 e mai arrestatasi, per una migrazione verso la Vallesina alla ricerca di nuovo lavoro, con una conseguente forte flessione demografica di una città che da anni sta perdendo abitanti a causa della situazione occupazionale. Ma oramai è fatta.

“In tre anni – ha illustrato dentro l’esoscheletro del costruendo edificio l’ad Lorenzo Barbo – verranno creati mille posti di lavoro, con una retribuzione di 1780 € lordi mensili, più benefit aggiuntivi; in particolare daremo spazio al 35% di occupazione femminile, una quota molto più elevata della media del 22% del settore. All’interno di questo polo impiegheremo le più recenti tecnologie di robotica, e verrà sviluppato un ambiente di lavoro inclusivo, con annessa la mensa e un parcheggio con mille posti auto dotato di colonnine per la ricarica elettrica dei veicoli. Per Amazon il rapporto con il territorio, la transizione ecologica e la sicurezza sul lavoro sono coordinate prioritarie”. Infatti proprio l’estate scorsa, a 2 mesi dalla posa della prima pietra del cantiere, il 20 luglio qui alla Coppetella ha perso la vita Ciro Adinolfi, operaio specializzato di 75 anni che lavorava nel cantiere per conto di una ditta esterna, a seguito di un malore fatale dovuto al forte caldo di quelle giornate. Chissà poi se il lavoro sarà come quello annunciato dall’amministratore delegato, o come quello raccontato dal giornalista Andrea Rossi su La Stampa qualche mese fa? O se chi sta troppo in bagno verrà sanzionato? Tre anni fa, alla notizia dell’arrivo di Amazon, la politica “sparava” la notizia di qualche migliaio di posti di lavoro, ma ora i posti di lavoro sono stati ridimensionati a 1000 in tre anni. Ma nella “processione” istituzionale dentro al cantiere, il pourparler degli amministratori locali era perlopiù rivolto alle prossime elezioni amministrative del 9 giugno, che vedrà molti di loro ricandidati o meno, rieletti o meno.

Quello di cui non si è parlato, ma sono le questioni che più preoccupano gli abitanti del territorio è l’aumento del traffico pesante rispetto alla rete infrastrutturale già fortemente congestionata, compreso il casello A14 Ancona Nord, a pochi chilometri dal polo Amazon. Una rete stradale già ritenuta insufficiente rispetto all’aumento dei carichi di traffico pesante, e di quello veicolare, considerato che i mille nuovi occupati, non avranno alcuna alternativa per raggiungere il luogo di lavoro, se non l’automobile. Durante la visita al cantiere è stato fornito il dato di 18 camion all’ora in entrata e in uscita da Amazon. Una cifra comunque molto diversa da quella fornita due anni fa dall’amministrazione comunale jesina a guida Bacci, che parlava di 100 camion al giorno, perché quello illustrato il 28 marzo scorso alla Coppetella equivale invece a 432 camion giornalieri.

L’altro aspetto che preoccupa è quello del rincaro del mercato immobiliare, specie per le locazioni, a Jesi e paesi limitrofi. Una lievitazione dei canoni già iniziata all’arrivo delle centinaia di lavoratori delle ditte coinvolte nel cantiere, ma che aumenterà in vista dell’arrivo da fuori della nuova occupazione. Quello che sconcerta è che dalla politica marchigiana, in questi tre anni non si è levata una voce di perplessità sulle diverse “controindicazioni” dell’arrivo di Amazon. Neanche da sinistra, se non qualche mugugno dentro la maggioranza politica jesina, ma debitamente soffocato in nome della ‘ragion di stato’. Eppure, l’esperienza dello stabilimento di Castelguglielmo in provincia di Rovigo, aperto nel 2020, dovrebbe far sorgere qualche inquietudine, considerati i risvolti in tutto quel territorio dopo due anni e mezzo dall’apertura: l’aumento esponenziale del numero di precari che ha superato quello dei lavoratori con contratto stabile; contratti rinnovati di tre mesi in tre mesi, l’impiego di maestranze in lavori poco qualificati unito a un ricambio continuo di lavoratori; lì a cinque mesi dall’apertura, i lavoratori a somministrazione arrivati tramite agenzia interinale erano l’84% degli occupati, un anno dopo il 53%. Anche lì l’aumento del 30% del prezzo degli affitti, e la difficoltà a trovare alloggi a cifre abbordabili in tutta la provincia, in cui una stanza singola è arrivata a costare fino a 400 euro.

Da ricerche fatte, nelle aree di insediamento Amazon in Italia, il reddito medio è compreso tra i 14 e i 20mila euro, mentre nelle Marche, nel 2022 il reddito medio dichiarato è stato 21.345 euro. Quindi, come dimostrato in altre zone d’Italia, l’arrivo di Amazon con la tipologia di contratti che applica, porta a un impoverimento generale del territorio. Ma tutti a Jesi sperano che l’economia marchigiana, grazie ad Amazon, torni a correre. Sono già ora nella regione 600 le imprese presenti sullo store Amazon, con circa 30 milioni di euro di vendite all’estero nel 2023. La visione della politica rispetto a questa operazione, può essere riassunta in un passaggio dell’intervento del sindaco di Jesi (Pd), durante il sopralluogo sul cantiere: “Sono convinto che Amazon ci aiuterà ad immaginare il nostro territorio in modo diverso. La scelta di Jesi dimostra che siamo un territorio attrattivo, si realizzerà un’occupazione non solo quantitativa, ma qualitativa, attenta alla differenza di genere, e soprattutto dal forte valore sociale, perché per molti soggetti ai margini e svantaggiati, rappresenterà un ascensore sociale e la realizzazione di un’aspettativa di vita”. Una riflessione che stride non poco, pensando alla storia del lavoro e delle lotte dei lavoratori che per decenni hanno fatto di questo territorio un esempio in termini di diritti, di emancipazione, di fierezza nei confronti dei padroni e dei loro capitali, e che ha visto sindaci bloccare i binari delle ferrovia assieme agli operai durante storiche crisi aziendali. Si, perché poi in fondo, l’impatto più pesante di Amazon in questo territorio, non sarà tanto quello ambientale e paesaggistico, ma quello culturale. La vicenda di Jesi è la prova che la visione della classe dirigente per il futuro del lavoro dei prossimi decenni, non va oltre quella messa sul piatto da Amazon. Non emerge nessun altra riflessione, se non quella dell’impossibile riconversione di questi territori all’industria del turismo. In una regione che tra il 2020 e il 2021, in meno di due anni, ha visto 16.000 marchigiani under 35 trasferirsi definitivamente all’estero o in altre regioni: come se all’improvviso nelle Marche fosse sparita una città grande come Porto S.Giorgio; anche il dato del 2023 non è migliore o più rassicurante, rispetto al saldo migratorio generale, e non solo giovanile. E questa classe dirigente, sintomo allarmante, quasi da TSO, pensa davvero che l’approdo di Amazon frenerà l’emorragia demografica, o che il sogno dei propri figli e nipoti, per i quali magari hanno fatto sacrifici economici perché abbiano ottimi livelli formativi, sia quello di restare nelle Marche perché c’è Amazon.

Ad ascoltarli, e anche nel vederli in azione, questi personaggi che svolgono funzioni pubbliche importanti e delicate nelle istituzioni, non si può non pensare al titolo di un album di Giorgio Gaber, “Anche per oggi non si vola”. Ad voler essere generosi con loro, ma quasi offensivi con Giorgio Gaber.

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giovedì 18 aprile 2024

Cosa sono i santuari, le «fattorie vegane» finite sulla copertina di Internazionale

 

a cura di Michela Becchi

 

È il modello del futuro? Chiede l’autore dell'articolo pubblicato su Internazionale, la storia degli allevatori svizzeri che hanno scelto di smettere di uccidere gli animali. La risposta esiste già da tempo.


Esistono gli animali da compagnia e poi quelli da reddito. Tra questi ultimi, quei pochi che riescono a essere salvati da morte certa nei macelli, finiscono nei santuari: rifugi per animali senza scopo di lucro, dove una squadra di volontari si prende cura degli ospiti, anche attraverso il sostegno economico di tanti animalisti.

Cosa vuol dire fattorie vegane

In Italia esiste una Rete dei Santuari con una Carta di Valori che ne regolamenta il funzionamento: nessun animale deve essere sfruttato per alcuna prestazione (no cibo, no lana, no latte e così via), e ogni santuario deve impegnarsi a promuovere un approccio gentile nei confronti degli animali, aprendo le porte al pubblico. Dietro, ci sono un’associazione o un ente no profit, che non possono pagare per recuperare più ospiti (altrimenti, si alimenterebbe ancora la concezione dell'animale-oggetto da acquistare; quelli dei santuari sono animali fuggiti, salvati per caso o donati spontaneamente dagli allevamenti ai volontari).

 

Le regole sono diverse, si trovano tutte sul sito della Rete, e il numero dei santuari presenti in Italia cresce sempre di più. In ogni paese, però, le cose funzionano diversamente. A riportare l'attenzione sul tema in questi giorni è l’ultima copertina di Internazionale (12/18 aprile 2024), con l’articolo di Christof Gertsch di Das Magazin, Svizzera, intitolato «Nella nuova fattoria».

Tobias Burren, l'allevatore pentito in Svizzera

Il pezzo racconta la storia di Tobias Burren di Liebwil, nel cantone svizzero di Berna: la sua è una famiglia di vecchi allevatori che negli anni ha fatto tanti sacrifici, ma un giorno, mentre cullava il suo bambino, Tobias ha sentito una mucca piangere incessantemente perché separata dal piccolo, e da allora tutto è cambiato. Con sua moglie Christine, cuoca ed economista aziendale, ha scelto di diventare vegano e trasformare la sua fattoria, convertendola in una «fattoria vegana», ma non prima di aver finito di macellare tutto il bestiame «in eccesso».

D’ora in avanti, le mucche mangeranno l’erba dei pendii scoscesi e forniranno letame con cui Tobias produrrà il concime per i campi. Sarà un allevamento meno costoso ma non a costo zero: i Burren dovranno fare affidamento sui contributi di chi vorrà adottare a distanza un animale (proprio come accade nei santuari italiani e nel resto del mondo, Svizzera compresa).

 

Non si limiteranno ad accudire gli animali, ma produrranno alimenti vegetali. Coltivazioni di lenticchie e lupini dolcimais da polenta e tante preparazioni fatte in casa per deliziare i propri ospiti. Papà Ruedi non ha preso bene questo cambiamento: «Sembra assurdo anche a me usare metà dei cereali mondiali per dar da mangiare agli animali. Ma c’è davvero bisogno di scelte estreme come quella di Tobias? Non basterebbe mangiare tutti un po’ meno carne?».

L'agricoltura postletale che non uccide

Una domanda piuttosto comune in Svizzera, dove solo il 5% della popolazione segue una dieta vegetariana, meno dell’1% una vegana. Il format dei santuari è ancora tutto da scoprire: Stefan Mann è un esperto di economia agraria che ha coniato il termine agricoltura postletale, ovvero un’agricoltura che non uccide. È anche, però, rappresentante del consiglio di amministrazione di Agroscope, centro nazionale di ricerca del settore agricolo, e alla richiesta di intervista da parte del giornalista svizzero è stato piuttosto evasivo.

 

La lobby degli agricoltori contro le fattorie vegane

Dopo aver accettato, Mann ha annullato l'appuntamento «su consiglio dei miei superiori». L'intervista, alla fine, è stata fatta ma alla presenza di un’addetta stampa, un rappresentante di Agroscope e un Mann di pochissime parole. In sostanza, Agroscope non vuole rovinare i rapporti con i contadini «e la loro lobby nell’assemblea federale» spiega l’autore, considerando che l’istituto riceve circa 170 miliardi di franchi l’anno dallo stato.

Smettere di uccidere gli animali per Mann è sempre stato doveroso dal punto di vista etico, ma al giornalista ha dichiarato che tra le linee di ricerca dell’istituto oggi non esiste il concetto di agricoltura vegana. Eppure, si tratta di un tema scottante considerando che a livello globale «la biomassa del bestiame supera la biomassa di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali selvatici messi insieme» spiega Gertsch. A quanto pare, siamo in piena era della carne.

I terreni svizzeri non adatti all'agricoltura a uso umano

Ma non sarebbe sufficiente, come ha detto il papà di Tobias, che tutti ne consumassero un po’ meno? Urs Niggli, a capo dell’istituto di ricerca per l’agricoltura biologica - e consulente di Agroscope - ha detto che in Svizzera circa metà dei terreni a uso agricolo sono inadatti alla coltivazione di prodotti vegetali a uso umano, «perché troppo ripidi, troppo sassosi o troppo argillosi»: per ricavarne grandi quantità, bisognerebbe destinarli al pascolo dei ruminanti (questo, però, è il panorama svizzero, diverso rispetto a molti altri paesi). Conclude dicendo che «dobbiamo ringraziare per ogni vegano e ogni agricoltura che si converte perché la carne è troppa, ma lasciare inutilizzati tutti i pascoli sarebbe assurdo» (ricordiamo, di nuovo, che è anche lui consulente di Agroscope).

Nessuno vuole salvare il mondo

Insomma, nessuno si prende la briga di rispondere in maniera chiara e decisa a questa domanda, scomoda da tanti punti di vista. C'è, però, chi nei santuari ci crede fino in fondo: sono persone che non hanno la presunzione di salvare il mondo «ma loro stessi». Ex allevatori pentiti (in Italia un caso simile è quello di Massimo Manni a Nerola, in provincia di Roma, con il Santuario Capra Libera Tutti) che «fanno quello che possono».

Le vecchie generazioni, come spesso accade, faticano a stare al passo, temono per gli affari di famiglia. Ma Tobias e Christine, così come tanti altri «fattori vegani» hanno preso la loro decisione e non torneranno indietro, a costo di doversi reinventare da capo e cominciare un nuovo lavoro. Perché sì, il futuro, è proprio questo.

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