Nei primi giorni di settembre 2016 si è tenuto in
Cina, a Hangzhou, l’ennesimo incontro del G20, che ha affrontato vari temi
internazionali, ma la stampa ha concentrato la sua attenzione sul rinnovato
impegno di Stati Uniti e Cina per impedire il proseguimento delle drammatiche
modifiche al clima del pianeta, ormai sempre più evidenti. I due paesi, sicuramente i due maggiori
inquinatori tra i 195 paesi che hanno messo a punto l’accordo di Parigi nel
dicembre 2015, hanno finalmente ratificato il trattato, che però non può
entrare in vigore se non lo ratificano almeno 55 paesi che insieme
rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Come è noto ad aprile di quest’anno si è aperta a New
York la procedura di ratifica, per la quale i paesi hanno un anno di tempo.
Purtroppo fino a pochi giorni fa solo 24 paesi avevano concluso il processo di
ratifica, cioè di sottomissione del testo del trattato agli organi
istituzionali competenti per ogni Stato, ma in gran parte si trattava di
piccole nazioni-isola, in particolare in Oceania, che già da tempo risentono
dei danni arrecati dall’innalzamento del livello dei mari. Quindi la loro quota
di emissioni di gas serra è di solo l’1,08% del totale, con la firma di Cina e Stati Uniti la
percentuale sale al 39% e il numero dei paesi a 26, quindi siamo ancora lontani
dall’obiettivo indicato nel trattato per la sua entrata in vigore.
E’ evidente che gran
parte dei paesi esita a ratificare perfino un accordo internazionale
tanto criticato, poco vincolante e la cui attuazione è stata rinviata nel tempo malgrado
le urgenze indicate dall’IPCC, il mega comitato di scienziati dell’ONU, che nel
suo quinto rapporto del 2014 aveva chiesto interventi immediati e massicci per
ridurre drasticamente le emissioni di Co2, da effettuare tra il 2015 e il 2020,
se si voleva veramente che avessero qualche effetto.
A sminuire ulteriormente l’importanza degli impegni
dei due paesi maggiori inquinatori concorre anche il fatto che la Cina ha promesso di effettuare le
riduzioni solo a partire dal 2030, per poter continuare a perseguire i
suoi obiettivi di sviluppo con un apparato produttivo che usa tecnologie
fortemente inquinanti. I titoli dei giornali, da “G20 da record” a “Emissione
compiuta”, e le analisi piuttosto critiche, non sottolineano abbastanza la
modestia degli impegni annunciati e i rischi di estendere
ulteriormente i ritardi già registrati al momento della lettura del
trattato di Parigi. Vi sono poi altri dati da tenere presenti. Gli Stati Uniti hanno così quantificato
le loro intenzioni: promettono di tagliare entro quindici anni tra il 26 e il
28% le loro emissioni, che li collocano al secondo posto con una
quota di gas serra del 14% sul totale mondiale. Questa
indicazione non è accompagnata da una lista di impianti da chiudere e di misure
di conversione e di risparmio energetico, e quindi quali garanzie ci sono che
agli impegni assunti da un Presidente saranno rispettati e nei tempi dovuti dai
suoi successori?
La Cina, che è al primo
posto con il 24% di gas serra emessi, ricava ancora oggi il 70% circa della sua
produzione di elettricità da impianti alimentati a carbone. Inoltre non si può dimenticare che
l’anno scorso, dovendo ospitare degli incontri sportivi internazionali a
Pechino, era stata costretta a sospendere per due mesi le attività industriali
dell’intera regione e aveva dovuto chiudere 18.000 impianti che erano
alimentati a carbone, per ridurre la coltre di smog che grava eternamente sulla
capitale. Ma ovviamente applicare la stessa politica su scala nazionale è
molto, ma molto più difficile, sia in termini di investimenti necessari che di
effetti negativi sull’occupazione.
In termini abbastanza diversi si pone la questione del
ruolo dell’Unione Europea e dei singoli paesi membri di fronte alle scadenze
dell’Accordo di Parigi. Gli
europei rappresentano il 12% delle emissioni globali. La Commissione di
Bruxelles , almeno secondo alcuni esperti, potrebbe in teoria ratificare
l’accordo anche a nome dei paesi membri (con qualche dubbio circa
l’Inghilterra, che nei prossimi mesi deve attuare il processo di uscita dalla
Comunità), dopo un voto del Consiglio Europeo.
Tuttavia alcuni Stati hanno già richiesto la preventiva ratifica a
livello nazionale, il che richiede tempi più lunghe e parecchi ostacoli interni
da superare.
Alcuni dati possono ulteriormente chiarire il peso
relativo dei paesi inquinatori, i numeri tra parentesi sono in miliardi di
tonnellate di emissioni di anidride carbonica): Cina (10,6); Stati Uniti (5,
3); India (2,3); Russia (1,8); Giappone (1,3); Germania (0,8); Iran, Corea del
Sud, Canada, (0,6 ciascuno); Brasile , Arabia Saudita (0,5); Regno Unito,
Australia (0,4), Francia e Italia (0,3). Ovviamente i dati relativi alle sole
emissioni di Co2 non sono un indicatore sufficiente dei fenomeni di
inquinamento, che tra l’altro dovrebbero essere tarati sulla densità
demografica e abitativa di ciascun paese.
A livello globale, è da
rilevare che il 2016 si avvia a diventare l’anno più caldo di sempre: i dati
relativi agli ultimi 14 mesi evidenziano che si è sempre trattato di livelli
elevatissimi di riscaldamento, mai verificatisi nei secoli scorsi.
Le tendenze mensili e stagionali tendono sempre più ad
avvicinarsi ai dati medi meteorologici quinquennali (le cifre più serie e
attendibili quando si parla di clima globale), mentre si moltiplicano gli eventi estremi, da
tempo previsti dagli scienziati, come i periodi di siccità, le alluvioni, gli
uragani e i cicloni accompagnati da un numero crescente di fulmini. Quindi è
ormai evidente la possibilità molto concreta che l’obiettivo indicato
nell’accordo di Parigi di contenere il riscaldamento entro i 2 gradi
centigradi sia forse già irraggiungibile (alcune fonti scientifiche
ritengono che questo limite sia già stato superato) e ciò vale a maggior
ragione per l’obiettivo di contenimento a 1,5 gradi, che il testo in corso di
ratifica riteneva fosse un limite altamente preferibile. In altre parole, concedere alla Cina di ritardare di 15
anni il suo impegno di riduzione delle emissioni, come a qualunque altro paese
di allontanare nel tempo le rispettive scadenze del loro contributo al
disinquinamento, costituisce un rischio drammatico che l’equilibrio del pianeta
non è in grado di sostenere.
Infine, non
possiamo dimenticare che alcuni studi recenti, che analizzano la situazione e
le prospettive di scioglimento dei ghiacci dell’Antartide, in
particolare quello elaborato dal famoso climatologo James Hansen, – noto per
aver previsto in forte anticipo molti dei fenomeni in corso -, rendono ancora più impressionanti le
indicazioni fornite dall’ IPCC. Per quanto poi riguarda l’Italia,
il silenzio sostanziale che circonda queste tematiche e la pratica
assenza di iniziative governative dovrebbero destare delle preoccupazioni molto
diffuse e incalzanti, mentre l’attenzione politica si concentra su problemi
molto lontani da tutto ciò. I
prossimi giorni e mesi dovranno vedere una mobilitazione del basso volta ad
ottenere un sostanziale cambiamento di rotta e che costringa a far emergere l’importanza
delle scadenze internazionali e l’urgente necessità di una politica nazionale
fortemente incisiva. Possiamo
qui ricordare l’attività del GIGA, il Gruppo Insegnanti di Geografia
Autorganizzati, che ad aprile ha pubblicato una analisi molto informata e
accurata sul clima, dal titolo evocativo “Il pianeta che scotta”, ma
la loro esperienza dovrebbe diventare un modello di azione per un numero
crescente di gruppi di base, attenti sia alle tematiche globali che
all’aggravarsi delle situazioni locali.
Nessun commento:
Posta un commento