lunedì 31 ottobre 2016

Robot, lavoro e legalità: il miracolo giapponese che fa sperare Cosenza - Marco Patucchi


Immaginate di essere il manager di una multinazionale giapponese con 240mila dipendenti e 95 miliardi di fatturato nel mondo. Siete partiti da Tokyo e, dopo almeno uno scalo, siete atterrati all'aeroporto di Lamezia Terme. Poi avete percorso settanta chilometri della "Salerno-Reggio Calabria", quasi tutti a corsia alternata causa cantieri, circondati da mare e boschi bellissimi, ma anche da paesi dove spiccano case abusive o costruite a metà. Avete raggiunto Cosenza, l'avete attraversata e avete cercato una stradina di campagna ai piedi della Sila, nascosta da un centro commerciale e da capannoni anonimi. Lì, oltre un cancello senza insegne particolari, c'è la meta del vostro viaggio.

Non è la sceneggiatura di un film, perché quasi ogni mese in questa stradina dissestata della frazione di Rende arrivano davvero manager e tecnici giapponesi di NTT Data (società di informatica del gigante nipponico delle telecomunicazioni) che ha tre centri di ricerca a livello mondiale: uno a Tokyo, uno a Paolo Alto nella Silicon Valley californiana, e uno sorprendentemente a Cosenza. Insomma, una storia che sembra capovolgere molti stereotipi del nostro Paese: il Sud senza speranza, l'assistenzialismo, la fuga dei cervelli, il clientelismo, la malavita organizzata...Ma anche un'eccezione che fatica a diventare esempio, a contaminare il territorio che ha un tasso di disoccupazione del 22,5%.

"Qui a Cosenza abbiamo 200 dipendenti con un'età media di 33 anni, e ne assumeremo altri 150 entro il prossimo anno - racconta Emilio Graziano, vice presidente di NTT Data Italia - . Sono tutti ingegneri informatici usciti dalle università della Calabria e lavorano con contratti a tempo indeterminato, senza jobs act". Graziano (53 anni) è calabrese, come i coetanei Giorgio Scarpelli, anche lui vice presidente, e Roberto Galdini, senior manager: tutto è iniziato da loro e da un bilocale di Rende dove, nel 2001, avviarono una startup specializzata nella sicurezza informatica, trasferita poi ad un gruppo italiano di consulenza manageriale e, infine, alla NTT. Avrebbero potuto passare all'incasso, tra azioni e stock option varie, invece hanno scelto di rimanere nell'azienda che avevano creato: "Volevamo fare qualcosa per la nostra terra, ma senza l'alibi dei problemi del Sud - spiega Graziano mentre ci accompagna in uno dei reparti dello stabilimento -. Abbiamo rinunciato agli scambi politici e alla finanza agevolata puntando sull'università e sulla voglia di riscatto dei giovani calabresi. Un'alchimia, quella con l'ateneo, che funziona e che piace anche ai giapponesi: ormai ci considerano uno dei loro fiori all'occhiello. Abbiamo dimostrato che si può creare lavoro anche in Calabria. Ora tocca agli altri, ma mi sembra che intorno si stia muovendo poco".

L'università di Cosenza, fondata da Beniamino Andreatta e Paolo Sylos Labini, è qui vicino con i suoi cubi architettonici disegnati da Vittorio Gregotti e spalmati lungo i due chilometri del pontile sul fiume Crati. "La nostra offerta cresce - ci dice Domenico Saccà, docente al dipartimento di Ingegneria informatica - però la domanda innovativa del territorio è ferma. È un peccato, perché proprio così si battono mafia e arretratezza". Malavita che probabilmente resta alla larga da NTT anche perché l'azienda i profitti li fa fuori dalla Calabria. Quanto alla classe politica locale, Graziano assicura che sta migliorando, dopo che per decenni ha solo alimentato il bisogno: "Comunque se anche ci segnalano persone, noi assumiamo solo chi è bravo. Ce lo possiamo permettere perché ci siamo sottratti da sempre a certi meccanismi".

Così l'innovazione, per adesso, resta confinata dentro le mura dello stabilimento dove i team di giovani ingegneri lavorano ai vari progetti. Come i sistemi di cyber security per la comunicazione in gruppi ristretti di persone, utilizzati ad esempio dai consigli di amministrazione di società quotate o da aziende esposte allo spionaggio industriale e all'hackeraggio. "Sistemi di sicurezza - racconta Giorgio Scarpelli - che stiamo studiando anche per l'internet delle cose e per i filtri dei social network, un tema sul quale collaborano con noi sociologi, psicologi e legali". Poi la rete di pagamento attraverso smartphone realizzata per lo Stato di Malta, e le ricerche applicative sula Blockchain, piattaforma alla base della cripto-moneta Bitcoin, destinata ad allargarsi a molte altre reti. E ancora, lo sviluppo di "Sota", il robot interattivo arrivato dal Giappone dove viene usato per l'assistenza agli anziani e che alla NTT di Cosenza stanno sperimentando per ulteriori funzioni. "Hitoe", la t-shirt con sensori nel tessuto che misurano e trasmettono attraverso una app i parametri vitali del corpo: sarà testata dai piloti McLaren in Formula Uno, e servirà soprattutto per le emergenze in lavori tipo quelli dei pompieri, degli autisti, dei tecnici delle centrali elettriche, delle forze dell'ordine al centro di manifestazioni violente. La possibile estensione della realtà virtuale alla sensibilità tattile e alla percezione del peso e del movimento: uno sviluppo che, incrociato alla indoor navigation, potrà aiutare in situazioni di allarme come l'incendio in uno stabilimento o in ambienti disastrati ("Pensiamo a cosa è successo, ad esempio, in piena notte nel naufragio della Concordia", spiega Scarpelli).

Vedere tutti questi lavori è come il balzo in un futuro a portata di mano. Lo stesso futuro possibile avvistato dai neolaureati (ma sono stati assunti anche 15 giovani ancora impegnati nel percorso universitario) che incontri qui a Rende. "Appena laureata pensavo di dovermene andare dalla Calabria - racconta Annalisa, trentatre anni -. Era una scelta obbligata, qui chiudevano tante aziende. Poi sono entrata nella NTT che all'inizio mi ha mandato tre anni a Milano, in Germania e in Inghilterra: ora eccomi di nuovo a Cosenza, dove mi sono portata dietro anche il contatto con il cliente che curavo in Gran Bretagna". Francisco ha meno di 30 anni ed è nato in Argentina dove si era trasferita la famiglia calabrese: dopo esperienze in Sud America e ad Oxford è voluto tornare in Calabria. È lui che sta seguendo la sperimentazione nella Blockchain: "Qui ho trovato la situazione ideale: faccio ricerca e innovazione, ho uno stipendio stabile e ho recuperato le radici della mia terra". Più o meno gli stessi concetti espressi da Colomba, 22 anni: "Ho fatto uno stage appena diplomata, nel frattempo ho iniziato l'università a Cosenza. Terminata la formazione, sono stata assunta".

Lasciando lo stabilimento, dopo aver ascoltato le storie dei ragazzi, la sensazione "sliding doors" è forte. È come uscire da un'enclave condannata a rimanere isolata per sempre. "Guardi quella cartella - dice Roberto Galdini prima di congedarci indicando un faldone sulla scrivania - lì dentro c'è l'intero piano di investimenti pubblici progettato per la Calabria. Ce lo stiamo studiando, ma è tutto fermo per le lungaggini della burocrazia. Pensi che abbiamo aspettato sei mesi per avere la fibra ottica qui allo stabilimento, poi il giorno dopo hanno inavvertitamente tranciato un cavo e abbiamo dovuto sistemarcelo da soli...".
È ora di andare: nel buio e sotto la sottile pioggia della Sila, ci attende la "Salerno-Reggio Calabria".

domenica 30 ottobre 2016

No, Assessore Erriu, sugli usi civici non la contate giusta - Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

Il Fatto Quotidiano, grazie alla penna di Ferruccio Sansa, ha dedicato una pagina intera (edizione del 30 ottobre 2016) al nuovo Editto delle Chiudende confezionato dalla Giunta Pigliaru e scodellato dal Consiglio regionale sardo.
L’articolo non è piaciuto all’Assessore degli Enti locali, Finanze, Urbanistica della Regione autonoma della Sardegna Cristiano Erriucuriosamente presentatore del disegno di legge regionale poi approvato in Giunta al posto della “collega” Elisabetta Falchi titolare dell’Assessorato dell’Agricoltura, competente in materia di usi civici.
Parla di “un quotidiano nazionale e … alcuni ambientalisti”, cioè parla de Il Fatto Quotidianoe del Gruppo d’Intervento Giuridico onlus, visto che è Il Fatto ad aver ampiamente illustrato la vicenda e non risultano altri “ambientalisti” o “associazioni ambientaliste” a essersi mai occupati di difesa dei diritti di uso civico in Sardegna.
Spiace, ma continueremo a difendere i demani civici in Sardegna e altrove.
Non convince nemmeno un po’ una legge approvata di notte, a poche ore dalla proposta della Giunta, senza uno straccio di dibattito pubblico, dopo vari contenziosi davanti alla Corte costituzionale e 120 accertamenti di demani civici effettuati e pagati dalla Regione, ma tuttora non promulgati.
Non convince nemmeno l’intento di volere “affrontare casi specifici” come l’inquinatissimo bacino dei “fanghi rossi” di Portovesme, realizzato su terreni a uso civico.
La legge approvata furtivamente la notte del 25 ottobre 2016 riguarda naturalmente casi generali e astratti, potenzialmente gli oltre 400 mila ettari dei demani civici sardi.  Se si voleva intervenire su singoli pochi casi, gli istituti applicabili potevano esser altri (la permuta, l’alienazione, il trasferimento dei diritti di uso civico) già previsti dal quadro normativo (legge n. 1766/1927 e s.m.i.regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.legge regionale n. 12/1994 e s.m.i.).
In più, sul piano giuridico, è l’ennesimo pastrocchio: in pratica, la Giunta Pigliaru ha proposto che i terreni appartenenti ai demani civici siano sclassificati – cioè sdemanializzati – ma la perdita della tutela paesaggistica di cui al decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. sarebbe sospesa in attesa delle verifiche svolte dal Ministero per i beni e attività culturali e del turismo e della Regione nell’ambito degli accordi di copianificazione propri della pianificazione paesaggistica.
Non si comprende a quale titolo quelle aree rimarrebbero tutelate con il vincolo paesaggistico, in una sorta di limbo giuridicoin attesa di futuri accordi di copianificazione Stato-Regione che chissà quando arriveranno, pur avendo perso la qualifica demaniale civica, cioè la il motivo stesso della presenza del vincolo di uso civico (art. 142, comma 1°, lettera h, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).
Avrebbe avuto senso e sarebbe stata ampiamente giustificabile un’operazione di trasferimento dei diritti di uso civico dalle aree compromesse irreversibilmente a boschi, coste, pascoli di proprietà comunale e, eventualmente, regionale, così da compensare sul piano ambientale e sociale la perdita in danno delle collettività locali.
Ma così non è stato e il Gruppo d’Intervento Giuridico onlus si rivolgerà ancora una volta al Governo perché insista davanti alla Corte costituzionale nel già presente conflitto di attribuzione. Infatti, queste norme regionali, proposte e votate da una maggioranza trasversale sovranista e di centro-sinistra, violano le competenze statali esclusive in materia di tutela dell’ambiente (artt. 9, 117, comma 2°, lettera s, cost.), come già riconosciuto con la sentenza della Corte costituzionale n. 210/2014, che dichiarò illegittima la legge regionale Sardegna n. 19/2013 di analogo contenuto.
Siamo disponibili a qualsiasi confronto, ma ci opporremo con tutti i mezzi a nuovi editti delle chiudende.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

venerdì 28 ottobre 2016

Per ogni villaggio una foresta - Marinella Correggia

Forse gli eroi non esistono ma certo questo analfabeta che semina gli alberi somiglia assai all’idea di una persona normale/eccezionale che impegna la sua vita al servizio dell’umanità.


Seminare foreste per fermare l’avanzata del deserto. Hanno il respiro lungo e il passo del maratoneta le suggestioni ispirate da Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso che seppe incendiare l’Africa, ridando senso – nel continente più difficile – a una parola piegata e abusata come “rivoluzione”. Ce lo ricorda, a quasi trent’anni dal suo assassinio, un ricercatore analfabeta che, secondo fonti autorevoli, ha fatto molto per preservare il Sahel, più di tanti prestigiosi gruppi di ricerca internazionali. Negli anni Settanta, da commerciante diventò pioniere nella lotta alla desertificazione «per avere un’attività non fondata sul denaro». Yacouba Sawadogo è l’uomo che semina gli alberi e ha fatto crescere una foresta usando la strategia ecologica e sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli agricoltori (Rna), nella quale gli alberi spontanei sono protetti perché trattengono l’umidità nel suolo e aiutano i raccolti. Marinella Correggia lo ha incontrato a Torino


«Per ogni villaggio, una piccola foresta»: uno dei tanti sogni di quell’utopista concreto che si chiamava Thomas Sankara. Ma il 15 ottobre 1987 il presidente del Burkina Faso fu assassinato e finì una rivoluzione che parlava al mondo partendo dai contadini saheliani tormentati dalla miseria e dall’avanzare del deserto. In soli 4 anni di governo – prima della restaurazione del golpista Blaise Compaoré -, i burkinabè non riuscirono a rinverdire il Sahel. Ma in tutti questi decenni, qualcuno ha portato avanti il lavoro sul campo. Seminare foreste tornerà ad essere una priorità nazionale dopo la sollevazione popolare dell’autunno 2014 che ha cacciato Compaoré e malgrado le tante contraddizioni del nuovo governo? Yacouba Sawadogo non lo sa. Ma continua a lavorare.
Chi si reca al villaggio di Gourga, deve cercare Sawadogo nel grande bosco che si estende per ettari ed ettari, ricco di acacie, pruni, datteri del deserto, leiocarpus, gomma arabica, moringa; per gli uccelli e gli altri animali selvatici, piccoli punti di acqua sparsi qui e là. Una foresta dove decenni fa non c’era nemmeno un arbusto.
Niente piantumazioni monovarietali, costose e che spesso muoiono in quell’ambiente ingrato. Lui, Yacouba, gli alberi non li pianta: li semina. Pratica la strategia ecologica e sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli agricoltori (Rna), nella quale gli alberi spontanei sono protetti perché trattengono l’umidità nel suolo e aiutano i raccolti. Tecniche simili di coltivazione e riforestazione naturale sono portate avanti, fra gli altri, dai Groupements Naam, un’associazione di gruppi di villaggio assai diffusa in Burkina Faso.

Sawadogo ha raccontato la sua storia giorni fa a Torino e Cumiana, partecipando all’incontro internazionale «Terra madre». Ci ha spiegato che negli anni Settanta, anni di totale siccità, mentre i contadini fuggivano dalle campagne assetate, egli come un folle fece il cammino opposto. Da commerciante diventò pioniere della lotta contro il deserto, «per avere un’attività non fondata sul denaro». A Gourga allora si faceva la fame. Yacouba, da buon innovatore delle buone tradizioni, reintrodusse lo zai, un’antica tecnica tipica delle aree del nord, a più bassa pluviometria: nella stagione secca si scavano buchi regolari nei campi, per trattenere l’acqua nella successiva stagione delle piogge.
La novità ideata da Sawadogo consisteva nello scavare buche più grandi, e nel deporvi compost e letame e anche le termiti, che aiutano a smuovere il terreno. Poi si seminano cereali e specie arboree. Così, sotto le mani di Sawadogo e dei contadini affamati di Gourga ai quali offriva cibo in cambio di lavoro, migliorarono i raccolti (fino a 1,5 tonnellate di miglio per ettaro anziché 500 kg) e crebbe la foresta. Dapprima lo credono folle, i capiclan cercano di boicottarlo perché sono abituati ad assegnare in tutta discrezionalità le terre – in Burkina sono dello Stato. A un certo punto la foresta è stata minacciata perfino da un progetto di espansione immobiliare della vicina Ouahigouya, poi per fortuna fermato. Ma lui ha resistito, fedele al principio che «il valore di una persona si misura con il tempo che ci mette a desistere». Tuttora distribuisce semi e dispensa consigli e corsi di formazione a chi glieli chiede.

Migliaia di famiglie negli anni grami sono sopravvissute grazie alle sue tecniche: «Se riesce a produrre cibo a sufficienza, il paese si salverà», dice. Per Chris Reji, esperto internazionale della Rna, «Yacouba, ricercatore analfabeta, ha avuto più impatto sulla preservazione del Sahel di tanti gruppi di ricerca internazionali e nazionali». Una ricerca della Fao stima che con l’equivalente di poche decine di euro si potrebbero rimborsare le ore di lavoro e le risorse necessarie ai contadini per rigenerare un ettaro di Sahel. Ma questo sostegno, una vera restituzione internazionale a chi è vittima anche dell’ingiustizia climatica, langue. Così la tecnica dello zai continua ad avere un risvolto duro: fatica nella polvere, con le pesanti zappe in mano e il sole che batte. In mezza giornata, otto persone valide possono scavare mille zai, ma piccoli. Poi agli zai vanno associate le dighette antierosive formate da cordoni di pietra – da trasportare a mano o con la carriola. Tanta fatica, tanto tempo significano anche una diffusione inferiore a quella che sarebbe necessaria. Gli stessi Naam non hanno quasi trattori e nemmeno zappe ergonomiche.
Lo Zai può anche essere praticato con un attrezzo trainato dagli animali. E qui si apre un altro capitolo: gli asini burkinabè – da sempre compagni dello sforzo umano – sono stati decimati per anni, carne e pelli esportati verso l’Asia. Nello scorso agosto, anche grazie a una piccola campagna di pressione, il Burkina seguendo il Senegal ha introdotto una legge per la loro protezione. Ma questa è un’altra storia.

giovedì 27 ottobre 2016

Ribellarsi facendo il bikeman - Paolo Bellino Rotafixa


Molti lettori e lettrici di Comune hanno imparato a conoscere Paolo Bellino Rotafixa per i suoi racconti su come le bici sono in realtà soltanto delle matite travestite che – quasi sempre senza e a volte con una risonanza istituzionale – si divertono a ridisegnare territori e relazioni sociali. E il risultato finale è sempre piuttosto sorprendente quanto piacevole. Da qualche giorno Paolo è diventato il responsabile dello sviluppo della ciclabilità di Roma. Le notizie a questo punto sono tre. La prima: questa città non aveva mai avuto un bike manager. La seconda: la sua nuova responsabilità può avere un esito positivo. La terza: Paolo è convinto che la bicicletta resti un induttore di felicità.


Ci ho messo un po’ ma finalmente riesco a scrivere questo breve articolo: dal 19 ottobre 2016 sono il responsabile dello sviluppo della ciclabilità di Roma.Nella delibera di nomina si parla esplicitamente di bike manager (che io tendero’ ad abbreviare in bikeman, mi sembra più adeguato e irrispettoso il giusto). Un ruolo che questa città non aveva mai avuto e di cui si dota per la prima e spero non ultima volta.
La scelta è stata della sindaca, Virginia Raggi, e dello staff che la circonda, a fine giugno scorso. Un nuovo pezzo della lunga storia d’amore e viaggio tra me e la bicicletta che arriva a poco meno di quindici anni dallo stordimento dovuto al fulmine-bici che mi aveva fatto cadere dal cavallo-moto, uno stato estatico che mi ha accompagnato per quasi due anni, forse più; un periodo in cui mi ero messo in testa di far capire a chiunque fossi stato capace di raggiungere quanto sia supremo, regale, divino il mezzo meccanico chiamato bicicletta. Invenzione collettiva, specchio dell’anima, induttore di felicità, estrattore di droghe chimiche endorfiniche, inoculatore di un altro modo di vivere la strada e la città.
Un dipolo, quello tra allora – i tempi fondanti del nuovo cicloattivismo – e oggi, che ha creato un arco voltaico lunghissimo di energie sempre crescenti, e sempre meno personali, nelle persone che già allora erano alla ricerca di quel “qualcosa” indefinito che le facesse stare meglio durante i loro spostamenti. In questo arco di tempo è successo di tutto, e a me è successo di tutto personalmente, compreso il disamore per il vecchio lavoro, il giornalismo, cosa che non mi sarei mai aspettata, e compreso un giro del mondo con bici autocostruita per festeggiare i miei cinquant’anni.

Vorrei inserire qui una parte della delibera che la giunta del Campidoglio ha votato il 14 ottobre, con motivazioni che spero anche voi apprezzerete per il loro oggettivo valore politico:
“L’Assessore alla Città in movimento, Linda Meleo, ha chiesto […] l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato con il Dott. Bellino Paolo, attesa la necessità di disporre di un qualificato supporto in ordine ai temi legati allo sviluppo della mobilità ciclistica ed alle relative ricadute sull’intero settore dei trasporti, nonché al raccordo istituzionale tra Assessorato, Associazioni e Municipi, in riferimento alle problematiche legate alla mobilità a pedali nella città di Roma.
Per l’assolvimento di tali funzioni, l’assessora Linda Meleo specifica la necessità di avvalersi di un bike manager capace di: interpretare le reali esigenze di chi si sposta in bicicletta; intraprendere un’azione mirata e sinergica per mettere in rete i vari quadranti della città attraverso la realizzazione di una struttura snella e a basso costo per regolamentare il traffico veicolare e aumentare il livello di sicurezza di chi pedala, favorendo, così, l’uso della bici in città; costituire un punto di riferimento degli Assessori alla Mobilità dei vari Municipi, al fine di porre in essere una rete tra le diverse esperienze ciclabili, ricreando il tessuto cittadino a partire dalla bicicletta come mezzo di spostamento;
L’assessora Meleo, nelle suddette note, precisa che, essendo la ciclabilità un settore complesso, nel quale operano una pluralità di soggetti che esprimono interessi non sempre convergenti, si rende necessaria l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato con una figura professionale che, avendo maturato esperienze concrete in riferimento a tali problematiche, conosca il tema e possa contribuire a ridisegnare la viabilità delle strade di Roma”. Cose che tutti noi attivisti rivendicavamo da anni. 
La bici ha rappresentato sempre, per me, un viaggio. La “deriva psicogeografica” che ipotizzavano Cronoman o Menthos, nei primi tempi della scoperta/invenzione/costruzione del cicloattivismo. Questo viaggio ha avuto diverse tappe, mai simili tra loro ma identiche nel fattore dominante, il ferro su due ruote. Quella di oggi è l’ennesimo episodio del lungo viaggio che sto effettuando incessantemente dall’età di trentanove anni. Forse non il più importante, ma di sicuro quello che 1) mi carica di maggiori responsabilità e 2) deve avere un esito positivo, per contribuire al miglioramento di quella stanca, vagabonda e bellissima donna in stracci e croste chiamata Roma. Sto evolvendo, naturalmente. Vita migliore non ce n’è.

Puerto Rico sfida la crisi con l’agricoltura locale


Per la prima volta in trent’anni a Puerto Rico si possono comprare riso, funghi, cavoli e ananas coltivati sull’isola. Negli ultimi tempi, per fare fronte agli effetti di una crisi economica decennale, gli abitanti del territorio liberamente associato agli Stati Uniti hanno investito nell’agricoltura, facendo crescere un settore economico finora trascurato, molto marginale rispetto a quelli manifatturiero, finanziario e turistico. Le nuove coltivazioni hanno fatto fiorire anche i mercati contadini e i ristoranti che utilizzano prodotti locali.
Secondo i dati dell’ufficio del governatore, le entrate del settore agricolo sono cresciute del 25 per cento nel periodo 2012-2014, raggiungendo i 900 milioni di dollari. Anche la porzione di territorio dedicata ai campi è cresciuta del 50 per cento negli ultimi quattro anni, e sono stati creati almeno settemila posti di lavoro, su una popolazione complessiva di 3,5 milioni di abitanti. Per il resto la situazione economica è grave: decine di migliaia di persone rimaste senza lavoro si sono trasferite negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12 per cento e il governo locale non ha i mezzi per ripagare un enorme debito di 70 miliardi di dollari.
In questo contesto il rilancio dell’agricoltura è anche un modo per evitare costose importazioni di prodotti agricoli. L’ultimo produttore di riso dell’isola aveva chiuso nel 1989, ma ad agosto le confezioni di riso locale sono tornate sugli scaffali dei supermercati grazie ai lavoratori di Finca Fraternidad. È una delle 350 aziende locali sostenute dall’amministrazione puertoricana, che ha dato in concessione ai lavoratori di Finca Fraternidad 550 ettari di terreni pubblici incoltivati. Ma non sono solo le piccole realtà locali ad approfittare del rilancio dell’agricoltura a Puerto Rico: anche la tedesca Bayer e la statunitense Monsanto hanno annunciato importanti investimenti nell’isola.
Le foto sono state scattate da Carlos Giusti nel settembre del 2016.

sabato 22 ottobre 2016

D’aria si muore - Anna Molinari

Da Pechino a Kathmandu, recentemente ho avuto occasione di condividere con alcune persone alcuni scambi opinioni riguardanti le… caccole del naso. Già, perché i discorsi seri cominciano spesso da particolari apparentemente insignificanti, curiosi, di poco conto. Per esempio dalle sensazioni che ti raccontano gli amici al ritorno dai loro viaggi, che ogni tanto riguardano anche situazioni quotidiane e molto semplici, come ad esempio soffiarsi il naso e realizzare che le secrezioni nasali che produci sono nere. Nere di polvere, smog, inquinamento. Nere di respiri talmente abituali da essere ignorati, ma da ritornare sotto la lente dell’attenzione per alcune occasionali conseguenze che innescano pensieri globali.
Perché in fondo sarà successo a molti… una serata in una palestra polverosa, un pomeriggio sul cantiere della ristrutturazione di casa, un giorno durante un trasloco. Le “polveri” ci invadono, ma non ci facciamo caso, perché abbiamo sempre un posto migliore dove rifugiarci, dove ripulire i polmoni e ringraziare le vibrisse. A volte, però, un luogo migliore dove andare non c’è, se l’aria grigia che respiri non è quella di un luogo circoscritto e temporaneo ma è quella della città in cui vivi, del mondo che abiti.
Bene, gli ultimi dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono qualcosa proprio su questo punto, e purtroppo non è affatto qualcosa di buono.Da quello che hanno chiamato Ambient air pollution. A global assessment of exposure and burden of disease emergono infatti dati agghiaccianti. Si tratta di uno studio dettagliato che ha come oggetto la contaminazione dell’aria esterna ed interna da parte di agenti chimici, fisici o biologici che modifichino le naturali caratteristiche dell’atmosfera e che, per i risultati emersi, offre un quadro per nulla confortante: a livello globale, oltre 9 persone su 10 respirano aria inquinata, che danneggia inesorabilmente la loro salute, quando non li uccide. Sono milioni infatti le persone morte a causa di solfati, nitrati e carbone che in corpuscoli minuscoli e ad alta densità introduciamo regolarmente nel nostro corpo. E che queste particelle abbiano impatti negativi anche in concentrazioni ridotte lo conferma il fatto che non sia stata identificata una soglia sotto la quale non si osservi alcun danno alla salute. Se guardiamo i dati forniti, ci accorgiamo ancor più di quanto tali rilevazioni non dovrebbero passare inosservate – cosa che invece purtroppo accade.
In Italia non ce la passiamo affatto bene se consideriamo una panoramica dell’Europa occidentale, anzi siamo il fanalino di coda, in particolare per quanto riguarda la Pianura Padana, che raggiunge i livelli di alcune tra le aree più inquinate del mondo. Quel che è peggio è che in Italia non compaiono “zone franche” e pulite, come accade invece in altri Paesi del Continente, ad esempio in Spagna, Francia, Scozia, Irlanda e altri Stati del nord. Che questi siano i risultati anche di un disinteresse generale da parte della politica è evidente: i rischi derivanti da fattori ambientali non sono percepiti come rilevanti e non occupano posti prioritari nelle scelte delle amministrazioni, pur rappresentando – e sono gli stessi esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a confermarlo – un fattore grave nell’incidenza dei decessi. Ogni anno nel mondo sono circa 3 milioni i morti a causa dell’inquinamento dell’ariae, dagli infarti al cancro ai polmoni, le particelle note come PM2.5 e PM10 – misurate da una comparazione di dati satellitari e territoriali - sono la causa di una serie di complicazioni e malattie che, nei casi migliori, si manifestano con gravi infezioni respiratorie.
A livello mondiale invece l’inquinamento dell’aria, sia outdoor (ambientale) che indoor (domestica), rappresenta una preoccupazione crescente, che favorisce la diffusione di dati sempre maggiori, anche e soprattutto correlati agli impatti sulla salute: infattil’inquinamento dell’aria è il principale rischio ambientale per la salute, con la responsabilità di 1 morte su 9 ogni anno, tanto da essere identificato nell’Agenda degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite una priorità per la salute globale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha il compito di monitorare in particolare 3 indicatori che riguardano nello specifico la salute (3° obiettivo), le città (11° obiettivo) e l’energia (7° obiettivo). Proprio a questo scopo mira la Campagna #BreatheLife, promossa proprio dall’OMS in collaborazione con l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, che punta a diffondere una maggiore consapevolezza su rischi e conseguenze ma soprattutto sulla prevenzione, suggerendo anche interessanti pratiche da attuare che coinvolgono sia le amministrazioni (trasportirifiuti, sistemi energetici, sistemi abitativi) sia i singoli individui (corretto smaltimento dei rifiuti, promozione di spazi e mobilità verdi).
Dunque, quando si tratta di affrontare passi impegnativi, è comune il consiglio di fare due bei respiri e mettersi all’opera. Che l’Italia debba darsi una mossa in questo senso è evidente ma, ecco, quei due bei respiri, alla luce di questi dati e visti i rischi connessi, per il momento possiamo anche evitare di augurarglieli!
da qui

giovedì 13 ottobre 2016

sprecando sprecando


Ogni anno, in Italia, il valore dello spreco alimentare è di «12 miliardi di euro che, se sommiamo tutti gli altri anelli della filiera agroalimentare, arrivano a 15 miliardi, quasi un punto di Pil. Considerando tutta la filiera campo-tavola, nei nostri piatti lo spreco rappresenta la metà di quello che produciamo. A questo valore economico bisogna aggiungere il costo di smaltire rifiuti, e risorse naturali utilizzate per produrre cibo». A dare i numeri è l’agroeconomista Andrea Segrè, fondatore di Last Minute Market, citando i nuovi dati del report Waste Watcher e Fusions (Last Minute Market / Swg / UnIbo). L’occasione per incontrarlo è l’happening “In the name of Africa”, copromosso da Cefa Onlus e dalla campagna “Spreco Zero” di Last Minute Market, che ha riempito Piazza Duomo con 10mila piatti vuoti, bianchi e blu, e palloncini gialli, in attesa del World Food Day, la Giornata Mondiale dell’Alimentazione (domenica 16 ottobre, giornata in cui ad essere “invasa” sarà Piazza Maggiore a Bologna), per sensibilizzare sul tema del recupero degli sprechi alimentari e della fame, in particolare in Mozambico.
«La questione dello spreco alimentare è strettamente connessa alla malnutrizione e alla fame nel mondo», sottolinea Segrè, confrontando i dati nazionali con quelli mondiali: «Il valore economico del cibo sprecato a livello globale si aggira intorno ai mille miliardi di dollari all’anno, ma sale a circa 2600 miliardi di dollari se si considerano i costi “nascosti” legati all’acqua e all’impatto ambientale. I Paesi membri dell’Unione Europea, invece, sprecano ogni anno 143 miliardi di euro: vuol dire che ciascun cittadino europeo butta via 173 chilogrammi di cibo». Anche i nuovi dati sulla fame nel mondo confermano un pianeta diviso a metà, in cui una parte di popolazione butta ciò che mangia, e l’altra muore di fame o soffre di malnutrizione. Una persona su nove, sul nostro pianeta, non ha abbastanza cibo: parliamo di 795 milioni di individui. La regione con la più alta incidenza (percentuale della popolazione) della fame è l’Africa Sub-sahariana, dove ad essere sottoalimentata è una persona su 4. Quasi un milione di bambini in Africa soffre di malnutrizione grave.
Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, per ridurre gli sprechi? Segrè consiglia di «riprendere i consigli delle nonne: fare la lista della spesa, imparare ad usare il frigorifero, riutilizzare ciò che non mangiamo, in modo che, oltre a dimagrire un po’ noi, dimagrisca anche il secchio della spazzatura». In questo la Lombardia risulta particolarmente virtuosa: secondo il report, sei lombardi su 10 predispongono sistematicamente una lista della spesa per evitare acquisti inconsulti (il 59%, a fronte del dato nazionale del 50%), il 62% dichiara di non gettare ‘quasi mai’ il cibo ancora buono (il dato nazionale è del 50%) e il 9% di farlo una o due volte alla settimana (in linea con il resto d’Italia). Sulle cause dello spreco alimentare, il 52% dei lombardi dichiara di aver acquistato troppo cibo (contro il 48% dato nazionale) e il 25% di non averlo conservato adeguatamente.
Durante tutta la giornata “In the name of Africa” ogni spettatore può riempire un piatto vuoto con spighe e palloncini gialli fino a comporre il disegno di un campo di grano, con papaveri e fili d’erba, simbolo della vittoria sulla fame. Per farlo dovrà dare un contributo di 7 euro, il cui ricavato sosterrà il progetto  AfricHandProject, una filiera lattiero-casearia, in grado di generare cibo e lavoro per le comunità rurali nel distretto di Beira, in Mozambico.

mercoledì 12 ottobre 2016

In un secchio bucato non ci si mette acqua - Maurizio Pallante


In Italia noi sprechiamo il 70 per cento dell’energia che utilizziamo. Un sistema che spreca il 70 per cento di energia è come un secchio bucato! Un secchio bucato in cui si mette dentro acqua, ma si mette molta di più di quella che si riesce a utilizzare.
Di fronte a questa situazione in genere gli ambientalisti hanno detto che bisogna sostituire le fonti fossili con le rinnovabili, noi diciamo che la priorità non è questa, ma ridurre il buco nel secchio, cioè gli sprechi di energia! E soltanto se si saranno ridotti questi, primo passaggio, logico e metodologico, si potranno sviluppare in maniera significativa le fonti rinnovabili, perché le fonti rinnovabili sono in grado di soddisfare, non sono in grado di soddisfare gli sprechi che ci hanno consentito di soddisfare le fonti fossili, per cui se non vogliamo che restino in una a percentuale limitata e parziale del fabbisogno, prima bisogna ridurre il fabbisogno riducendo gli sprechi e poi soddisfare il fabbisogno residuo con le fonti rinnovabili.
Ecco, questa politica è una politica in decrescita, perché se noi riduciamo gli sprechi di energia stiamo riducendo il consumo di quello che noi chiamiamo una merce, cioè un qualche cosa che si compra e si paga, che fa crescere il Prodotto interno lordo (leggi anche Possiamo abbandonare il Pil di Paolo Cacciarindr), ma non è un bene, perché non riesce a risolvere nessun problema degli esseri umani, l’energia che si mette in una casa e che si disperde dalle finestre, dal soffitto o le pareti, non ha nessun tipo di utilità.
Ecco, ma se si fa una politica incentrata sulla riduzione degli sprechi, cioè su una decrescita selettiva del Prodotto interno lordo, sulla diminuzione del consumo di una risorsa, che è una merce ma non è un bene (leggi anche Beni e merci: è così difficile da capire?), questi interventi innanzitutto si pagano da se, perché se si riduce lo spreco di una casa in un certo numero di anni la riduzione dei consumi comporta una riduzione dei costi che vanno a ammortizzare gli investimenti che sono stati necessari per ridurre i consumi.
Secondo, oltre a pagarsi da se questa tecnologia crea una occupazione utile, come dicevo prima, ma soprattutto crea tanta occupazione. C’è stato uno studio del Sole 24 Ore (2012), in cui dice queste cose, le leggo così come sono state scritte: per ogni 10 miliardi di Euro investiti nella riduzione degli sprechi, non nelle fonti rinnovabili, si possono ricavare 130 mila nuovi posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere si darebbe lavoro al massimo a 7 mila e 300 persone, cioè la logica della crescita comporterebbe un incremento occupazionale molto inferiore, il rapporto di 7 mila e 300 a 130 mila rispetto a una logica di decrescita selettiva.
Ma come si fa a fare una cosa di questo genere? Per ridurre gli sprechi di un paese come il nostro serve sapere penetrare in tutte le pieghe del sistema, in tutti gli edifici che hanno sprechi, in tutte le abitazioni, in tutti i luoghi di lavoro e così via, cioè quello che serve è avere, valorizzare le professionalità della piccola e media industria dell’artigianato, perché soltanto dei professionisti, delle aziende radicate sul territorio, sono in grado di fare una operazione di questo genere.
Pensate che la rivista ufficiale della confederazione per la piccola e media industria, cioè una organizzazione patronale, ha in un numero della sua rivista ufficiale ha messo come titolo crescita infinita o decrescita felice?
A cosa puntano le grandi opere? L’obiettivo è quello, diciamo irraggiungibile, oltre che non desiderabile di rilanciare l’economia attraverso le grandi opere che non servono, illudendosi di creare posti di lavoro che come abbiamo detto sono molto inferiori dei posti di lavoro che si possono creare in attività che riducono l’impatto ambientale, lo spreco di risorse e che si pagano da se con i risparmi che consentono di ottenere. (fontepagina facebook di Maurizio Pallante)

martedì 11 ottobre 2016

Corradino sta con le genti Sioux contro il merdoso oleodotto in quel che resta delle LORO terre! - Zio Scriba





Lo so, lo so, basta aprire un giornale per incazzarsi un centinaio di volte, ma certe notizie mi indignano più di altre. Abbiamo tutti indignometri diversi. E questa storia, di un maledetto oleodotto fatto passare proprio nella Riserva Sioux in North Dakota, con rischi di conseguenze devastanti per i fiumi e le falde acquifere, mi ha fatto incazzare parecchio. 
Ci sono state manifestazioni e proteste pacifiche, con la partecipazione di Sioux venuti anche da altre riserve e di altri nativi americani, fra cui una Cheyenne di nome Alce Sottile, soffocate con violenza da vigilantes e cani a quattro zampe, nel nome dei cani a due zampe che li mandavano.
È evidente come l’uomo moderno sia sempre più convinto di poter sopravvivere bevendo petrolio, mangiando denaro (o ingurgitando bitcoin direttamente dallo smerdofono) e respirando le proprie scorregge di pantegana infestante. Ma andare ad avvelenare l’acqua di ciò che resta di un saggio e coraggioso Popolo già confinato in angusti anfratti mi pare cosa a dir poco vomitevole.
Anche perché, spiritualmente, io sono sempre stato uno di loro. Li ho sempre considerati miei Fratelli elettivi. Solo che purtroppo mi manca la tempra per andare a vivere con loro. 
Pare che Obama si sia limitato a congelare il tutto (ma i pronostici finali non prevedono la vittoria dei Buoni, non siamo al cinema). E non oso pensare a cosa succederà se vince Trump: manderà un nuovo Custer? Nel caso, gli auguro di trovare Tori Seduti e Cavalli Pazzi per i suoi denti.
Non sono un propagatore di petizioni, perché non ci credo e non mi interessano. Se ce ne sono, trovatele voi e se volete firmatele. Ma soprattutto, parlate di questo scempio, di questo ignobile insulto alle acque sacre, al Grande Spirito, all’anima stessa dell’uomo. Facciamo da piccolo amplificatore alla debole voce di un grande fiero popolo che muore.



domenica 9 ottobre 2016

L’autunno rovente del pianeta terra - Alberto Castagnola

Nei primi giorni di settembre 2016 si è tenuto in Cina, a Hangzhou, l’ennesimo incontro del G20, che ha affrontato vari temi internazionali, ma la stampa ha concentrato la sua attenzione sul rinnovato impegno di Stati Uniti e Cina per impedire il proseguimento delle drammatiche  modifiche al clima del pianeta, ormai sempre più evidenti. I due paesi, sicuramente i due maggiori inquinatori tra i 195 paesi che hanno messo a punto l’accordo di Parigi nel dicembre 2015, hanno finalmente ratificato il trattato, che però non può entrare in vigore se non lo ratificano almeno 55 paesi che insieme rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Come è noto ad aprile di quest’anno si è aperta a New York la procedura di ratifica, per la quale i paesi hanno un anno di tempo. Purtroppo fino a pochi giorni fa solo 24 paesi avevano concluso il processo di ratifica, cioè di sottomissione del testo del trattato agli organi istituzionali competenti per ogni Stato, ma in gran parte si trattava di  piccole nazioni-isola, in particolare in Oceania, che già da tempo risentono dei danni arrecati dall’innalzamento del livello dei mari. Quindi la loro quota di emissioni di gas serra è di solo l’1,08%  del totale, con la firma di Cina e Stati Uniti la percentuale sale al 39% e il numero dei paesi a 26, quindi siamo ancora lontani dall’obiettivo indicato nel trattato per la sua entrata in vigore.
E’ evidente che gran parte dei paesi esita a ratificare perfino un accordo internazionale  tanto criticato, poco vincolante e la cui attuazione è stata rinviata nel tempo malgrado le urgenze indicate dall’IPCC, il mega comitato di scienziati dell’ONU, che nel suo quinto rapporto del 2014 aveva chiesto interventi immediati e massicci per ridurre drasticamente le emissioni di Co2, da effettuare tra il 2015 e il 2020, se si voleva veramente che avessero qualche effetto.
A sminuire ulteriormente l’importanza degli impegni dei due paesi maggiori inquinatori concorre anche il fatto che la Cina ha promesso di effettuare le riduzioni solo a partire dal 2030, per poter continuare a perseguire i suoi obiettivi di sviluppo con un apparato produttivo che usa tecnologie fortemente inquinanti. I titoli dei giornali, da “G20 da record” a “Emissione compiuta”, e le analisi piuttosto critiche, non sottolineano abbastanza la modestia degli impegni annunciati e i rischi di estendere  ulteriormente  i ritardi già registrati al momento della lettura del trattato di Parigi. Vi sono poi altri dati da tenere presenti. Gli Stati Uniti hanno così quantificato le loro intenzioni: promettono di tagliare entro quindici anni tra il 26 e il 28% le loro emissioni, che li collocano al secondo posto con una quota di gas serra del 14% sul totale mondiale. Questa indicazione non è accompagnata da una lista di impianti da chiudere e di misure di conversione e di risparmio energetico, e quindi quali garanzie ci sono che agli impegni assunti da un Presidente saranno rispettati e nei tempi dovuti dai suoi successori?

La Cina, che è al primo posto con il 24% di gas serra emessi, ricava ancora oggi il 70% circa della sua produzione di elettricità da impianti alimentati a carbone. Inoltre non si può dimenticare che l’anno scorso, dovendo ospitare degli incontri sportivi internazionali a Pechino, era stata costretta a sospendere per due mesi le attività industriali dell’intera regione e aveva dovuto chiudere  18.000 impianti che erano alimentati a carbone, per ridurre la coltre di smog che grava eternamente sulla capitale. Ma ovviamente applicare la stessa politica su scala nazionale è molto, ma molto più difficile, sia in termini di investimenti necessari che di effetti negativi sull’occupazione.
In termini abbastanza diversi si pone la questione del ruolo dell’Unione Europea e dei singoli paesi membri di fronte alle scadenze dell’Accordo di Parigi. Gli europei rappresentano il 12% delle emissioni globali. La Commissione di Bruxelles , almeno secondo alcuni esperti, potrebbe in teoria ratificare l’accordo anche a nome dei paesi membri (con qualche dubbio circa l’Inghilterra, che nei prossimi mesi deve attuare il processo di uscita dalla Comunità), dopo un voto del Consiglio Europeo. Tuttavia alcuni Stati hanno già richiesto la preventiva  ratifica a livello nazionale, il che richiede tempi più lunghe e parecchi ostacoli interni da superare.
Alcuni dati possono ulteriormente chiarire il peso relativo dei paesi inquinatori, i numeri tra parentesi sono in miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica): Cina (10,6); Stati Uniti (5, 3); India (2,3); Russia (1,8); Giappone (1,3); Germania (0,8); Iran, Corea del Sud, Canada, (0,6 ciascuno); Brasile , Arabia Saudita (0,5); Regno Unito, Australia (0,4), Francia e Italia (0,3). Ovviamente i dati relativi alle sole emissioni di Co2 non sono un indicatore sufficiente dei fenomeni di inquinamento, che tra l’altro dovrebbero essere tarati sulla densità demografica e abitativa di ciascun paese.
A livello globale, è da rilevare che il 2016 si avvia a diventare l’anno più caldo di sempre: i dati relativi agli ultimi 14 mesi evidenziano che si è sempre trattato di livelli elevatissimi di riscaldamento, mai verificatisi nei secoli scorsi.
Le tendenze mensili e stagionali tendono sempre più ad avvicinarsi ai dati medi meteorologici quinquennali (le cifre più serie e attendibili quando si parla di clima globale), mentre si moltiplicano gli eventi estremi, da tempo previsti dagli scienziati, come i periodi di siccità, le alluvioni, gli uragani e i cicloni accompagnati da un numero crescente di fulmini. Quindi è ormai evidente la possibilità molto concreta che l’obiettivo indicato nell’accordo di Parigi di contenere il riscaldamento  entro i 2 gradi centigradi sia forse già irraggiungibile (alcune fonti scientifiche ritengono che questo limite sia già stato superato) e ciò vale a maggior ragione per l’obiettivo di contenimento a 1,5 gradi, che il testo in corso di ratifica riteneva fosse  un limite altamente preferibile. In altre parole, concedere alla Cina di ritardare di 15 anni il suo impegno di riduzione delle emissioni, come a qualunque altro paese di allontanare nel tempo le rispettive scadenze del loro contributo al disinquinamento, costituisce un rischio drammatico che l’equilibrio del pianeta non è in grado di sostenere.
Infine, non possiamo dimenticare che alcuni studi recenti, che analizzano la situazione e le prospettive di scioglimento dei ghiacci dell’Antartide, in particolare quello elaborato dal famoso climatologo James Hansen, – noto per aver previsto in forte anticipo molti dei fenomeni in corso -, rendono ancora più impressionanti le indicazioni fornite dall’ IPCC. Per quanto poi riguarda l’Italia, il silenzio sostanziale  che circonda queste tematiche e la pratica assenza di iniziative governative dovrebbero destare delle preoccupazioni molto diffuse e incalzanti, mentre l’attenzione politica si concentra su problemi molto lontani da tutto ciò. I prossimi giorni e mesi dovranno vedere una mobilitazione del basso volta ad ottenere un sostanziale cambiamento di rotta e che costringa a far emergere l’importanza delle scadenze internazionali e l’urgente necessità di una politica nazionale fortemente incisivaPossiamo qui ricordare l’attività del GIGA, il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati, che ad aprile ha pubblicato una analisi molto informata e accurata sul clima, dal titolo evocativo “Il pianeta che scotta”, ma la loro esperienza dovrebbe diventare un modello di azione per un numero crescente di gruppi di base, attenti sia alle tematiche globali che all’aggravarsi delle situazioni locali.

lunedì 3 ottobre 2016

Per il petrolio sarà distrutta Yasuni - Maria Rita D’Orsogna (dorsogna.blogspot.it)

“It’s the start of a new era for Ecuadorean oil. In this new era, first comes care for the environment and second responsibility for the communities and the economy, for the Ecuadorean people”
Jorge Glasvice vicepresidente dell’Ecuador
.
Fa male al cuore. In Ecuador, nel cuore della foresta amazzonica hanno iniziato a trivellare. Per ora saranno 3.000 barili al giorno. Nel 2022 si arriverà a 300.000.
Siamo a Tiputini C, il primo di duecento pozzi di petrolio programmati al confine con l’area ITT  (Ishpingo, Tambococha, Tiputini) e dentro nel parco nazionale dell’Ecuador Yasuni a pochi chilometri dal confine con il Perù. Lo Yasuni è una biosfera in teoria protetta dall’Unesco con una grande biodiversità fatta di numerose specie di uccelli, anfibi, insetti e alberi. Secondo Amazon Watch ci sono qui in un ettaro più specie che in tutti gli Usa e il Canada messi assieme. Nello Yasuni ci sono specie che sono riuscite a sopravvivere dai tempi glaciali.

Oltre alla flora e alla fauna, vivono qui i Tagaeri e Taromenane, due popoli indigeni isolati dal resto della “civiltà” o almeno quella civiltà che intendiamo noi.  Si programmano trivelle tutt’attorno il loro territorio, appunto l’area ITT.
Come sempre, l’inquinamento non conosce confini, e il fatto che si trivelli dentro la foresta ma non direttamente dentro l’area ITT non è garanzia di grande protezione ambientale. La foresta sarà danneggiata, l’inquinamento arriverà in forma di aria o di acqua o di cibo contaminato anche dentro alla zona ITT e i Tagaeri e i Taromenane sicuramente ne sentiranno le conseguenze.
Come sempre, il tuttapposto continua anche in Ecuador. Il governo dice che PetroAmazonas userà trivelle orizzontali che seguiranno i più alti standard internazionaliMmh. Questa l’ho già sentita.
Il ministro delle trivelle Rafael Poveda dice che stanno ottimizzando le risorse e le strategie per estrarre petrolio nel modo più sostenibile possibile. Ma… non avevano deciso di lasciare Yasuni libera dalle trivelle? Nel 2007 il governo di Rafael Correa aveva chiesto 3.6 miliardi di dollari da vari governi mondiali per un impegno a tenere il petrolio sottoterra. Si chiamava la “Yasuni initiative” e era gestita dall’Onu, un modo innovativo per non estrarre petrolio da zone sensibili. Pagamenti internazionali in cambio di rispetto dell’ambiente.

Si calcola che sotto Yasuni ci siano 1,67 miliardi di barili di petrolio. Il colpo di scena arriva nel 2013 quando lo stesso presidente Correa cambia idea: secondo lui sono troppo pochi i fondi ricevuti dai governi stranieri e il paese ha bisogno di denaro. E qui sta la logica: siccome Chevron e Texaco hanno letterlmente devastato l’Ecuador con le trivelle senza scrupoli nella foresta durante gli anni settanta, l’Ecuador è ora povero e inquinato. In questo momento dunque non hanno alcun modo di poter nè rimediare ai danni nè alla povertà, e dunque l’unico metodo è … trivellare ancora!
Ci sono stati scontri, dimostrazioni, la richiesta di un referendum, ma niente da fare. Credo anche che ci sia stata pochissima pressione internazionale, e di questa faccenda dello Yasuni trasformando in un campo petrolifero se ne sia parlato troppo poco. Il referendum che si voleva indire non è riuscito neppure ad arrivare al quorum delle firme utili e non c’è mai stato.
Eppure l’Ecuador parla bene. Hanno addirittura incluso i diritti della natura nella loro costituzionee finora erano stati presi a modello di nazione attenta all’ambiente, specie dopo il massacro degli anni settanta.