Forse gli eroi non esistono ma certo questo
analfabeta che semina gli alberi somiglia assai all’idea di una persona
normale/eccezionale che impegna la sua vita al servizio dell’umanità.
Seminare foreste per fermare l’avanzata del deserto. Hanno il
respiro lungo e il passo del maratoneta le suggestioni ispirate da Thomas
Sankara, il presidente del Burkina Faso che seppe incendiare l’Africa, ridando
senso – nel continente più difficile – a una parola piegata e abusata come
“rivoluzione”. Ce lo ricorda, a quasi trent’anni dal suo assassinio, un
ricercatore analfabeta che, secondo fonti autorevoli, ha fatto molto per
preservare il Sahel, più di tanti prestigiosi gruppi di ricerca internazionali.
Negli anni Settanta, da commerciante diventò pioniere nella lotta alla
desertificazione «per avere un’attività non fondata sul denaro». Yacouba
Sawadogo è l’uomo che semina gli alberi e ha fatto crescere una foresta usando
la strategia ecologica e sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli
agricoltori (Rna), nella quale gli alberi spontanei sono protetti perché
trattengono l’umidità nel suolo e aiutano i raccolti. Marinella Correggia lo ha
incontrato a Torino
«Per ogni villaggio, una
piccola foresta»: uno dei tanti sogni di quell’utopista concreto che si
chiamava Thomas Sankara. Ma il 15 ottobre 1987 il presidente del Burkina Faso
fu assassinato e finì una rivoluzione che parlava al mondo partendo dai
contadini saheliani tormentati dalla miseria e dall’avanzare del deserto. In
soli 4 anni di governo – prima della restaurazione del golpista Blaise Compaoré
-, i burkinabè non riuscirono a rinverdire il Sahel. Ma in tutti questi
decenni, qualcuno ha portato avanti il lavoro sul campo. Seminare foreste
tornerà ad essere una priorità nazionale dopo la sollevazione popolare
dell’autunno 2014 che ha cacciato Compaoré e malgrado le tante contraddizioni
del nuovo governo? Yacouba Sawadogo non lo sa. Ma continua a lavorare.
Chi si reca al villaggio di
Gourga, deve cercare Sawadogo nel grande bosco che si estende per ettari ed
ettari, ricco di acacie, pruni, datteri del deserto, leiocarpus, gomma arabica,
moringa; per gli uccelli e gli altri animali selvatici, piccoli punti di acqua
sparsi qui e là. Una foresta dove decenni fa non c’era nemmeno un arbusto.
Niente piantumazioni
monovarietali, costose e che spesso muoiono in quell’ambiente ingrato. Lui,
Yacouba, gli alberi non li pianta: li semina. Pratica la strategia ecologica e
sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli agricoltori (Rna), nella
quale gli alberi spontanei sono protetti perché trattengono l’umidità nel suolo
e aiutano i raccolti. Tecniche simili di coltivazione e riforestazione naturale
sono portate avanti, fra gli altri, dai Groupements Naam, un’associazione di
gruppi di villaggio assai diffusa in Burkina Faso.
Sawadogo ha raccontato la sua
storia giorni fa a Torino e Cumiana, partecipando all’incontro internazionale
«Terra madre». Ci ha spiegato che negli anni Settanta, anni di totale siccità,
mentre i contadini fuggivano dalle campagne assetate, egli come un folle fece
il cammino opposto. Da commerciante diventò pioniere della lotta contro il
deserto, «per avere un’attività non fondata sul denaro». A Gourga allora si
faceva la fame. Yacouba, da buon innovatore delle buone tradizioni,
reintrodusse lo zai, un’antica tecnica tipica delle aree del nord, a più bassa
pluviometria: nella stagione secca si scavano buchi regolari nei campi, per
trattenere l’acqua nella successiva stagione delle piogge.
La novità ideata da Sawadogo
consisteva nello scavare buche più grandi, e nel deporvi compost e letame e
anche le termiti, che aiutano a smuovere il terreno. Poi si seminano cereali e
specie arboree. Così, sotto le mani di Sawadogo e dei contadini affamati di
Gourga ai quali offriva cibo in cambio di lavoro, migliorarono i raccolti (fino
a 1,5 tonnellate di miglio per ettaro anziché 500 kg) e crebbe la foresta.
Dapprima lo credono folle, i capiclan cercano di boicottarlo perché sono
abituati ad assegnare in tutta discrezionalità le terre – in Burkina sono dello
Stato. A un certo punto la foresta è stata minacciata perfino da un progetto di
espansione immobiliare della vicina Ouahigouya, poi per fortuna fermato. Ma lui
ha resistito, fedele al principio che «il valore di una persona si misura con
il tempo che ci mette a desistere». Tuttora distribuisce semi e dispensa
consigli e corsi di formazione a chi glieli chiede.
Migliaia di famiglie negli anni
grami sono sopravvissute grazie alle sue tecniche: «Se riesce a produrre cibo a
sufficienza, il paese si salverà», dice. Per Chris Reji, esperto internazionale
della Rna, «Yacouba, ricercatore analfabeta, ha avuto più impatto sulla
preservazione del Sahel di tanti gruppi di ricerca internazionali e nazionali».
Una ricerca della Fao stima che con l’equivalente di poche decine di euro si
potrebbero rimborsare le ore di lavoro e le risorse necessarie ai contadini per
rigenerare un ettaro di Sahel. Ma questo sostegno, una vera restituzione
internazionale a chi è vittima anche dell’ingiustizia climatica, langue. Così
la tecnica dello zai continua ad avere un risvolto duro: fatica nella polvere,
con le pesanti zappe in mano e il sole che batte. In mezza giornata, otto
persone valide possono scavare mille zai, ma piccoli. Poi agli zai vanno
associate le dighette antierosive formate da cordoni di pietra – da trasportare
a mano o con la carriola. Tanta fatica, tanto tempo significano anche una
diffusione inferiore a quella che sarebbe necessaria. Gli stessi Naam non hanno
quasi trattori e nemmeno zappe ergonomiche.
Lo Zai può anche essere
praticato con un attrezzo trainato dagli animali. E qui si apre un altro
capitolo: gli asini burkinabè – da sempre compagni dello sforzo umano – sono
stati decimati per anni, carne e pelli esportati verso l’Asia. Nello scorso
agosto, anche grazie a una piccola campagna di pressione, il Burkina seguendo
il Senegal ha introdotto una legge per la loro protezione. Ma questa è un’altra
storia.
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