sabato 31 dicembre 2016

La guerra in Siria vista dai campi di grano - Marina Forti

Dopo quasi sei anni di conflitto, in Siria la produzione di grano è pressoché dimezzata. La notizia può sembrare secondaria, rispetto ai drammatici sviluppi della battaglia di Aleppo e alla sorte di centinaia di migliaia di persone sotto assedio. A ben guardare però il grano è parte della guerra stessa: in fondo stiamo parlando di un paese essenzialmente agricolo, che fino a qualche anno fa produceva cibo in abbondanza, tanto da esportarne nei paesi arabi vicini. Ma questo era prima che sulla regione si abbattessero una disastrosa siccità e poi un conflitto sanguinoso, in cui le parti in causa sono molte e i fronti sono spesso confusi.
Così anche il raccolto di grano dice qualcosa su come sopravvive un paese. Il primo dato è che l’agricoltura è al collasso, e il crollo più drastico è avvenuto proprio nell’ultimo anno. Come se le risorse che avevano permesso ai siriani di resistere per ben cinque anni di conflitto fossero ormai esaurite. La superficie coltivata continua a diminuire (nella stagione 2015-2016 sono stati coltivati a cereali circa 900mila ettari, contro 1 milione e mezzo di ettari prima del conflitto). E i raccolti sono sempre più magri.
L’estate scorsa il paese ha prodotto 1,5 milioni di tonnellate di grano, cioè poco più di metà (il 55 per cento) della media tra il 2007 e il 2010, quando la Siria raccoglieva 3,5 milioni di tonnellate di grano. Ma non è stato un calo graduale. Ancora nell’estate del 2015 erano stati raccolti 2,4 milioni di tonnellate di grano. Fonte di questi dati è l’ultimo rapporto sulla “sicurezza alimentare” in Siria, diffuso dalla Fao e dal Pam (Programma alimentare mondiale), le agenzie delle Nazioni Unite rispettivamente per l’agricoltura e per le emergenze (raccogliere dati in una situazione di conflitto è una sfida: questo rapporto è basato in parte sulle interviste fatte da una missione internazionale di monitoraggio nel luglio scorso, almeno nelle zone raggiungibili dal lato governativo; in parte sulle informazioni raccolte da addetti locali, oltre che su foto satellitari e bollettini meteo).

Senza terra da coltivare
L’agricoltura crolla innanzitutto perché andare nei campi è pericoloso. Le terre restano incolte; a volte sono seminate ma è impossibile andare a mietere. Le interviste parlano di raccolti bruciati dai miliziani, per intimidire o perché non vi si nascondano cecchini. Ci sono zone inaccessibili per le mine. Ma anche dove sarebbe possibile coltivare, i sistemi di irrigazione sono spesso distrutti dalla guerra o sono inservibili per mancanza di manutenzione, carburante, pezzi di ricambio. Inoltre scarseggiano sementi e fertilizzati. Molto va sprecato perché manca il modo di trasportare il raccolto nei magazzini e nei mercati. I magazzini frigorifero per conservare ortaggi e frutta sono ormai pochissimi. Anche l’allevamento è decimato, per mancanza di foraggio e di pascoli (un terzo dei bovini e il 40 per cento di pecore e capre sono svaniti, dicono Fao e Pam).
Anche le piogge sono irregolari: sono state buone nella zona nordorientale, ma molto inferiori alla media nelle province di Aleppo, Idlib e Homs, dove la siccità rende più penosa la vita per gli abitanti ostaggio del conflitto. Già, quanti abitanti? Nessuno ha una stima precisa. Prima del conflitto la Siria aveva poco più di 22 milioni di cittadini, ma il bilancio della guerra è pesante. L’Onu stima che almeno 400mila persone siano morte. L’esodo è massiccio e continuo; nel settembre del 2016 l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati registrava 4,8 milioni di siriani all’estero, di cui oltre un milione in Libano e 2,7 milioni in Turchia, senza contare chi si è arrangiato con mezzi propri. Tra chi è rimasto, le agenzie umanitarie contano mezzo milione di persone intrappolate in zone sotto assedio, e oltre sei milioni di sfollati all’interno del paese. Oggi la Fao e il Pam calcolano le loro stime del fabbisogno alimentare su una popolazione di 18 milioni e mezzo, ma secondo altre fonti sarebbe poco più di 16 milioni. Di certo è una popolazione sempre più urbana, perché è nelle città che gli sfollati cercano rifugio e sostegno.

Come si sopravvive in tempo di guerra? Il quadro varia molto tra i diversi governatorati (le regioni). Buona parte del commercio e quel che resta dell’industria si sono spostati nella parte occidentale del paese, la fascia costiera controllata dal governo, che è relativamente più sicura. Le zone più fertili della Siria sono però quelle del nordest, la regione attraversata dal fiume Eufrate e dai suoi affluenti, e in particolare il governatorato di Al Hasaka, tradizionale “granaio” del paese (produceva da solo quasi metà del raccolto nazionale). Questa regione però è teatro di scontri tra fazioni armate, che competono tra l’altro per controllare il fiume e quindi l’approvvigionamento d’acqua per i centri abitati e per le coltivazioni.
Ora il paradosso è che il raccolto qui è relativamente buono, ma non c’è modo di distribuirlo, né nella provincia né più lontano: mancano camion e carburante, e comunque la strada verso Damasco è in parte sotto il controllo del gruppo Stato islamico (Is). Nel capoluogo nordorientale Al Hasaka ci sono ancora scorte dall’anno scorso, mentre milioni di persone in tutto il paese faticano a procurarsi il pane.
Il sistema pubblico di raccolta dei cereali, dove il governo comprava il grano dagli agricoltori, è saltato. Ma anche il mercato libero funziona in modo irregolare. Così oggi la parte occidentale del paese, sotto controllo governativo, importa farina e altri generi alimentari dall’estero (riso, zucchero, olio, margarina), mentre nel nordest ci sono riserve che non vengono distribuite.
Il risultato è che il prezzo della farina di grano, cioè l’alimento base, continua a salire sia nelle zone produttrici nordorientali, come quella di Al Hasaka, sia in città come Deir Ezzor o Damasco. I dati ufficiali (del governo siriano) dicono che l’inflazione è al 44 per cento su base annua, e al 57 per i prodotti alimentari. Ma questo dato non descrive davvero come stanno le cose. Il prezzo della farina dice molto di più. Un chilo di farina, che costava circa 50 lire siriane nel 2012, oggi costa più di 250 lire a Damasco, mentre ha toccato le 300 lire a Deir Ezzor e 250 ad Al Hasaka, dove però il prezzo è sceso un po’ a giugno grazie al nuovo raccolto. Ha raggiunto 350 lire a Raqqa, dove in primavera i combattimenti hanno interrotto i rifornimenti ai mercati. Insieme alla farina tutti gli alimenti di base sono rincarati, dai legumi all’olio. Del resto il valore della lira siriana è crollato, com’è ovvio: nel 2011 con mille lire si compravano 20 dollari, oggi se ne comprano meno di due.

Strategia di sopravvivenza
Invece procurarsi un reddito è sempre più aleatorio. Secondo il governo, la disoccupazione è al 50 per cento (contro il 10 per cento di prima del conflitto), anche se è impossibile parlare di vere statistiche. Nelle città molti competono per i pochi lavori retribuiti disponibili e gli unici salari regolari sono quelli dei dipendenti pubblici, ovviamente nelle zone sotto il controllo governativo. Chi può sopravvive con le rimesse dei parenti rifugiati all’estero. Molti altri sono costretti a chiedere prestiti mese per mese, per comprare l’essenziale per vivere: e poiché un meccanismo ufficiale di credito è pressoché scomparso, questo significa indebitarsi con parenti o conoscenti.
Le famiglie stanno ormai adottando “strategie irreversibili” per sopravvivere, dice il rapporto delle due agenzie, come vendere la terra o altri beni. Questo però renderà molto difficile risollevarsi quando la guerra sarà finita. D’altra parte le famiglie si stanno disintegrando, le donne restano sole con i figli mentre gli uomini scompaiono o fuggono all’estero per evitare di dover combattere. Se le famiglie sfollate sono le più vulnerabili, quelle a guida femminile lo sono in modo particolare, avvertono le agenzie dell’Onu. Il conflitto, la penuria di cibo, l’aumento dei prezzi, il freddo invernale fanno sì che oggi 9,4 milioni di siriani abbiano urgente bisogno di aiuti alimentari, stimano la Fao e il Pam. Le interviste raccolte dalle agenzie dell’Onu descrivono varie “strategie di sopravvivenza”, in particolare nelle zone direttamente toccate dai combattimenti. Dopo aver ridotto la dieta a pane e legumi, la principale è ridurre le porzioni o saltare i pasti. È un altro modo per dire che gran parte dei siriani è alla fame.
(*) Ripreso da «Internazionale». Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)

giovedì 29 dicembre 2016

L’accaparramento globale delle terre nel 2016 - Grain


A partire dall’indagine del 2008 che ha aperto il dibattito internazionale sull’accaparramento delle terre, GRAIN ha pubblicato una nuova serie di dati documentando quasi 500 casi attuali di accaparramento di terra in tutto il mondo.
I casi riguardano 78 paesi, circa 94 miliardi di dollari di investimenti relativi a più di 30 milioni di ettari di terra agricola (un’area vicina alle dimensioni della Finlandia).
Alcuni di questi affari con la terra, proliferati con la follia degli investimenti che è seguita alla crisi alimentare e finanziaria del 2008, hanno già ridotto le dimensioni delle proprie ambizioni e sono già collassati del tutto. Per esempio, l’assassinio del dirigente libico Muammar Gheddafi ha messo fine ad un progetto libico nel Mali che coinvolgeva 100 mila ettari a riso.
Nonostante ciò, questi fallimenti negli accordi commerciali sulle terre non sono necessariamente un motivo di festeggiamento riguardo al fenomeno dell’accaparramento globale di terre, dato che quelli ancora in essere incarnano “terribili iniziative di espansione delle frontiere dell’agricoltura industriale”.
È tipico di questi crudeli affari di avere accesso ai finanziamenti, di richiedere il sostegno dei funzionari dei governi, locale o nazionale, e di arrivare per fermarsi. Uno degli effetti di ciò è che possono essere molto difficili da affrontare.
Molto dell’espansione della palma da olio in Africa effettuata da asiatici ricade in questa categoria, come anche l’entrata dei fondi pensione e delle compagnie di commercio negli investimenti sulle terre agricole.
Nella maggioranza dei casi, questi accaparramenti di terra accaparrano anche l’acqua, con la concessione alle compagnie straniere l’accesso alle principali fonti d’acqua delle comunità locali.
Questi accaparramenti avvengono in regioni con abbondanza ma anche in regioni con scarsezza d’acqua. Come annota Ange David Bailey, di GRAIN: “Sta avvenendo un terrificante numero di incette d’acqua legate all’accaparramento di terre in aree dove già ci sono intensi conflitti per l’acqua o per i fiumi che passano sopra a comunità che dipendono dall’acqua, come nel progetto del fiume Lurio in Mozambico”.
Conformemente a ciò, questi affari intensificano i conflitti, e si mette in opera una violenta repressione. Gli attivisti per i diritti agrari sono incarcerati, i giornalisti sono perseguitati e i dirigenti contadini e indigeni sono abitualmente uccisi.
Quel che è peggio, molti di questi affari si rimodellano come “investimenti responsabili”, e le compagnie e gli investitori si trasformano in esperti nei nuovi (e quasi totalmente volontari) lineamenti relativi all’acquisizione di terre, oltre ad inventare alcuni lineamenti propri. Questa “pratica dovuta”, nonostante ciò, è quasi sempre soltanto una facciata.
Se c’è qualche motivo di ottimismo questo giace nel forte impulso che c’è dietro ad una resistenza globale, a mobilitazioni locali e ad una solidarietà internazionale che si agglutinano contro l’accaparramento di terre. I contadini, i braccianti, i gruppi di emigranti, i pescatori, popoli indigeni, pastori e altri incominciano a riunirsi per affrontare il problema su molteplici fronti, allo stesso tempo in cui sviluppano nuove strategie di resistenza.
Questo nuovo rapporto è una risorsa e uno strumento per queste lotte.
Il rapporto si scarica qui.

lunedì 26 dicembre 2016

meno male che c'è Eugenio

Geoparco, il libro nero: la Regione paga anche gli utili della società privata – Alessandra Carta

È il libretto nero dell’Ati Ifras, l’associazione temporanea d’imprese che il 21 dicembre 2001, all’interno del Geoparco, venne incaricata dalla Regione di gestire il recupero e la bonifica dei siti minerari nel Sulcis. Non ci fu gara d’appalto. Si seguì la strada dell’affidamento diretto con la firma di una convenzione. A distanza di quindici anni, su quell’intesa, rinnovata due volte, si scoprono diseconomie e irregolarità, scritte in un mazzetto di sedici fogli consegnato il 20 ottobre scorso ai consiglieri del centrosinistra. Il report l’ha firmato l’assessorato al Lavoro guidato da Virginia Mura: perché l’Ati Ifras nacque proprio per dare occupazione.
L’associazione temporanea d’imprese mette insieme tre, tutte srl: nel 2001 vennero individuate dal ministero del Lavoro “per assumere a tempo indeterminato il personale impiegato nei lavori socialmente utili”, si legge. Ecco quindi la capofila Ifras, più la Intini e la Servizi globali (queste ultime due di Bari). In quindici anni, secondo i calcoli dell’assessorato, le tre srl “hanno incassato oltre 350 milioni, con un costo medio annuo di 28”.
E qui spunta quello che nel report viene indicata come il primo “rilievo problematico”. Il riferimento è alle spese generali e agli utili d’impresa” che nell’Ati hanno inciso “nella misura del 35 per cento sul costo complessivo dell’attività”. La somma delle due voci è stata pari dieci milioni annui sui 28 totali assegnati alle tre srl. L’incidenza dei soli ricavi risulta stimata nella misura del 15 per cento.
Ai 28 milioni complessivi si arriva mettendo insieme anche “i 15 di costo per il personale e i tre di spese connessi agli stessi lavoratori”. Sul punto la posizione dell’assessorato al Lavoro è durissima: è rilevata “una significativa inadeguatezza delle forme di garanzia prestata a favore della Regione autonoma della Sardegna a tutela degli eventuali adempimenti contrattuali”. In particolare si segnala “la mancanza di progetti e piani dettagli sulle attività da svolgere”, così come l’assenza “della direzione lavori e dell’assistenza in cantiere”. Dito puntato anche contro “la contabilità delle opere eseguite, non fornita in maniera dettagliata”.
Poi ecco il capitolo sulla pianta organica. In teoria l’Ati Ifras si sarebbe dovuta limitare ad assumere i lavoratori socialmente utili. In totale, 353. Invece oggi se ne contano 502. Perché “fuori dalla normativa prevista – è scritto ancora nel report dell’assessorato – ci sono 103 dipendenti assunti tramite diversi accordi”. Irregolari appunto. Nel dettaglio “50sono gli ex dipendenti della Rockwool“, la multinazionale che a Iglesias produceva materiali edili. Assorbiti pure “i 16licenziati dall‘Italcementi”. Si contano ancora, sempre stando alle carte dell’assessorato, altre “37 assunzioni” frutto di non precisati “accordi di programma“. A quota 502 si arriva con i contratti fatti autonomamente dalla stessa Ati Ifras e pari ad altre 46 buste paga.
Il caso dell’Ati è scoppiato ieri in Consiglio regionale, quando l’Aula ha dovuto fare marcia indietro sulla leggina del 29 novembre scorso, la ribattezzata norma salva-Geoparco: prevedeva la proroga della convenzione con la Regione per un altro anno. Ma il Dg dell’assessorato al Lavoro, Eugenio Annicchiarico, si è opposto. E adesso si capisce il perché.


Presunte irregolarità del Geoparco, un Dg della Regione ha fermato la politica - Alessandra Carta

Se non fosse stato per Eugenio Annicchiarico, direttore generale dell’assessorato al Lavoro, il caso Geoparco non sarebbe scoppiato. Non ora, almeno. Perché l‘Ati Ifras, l’associazione temporanea d’impresa che in convenzione con la Regione gestisce dal 2001 il recupero e le bonifiche nei siti minerari del Sulcis, avrebbe continuato a lavorare per altri dodici mesi, al costo di 26 milioni. E questo malgrado le diseconomie e le irregolarità che gli stessi uffici del Lavoro hanno elencato nel libretto nero del Geoparco.
Il Dg si è opposto alla proroga della convenzione con una lettera inviata allo stesso assessore Virginia Mura e al presidente Francesco Pigliaru il 7 dicembre scorso. Quindi una settimana dopo l’approvazione della norma salva-Geoparco con la quale il Consiglio regionale ha dato il via libera al rinnovo della convenzione. Una procedura irregolare per il massimo dirigente del Lavoro. Di qui il diniego.
Stando a quanto scritto dal Dg, “il disposto” della leggina “si pone in aperto e diretto contrasto coi principi generali e i dettati nazionali e comunitari in materia di appalti”. E poi c’è in contenzioso stragiudiziale tra l’Ati Ifras e la Regione”, con la prima che reclama il mancato pagamento di alcune fatture, mentre l’Amministrazione imputa all’associazione temporanea d’imprese il non rispetto della convenzione stessa. Nella causa si parla di “gravi carenze documentali” sullo svolgimento delle bonifiche nei siti minerari, ma anche sulla rendicontazione delle spese sostenute.
Il diniego del Dg è prima approdato in Giunta, ma per giorni non se n’è saputo nulla. Quindi la decisione del centrosinistra di convergere sulla posizione del direttore generale azzerando la legge del 29 novembre e approvandone una nuova. Due le direttive: salvaguardia dell’occupazione e conferma al 31 dicembre la scadenza della convenzione tra Regione e Ati Ifras (ieri l’approvazione).
Il Dg ha così fermato la politica. Ma gli equilibri interni al palazzo non sembrano compromessi. Pietro Cocco, il capogruppo Pd che da primo firmatario ha presentato sia la prima legge che la revisione, dice: “Nell’uno e nell’altro caso ci siamo mossi con la certezza della fattibilità. E abbiamo agito sempre nel solo interesse dei lavoratori. L’obiettivo è stato raggiunto anche stavolta: per i 502 lavoratori dell’Ati Ifras è garantita la continuità reddituale. Per due mesi, dal primo gennaio, entreranno in cassa integrazione, ma senza perdere un solo euro dello stipendio: la Regione coprirà il 20 per cento di retribuzione che si perderebbe con gli ammortizzatori sociali. Successivamente, con contratti a tempo determinato, potranno essere impiegati all’Igea, per un massimo di nove mesi”.
In Consiglio regionale, il dibattito è durato a lungo ieri. Tra gli interventi anche quello di Rossella Pinna, la dem-ex sindaca di Guspini. “Sarebbe assurdo sentirsi sminuiti nel nostro lavoro di legislatori quando un dirigente della Regione rileva problemi di applicabilità di una norma. L’Assemblea doveva onorare un impegno: tutelare i livelli occupativi e in questa direzione ci siamo mossi definendo un percorso che non mette a rischio alcuna busta paga. La situazione dell’Ati Ifras è complessa: questa maggioranza ha raccolto una eredità pesante. Col bando europeo per l’affidamento del servizio risolveremo il problema alla radice”.
Dal Pd interviene anche Alessandro Collu. “Il caso del Sulcis, al netto della sua complessità, ci pone di fronte a una questione più ampia: fare economie e non diseconomie. Visti i costi dell’Ati Ifras è bene cominciare un ragionamento sulla stabilizzazione diretta dei lavoratori che prestano servizio per la Regione. Bisogna sedersi intorno a un tavolo e tirare le somme: l’efficienza di una pubblica amministrazione passa anche dalla razionalizzazione della spesa”.

venerdì 23 dicembre 2016

Stiamo uccidendo il mondo - Maria Rita D'Orsogna


È quasi la stagione delle migrazioniUn gruppo di cosiddette oche delle nevi, perché sono bianche, decide di riposarsi in un lago lungo la loro rotta migratoria. Nevica e sono stanche. Vedono il lago. Un luogo ideale. Non sanno però che il lago è in realtà un buco-miniera un tempo usato dall’industria del rame, abbandonato e a cielo aperto, oggi pieno di acqua tossica e acida. È anche un sito indicato dal governo federale come sito da bonificare – un Superfund site – una specie di sito di interesse nazionale per gli americani. Gli uccelli sono in volo. Arrivano, si posano sull’acqua e muoiono all’istante. Tutti.
Il “lago” in questione si chiama Berkeley Pit e siamo nelle vicinanze di Butte, Montana. La miniera è gestita dalle due ditte Atlantic Richfield e Montana Resources. Gli addetti hanno cercato di allontanare gli uccelli, prima della loro discesa, cercando di spaventarli per farli atterrare altrove.
Non è la prima volta che tutto ciò succede. Presso la Berkeley Pit ci fu un incidente simile nel 1995 con la morte di 342 oche bianche che bevvero l’acqua del lago e le cui trachee furono ustionate, causandone la morte.

In questo nuovo episodio del 2016 non si conosce il numero esatto di uccelli morti anche se i responsabili dicono che si tratta di circa il 10 per cento dello stormo iniziale. Quello che si sa è che non se n’è salvata neanche una: tutte quelle che sono entrate in contatto con l’acqua tossica del lago sono morte.
Butte era un tempo nota come la “piu ricca collina del mondo”. Nel 1955 le operazioni di scavo iniziarono sotto la Anaconda company. Erano gli anni d’oro del rame, usando un gioco di parole.
Nel corso degli anni questa miniera produsse un miliardi di tonnellate di rame e di monnezza. I prezzi del rame calarono a partire dalla fine degli anni Settanta e la miniera venne abbandonata nel 1982.
Restò dietro un buco. La miniera. Con gli anni la pioggia entrò dentro e si formò questo lago. L’acqua piovana reagì con i sulfidi e gli altri metalli ancora presente nel terreno creando una specie di cisternona piena di un brodino tossico.
Ci sono progetti di svuotarla e di bonificarla prima che sia troppo tardi e prima che le falde acquifere vengano compromesse. Ma non siamo ancora arrivati qui, e la miniera per adesso è ancora lì che cuoce monnezza e uccelli morti.
Dopo l’incidente del 1995 si decise però di mettere su un sistema di segnali di allerta per gli uccelli con fari, e sensori che attivassero rumori molesti.
Tutto bene fino a qualche giorno fa.
Lo stormo del 2016 era di dimensioni fuori dal comune e viaggiava in ritardo rispetto ai tempi soliti delle migrazioni. A causa dei cambiamenti climatici, secondo il professor Jack Kirkley, ornithologo dell’Università del Montana, gli uccelli tendono a cambiare le proprie rotte e a partire per il sud prima o dopo del normale, portandoli a volte ad esplorare rotte nuove. In questo caso, la stanchezza ha prevalso e tutti i sistemi di cautela non hanno funzionato.
Un altra puntata dell’uomo che distrugge la natura.

giovedì 22 dicembre 2016

La via della Rojava. Reportage - X. Haval

Quando nel 2011 è iniziata la rivoluzione, sapevamo che il conflitto si sarebbe trasformato in una guerra tra sciiti e sunniti. Noi invece abbiamo scelto una terza via, quella della convivenza”, racconta Haval Jalil co-presidente di TEV-DEM, “la nostra è una rivoluzione culturale che passa innanzitutto per il rafforzamento delle comunità”. Siamo a Qamishlo, la capitale del cantone di Jazeera, una cittadina di duecentomila abitanti al confine con la Turchia. La regione della Rojava si è dichiarata autonoma nel 2012 e dall’anno successivo sta sperimentando una forma di auto-amministrazione ispirata ai principi del confederalismo democratico, la teoria politico-sociale che rappresenta il punto d’approdo di trent’anni di lotte del movimento di liberazione curdo. Il confederalismo democratico prevede il superamento della forma Stato-Nazione in favore di comunità organizzate su un modello di democrazia diretta che persegue una società basata sulla convivenza di culture e religioni diverse, l’ecologia, il femminismo, l’economia sociale e l’autodifesa popolare. Un esperimento unico al mondo, nel cuore di un Medio Oriente martoriato dalla guerra, dalla repressione brutale e dai fondamentalismi. Un’esperienza che può apparire incredibile se non la si vede con i propri occhi, soprattutto nel contesto dell’atroce conflitto siriano.
Chi scrive c’è appena stato è può testimoniare: è in corso una vera rivoluzione.
Negli ultimi tre anni, l’auto-amministrazione guidata da TEV-DEM, l’organizzazione di collegamento tra i partiti del Kurdistan siriano e i movimenti sociali, è stata impegnata nella riorganizzazione delle istituzioni e nella stesura delle nuove leggi.

L’unità organizzativa e decisionale minima della comunità si chiama Komin (comune). I komin sono organizzati principalmente su base territoriale, ma ce ne sono anche di donne o di gruppi etnici specifici. In ogni quartiere ci sono 7/8 Komin che eleggono rappresentanti nei consigli di quartiere e poi nei consigli cittadini. Nei Komin si elaborano proposte, richieste e si risponde collettivamente ai bisogni delle comunità. Nei consigli cittadini tornano le proposte di legge dell’amministrazione autogestita per miglioramenti ed approvazione. Ognuno dei tre cantoni del Rojava, Jazeera, Kobane ed Efrin, ha ad oggi un’amministrazione separata. Solo lo scorso anno buona parte di questi territori era controllato da Daesh. Il YPG, la milizia di protezione popolare e la sua brigata di donne, il YPJ, hanno recuperato gran parte del territorio attraverso durissime battaglie. Oggi, solo il cantone occidentale di Efrin è ancora separato da Kobane da una zona cuscinetto occupata dall’esercito turco, al quale Daesh ha ceduto territorio senza opporre resistenza. Nonostante la discontinuità territoriale, per l’anno prossimo è prevista l’elezione del primo “Governo Confederale della Siria del Nord Est – Rojava” attraverso il sistema di democrazia diretta costruito in questi 3 anni. Ma il vero cuore pulsante della rivoluzione curda  è la strategia di transizione dal modello  economico capitalista a un nuovo paradigma di economia sociale.

Vogliamo che la nostra economia sia costituita per l’80% da cooperative, non crediamo in un modello socialista che proibisca l’iniziativa privata. La nostra idea è che ogni persona abbia un ruolo economico attivo nella società e che la trasformazione avvenga gradualmente attraverso la partecipazione della gente”, spiega Haval Rachid, co-presidente del dipartimento di economia. In Kurdistan ogni incarico pubblico è sempre assegnato a due rappresentanti, un uomo e una donna che hanno la funzione di co-presidenti.
Fino a tre anni fa, le cooperative non esistevano da queste parti fatta eccezione per alcune isolate e malviste esperienze legate al regime di Assad. Oggi nel cantone di Jazeera sono piú di cento e si moltiplicano ad una velocità impressionante. Kasrik è una cooperativa agricola a 120 Km da Qamishlo, in direzione di Aleppo, avviata quattro mesi fa. Oggi conta più di 5000 soci consumatori residenti nelle vicine città di Til Tamer e Dirbesye. “L’amministrazione autogestita ci ha assegnato 5000 ettari di terra. Il nostro è un progetto di lungo termine. In otto anni prevediamo di arrivare a produrre e trasformare la maggior parte dei prodotti agricoli e di allevamento. Già vendiamo ortaggi, mais e il latte prodotto da un gregge di 1250 pecore. Ai lavoratori va l’8% del ricavato, tutto il resto lo reinvestiamo nel nostro progetto fino a che non sarà completato”, ci spiega Azad, uno dei contadini locali che si sono uniti per dare vita a questo ambiziosissimo progetto.

“Produciamo senza chimica e vendiamo i prodotti ai nostri soci a un prezzo piu basso di quello del mercato. Ogni quota sociale vale 100 dollari. Chi non ha i soldi puó diventare socio offrendo il suo lavoro, oppure unendosi ad altre persone. Quando ne abbiamo bisogno, i soci ci vengono ad aiutare in gruppi per una giornata nei campi. Pianteremo anche un bosco e quando il progetto sarà completo apriremo un agriturismo. Stiamo realizzando il nostro sogno”, prosegue Azad visibilmente emozionato.
Le cooperative agricole sono le uniche che hanno un sostegno diretto dell’amministrazione autogestita. A causa dell’embargo e delle scarsissime risorse economiche, i contributi sono minimi ma simbolicamente necessari per il marcare l’importanza dell’autosufficienza alimentare. Molte cooperative sono promosse dal movimento di donne Kongra-Star, che ne ha già formate una cinquantina. Si tratta per lo più di cooperative a piccola scala: agricole, di allevamento, di artigianato, di ristorazione, di trasformazione alimentare. “Lorin” è una cooperativa che prepara conserve utilizzando prodotti di stagione. “Abbiamo iniziato sei mesi fa. Prepariamo conserve da vendere nella nostra comunità e al mercato. All’inizio i nostri mariti non approvavano, ma poi hanno capito. L’unico capitale che abbiamo sono le nostre mani e vogliamo utilizzarle per partecipare”, spiega Sozda, una delle nove socie lavoratrici. “Abbiamo anche in programma di creare una cooperativa agricola per coltivare direttamente gli ortaggi che trasformiamo” .

Le cooperative nascono infatti in diversi modi: per iniziative dei movimenti sociali, della gente, dei Komin, ai quali viene richiesto di formarne almeno una, e per filiazione. In quest’ultimo ambito, il ruolo più attivo lo gioca Havgartin, la più grande cooperativa della regione che conta 26 mila soci. “L’idea è nata un anno fa nel villaggio di Zargan durante la crisi dello zucchero. Siamo sotto embargo ed i commercianti capitalisti speculano sui prezzi dei prodotti di base. Così è nata l’idea di formare una cooperativa per comprare lo zucchero e rivenderlo a un prezzo inferiore di quello del mercato. Dallo zucchero siamo passati a molti altri prodotti di prima di necessità proponendo a tutti i komin di aderire in ogni città del cantone. All’inizio la cooperativa agiva solo da grossista, oggi distribuiamo anche i prodotti delle altre cooperative e investiamo il 5% dei profitti nella creazione di nuove cooperative. Da Havgartin ne sono già nate altre otto”, spiega Zafer, membro del consiglio di amministrazione, “il nostro obiettivo finale è sottrarre il controllo del mercato ai commercianti e ai grossisti che non socializzano i profitti con le comunità. Per far questo vogliamo creare anche una banca per promuovere la formazione di nuove cooperative”.
Due cose colpiscono molto di questo processo assolutamente unico, la velocità con la quale la società si sta riorganizzando su un modello sino a oggi inesplorato e l’apertura della gente ad apprendere, scambiare e correggere la rotta. “Noi stiamo sperimentando una strada nuova, cerchiamo di imparare dagli errori che facciamo ogni giorno. Non abbiamo le risposte a tutte le domande. Vorremmo ad esempio conoscer molto di più le esperienze cooperative in altri paesi e le buone idee che posso essere utili al nostro processo”. conclude Zafer servendoci un altro tè,  mentre in televisione scorrono senza interruzione le immagini della guerra, con la sua atroce brutalità e le indistricabili contraddizioni.

mercoledì 21 dicembre 2016

L’imputato-Dg di Forestas: “Il problema dei boschi sardi? Troppi vincoli” - Pablo Sole

I boschi della Sardegna hanno un grosso problema: son troppo tutelati. Basti pensare che per ridurre in legna da ardere 550 ettari di lecceta nel Marganai – gioiello ambientale nel cuore del Sulcis – si deve addirittura chiedere l’autorizzazione alla Sovrintendenza ai beni paesaggistici. Ecco perché le norme vanno cambiate. Dei placet per tagliare una foresta, si potrebbe tranquillamente fare a meno: meno burocrazia, più motoseghe. Tutti concetti messi nero su bianco in un documento – prima pubblicato e poi scomparso dal sito del ministero per le Politiche forestali – firmato da Antonio Casula, plurimputato e direttore generale di Forestas. Sul quale pende incidentalmente una richiesta di condanna penale per i tagli abusivi realizzati proprio nel Marganai. Senza l’obbligatoria autorizzazione della Sovrintendenza, appunto.

L’imputato al tavolo del vice capo del Corpo forestale. E il documento fantasma

La doppia veste di Casula – l’una comoda di direttore generale, l’altra meno piacevole di imputato – il 29 novembre scorso non ha impedito al dominus amministrativo di Forestas di sbarcare a Roma, insieme al collega Giuliano Patteri, per illustrare le summenzionate e dirompenti tesi al Forum nazionale delle foreste. Raggiunto il centro congressi Fontana di Trevi, Casula ha preso posto al tavolo 6, dedicato al confronto sul ruolo delle istituzioni, e ha presentato una relazione di tre pagine a colleghi giunti a Roma da tutta Italia. A coordinare i lavori, il vice capo del Corpo forestale dello Stato, Alessandra Stefani. La quale, con tutta probabilità, non era stata precedentemente edotta sulle pendenze penali dell’interlocutore: affaire Marganai a parte, tra poche settimane si terrà una nuova udienza del processo che vede Casula sul banco degli imputati per reati contro la pubblica amministrazione, precisamente per frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta. Le ‘seccature’ giudiziarie di Casula sono invece ben note all’amministratore di Forestas Giuseppe Pulina, per il quale evidentemente non costituiscono un ostacolo. L’hanno pensata diversamente in quel di Roma. Secondo quanto riferito da fonti privilegiate, qualcuno ha fatto notare ai capoccia del ministero la posizione scomoda del plurimputato e l’inopportunità di quel documento – più che una relazione, un’autoassoluzione – e subito son scattate le contromisure. Se fino a poco tempo fa il papello di Casula poteva essere liberamente consultato sul sito del ministero, da qualche giorno è sparito. L’unico. Sono rimasti online tutti gli altri interventi, circa un centinaio. Sardinia post ha recuperato la relazione e la rende disponibile ai lettori (leggi).

Nell’Isola 400mila ettari di boschi sottoposti a tutela paesaggistica. Casula: “Preoccupante”

Nel suo intervento il direttore generale di Forestas – agenzia nata con l’obiettivo di tutelare e preservare il patrimonio naturalistico dell’Isola nell’ottica dell’interesse pubblico – se la prende in particolare con la Sovrintendenza ai Beni paesaggistici. Che, nel settembre 2015, ha disposto la sospensione dei lavori di ceduazione nel Marganai perché non erano mai state concesse le prescritte autorizzazioni paesaggistiche. L’imputato-Dg si lamenta del fatto che oltre all’autorizzazione del Corpo forestale, per gli interventi di ceduazione nelle aree tutelate dal punto di vista paesaggistico, si deve incredibilmente chiedere pure il parere vincolante della Sovrintendenza. “L’aspetto è preoccupante”, scrive Casula, angosciato dal fatto che nell’Isola le aree di notevole interesse paesaggistico assommano a 400mila ettari. “Doppiamente boschi”, annota sarcastico.

Fare fuori la Sovrintendenza

Dimenticando il semplice e basilare principio per cui il Corpo forestale si esprime sulla compatibilità forestale, appunto, mentre la Sovrintendenza su quella paesaggistica – vale a dire due piani adiacenti e complementari – Casula alfine scopre le carte e al tavolo coordinato dal vice capo Stefani suggerisce una semplice mossa per liberarsi dai lacciuoli fastidiosi degli uffici deputati alla difesa del paesaggio: farli fuori. Secondo l’uomo forte di Forestas, le norme vanno cambiate nel senso che gli interventi già approvati dalle autorità competenti dovranno potersi attuare “SENZA IL PASSAGGIO IN SOVRINTENDENZA (testuale nel documento, ndr)”. Dimenticando che tra le autorità competenti, almeno finora, c’è pure la Sovrintendenza.

Giornalisti e ambientalisti? Brutti, sporchi e cattivi

Se nel Marganai la Sovrintendenza ha spento le motoseghe, la colpa è pure della “SCARSA CONOSCENZA (testuale, ndr) da parte della collettività, delle associazioni ambientaliste e della stampa sulle tematiche forestali”. La colpa? Quella di aver “criminalizzato la gestione forestale attiva dei boschi quand’anche era autorizzata e monitorata dalle competenti (!) autorità”. Sulle autorizzazioni (mancanti) si è già detto. Sul monitoraggio (mancato) pure. I controlli delle “competenti (!) autorità” infatti si son rivelati talmente stringenti e puntuali che dell’apertura di nuove piste in mezzo al bosco senza autorizzazioni – reato formalmente contestato nella richiesta di condanna – hanno dato notizia quegli incompetenti (!) di ambientalisti e giornalisti. Ai piani alti di Forestas, pare, dell’obbligatorietà delle autorizzazioni non ne sapevano niente.

lunedì 19 dicembre 2016

Soldi sporchi sulle coste della Sardegna - Gruppo d'Intervento Giuridico

Anche questa è un po’ la scoperta dell’acqua calda.
La mafia, anzi, le mafie in Sardegna esistono e fanno affari.
Lo testimoniano le indagini svolte e in corso da parte della Direzione distrettuale antimafia, nonché provvedimenti giudiziari.
Lo testimoniano, purtroppo, i recenti procedimenti penali riguardanti i soldi ripuliti dai Casalesi sulle coste, ma non mancano gli investimenti di organizzazioni criminali locali.
La Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza hanno effettuato complessivamente 27 arresti (tra il marzo e il dicembre 2016), sequestri di immobili e di un resort sulle coste ogliastrine (l’Ogliastra Beach) per un valore di circa 15 milioni di euro ritenuti provenienti da attività criminali di un’organizzazione made in Sardinia.
Tutto frutto di un abbaglio?
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

A.N.S.A.19 dicembre 2016
Quattro persone arrestate e 15milioni di euro di beni sequestrati. È il colpo messo a segno dalla Polizia di Cagliari e dalla Guardia di finanza di Nuoro a carico della banda dei portavalori. Il sequestro nei confronti di due capibanda, già arrestati il 20 marzo scorso. Sotto chiave è finito anche un favoloso resort sul mare. I quattro arrestati, invece, sono accusati di aver riciclato il denaro delle rapine.
Fra i destinatari del provvedimenti restrittivi, eseguiti da Squadra mobile e Fiamme gialle, ci sono amici e parenti dell’ex vicesindaco di Villagrande Strisaili, Giovanni Olianas, già finito in manette a marzo. Le misure cautelari sono state emesse dal Gip Cristina Ornano, su richiesta del sostituto procuratore presso la Direzione Distrettuale antimafia di Cagliari, Danilo Tronci, che ha coordinato le indagini.
GLI ARRESTATI – C’è anche la moglie dell’ex vicesindaco di Villagrande Strisaili, nel nuorese, Giovanni Olianas, fra le persone arrestate questa mattina nell’ambito dell’indagine sugli assalti ai portavalori condotta dalla Polizia e dalla Guardia di finanza.
Ai domiciliari con l’accusa di riciclaggio sono finiti Silvana Conti, di 41 anni, moglie dell’ex vicesindaco arrestato nel marzo scorso; Roberto Serra, di 52, di Quartu, imprenditore intestatario del complesso alberghiero Ogliastra Beach a Cardedu; Tania Serra, di 32, di Loiri Porto San Paolo, compagna di Luca Arzu (già arrestato per gli assalti ai portavalori nel marzo scorso) e Nicolò Pasquale Bellu, di 48, di Aggius, commercialista di Luca Arzu, l’uomo che si sarebbe occupato di investire anche all’estero il denaro delle rapine e che avrebbe addirittura assunto come ragioniere lo stesso Arzu per dimostrare che non era nullatenente.
ECCO COME VENIVA RICICLATO IL DENARO – Un resort da favola acquistato da un nullatenente di 24 anni nel 1988 in Ogliastra, sei appartamenti sulla costa gallurese, auto, moto, ma anche conti correnti bancari, polizze assicurative. E’ il patrimonio da circa 15 milioni di euro sequestrato oggi dalle Squadre mobili di Cagliari e Nuoro e dal Nucleo di Polizia tributaria della Gdf di Nuoro.
I beni sono riconducibili all’ex vicesindaco di Villagrade Strisaili, nel nuorese, Giovanni Olianas, e a Luca Arzu, considerati i capi della banda che assaltò portavalori a Irgoli nel 2016 e il caveau della Vigilanza Sardegna di Nuoro nel 2015: banda sgominata il 19 marzo scorso con 23 arresti. Da quel momento la Polizia e la Guardia di finanza non hanno mai smesso di lavorare, nel tentativo di individuare i complici che li aiutavano a riciclare il denaro.
L’ex vicesindaco, secondo quanto accertato dagli investigatori, non ha mai ostentato un tenore di vita alto. Aveva uno stipendio fisso da impiegato forestale e un gettone di presenza per la sua attività politica. Ma del denaro percepito regolarmente non avrebbe utilizzato nemmeno un euro, senza mai prelevare denaro dai conti correnti, nonostante fosse sposato e padre di tre figli. Usava, invece, i soldi in contanti delle rapine. Roberto Serra (imprenditore arrestato questa mattina) gli aveva detto più volte, comunque, di prelevare soldi almeno una volta al mese per non destare sospetti. Proprio Serra, secondo quanto accertato dalle indagini, avrebbe gestito per conto di Olianas il resort Ogliastra Beach.
La società Calalunas, invece, che apparteneva alla moglie di Olianas, Silvana Conti, gestiva il resort. Poco dopo l’arresto del marito la donna ha rigirato la Calalunas ad una terza persona, per non destare sospetti.

Luca Arzu sarebbe stato, invece, meno attento di Olianas: a fronte di redditi inesistenti, infatti, spendeva ingenti somme di denaro per settimane bianche, vacanze a Venezia e viveva nel lusso. Il suo commercialista, Pasquale Nicolò Bellu, aveva investito per lui denaro in una società Lettone. Inoltre lo avrebbe assunto come ragioniere per non farlo risultante nullatenente. Tania Serra, compagna di Arzu, infine, si sarebbe occupata di far arrivare i soldi al commercialista ed effettuare i bonifici all’estero.

lo spopolamento visto da Emiliano Deiana

Ieri, alla Fondazione Sardegna, c'è stata una lunga giornata di dibattiti sullo "spopolamento" di alcuni paesi della Sardegna. Si è presentato il bellissimo (e necessario) lavoro di Sardarch intitolato Spop. Se volete un consiglio: cercatelo e compratelo. 
Io (e altri sindaci) eravamo stati invitati a dibattere col Presidente della Regione Pigliaru e con quello della Fondazione Sardegna Cabras. Certamente, nei rispettivi campi di azione, le due persone - forse - con maggiore potere, oggi, in Sardegna. 
Era un po' come se Don Romualdo fosse invitato a Castel Gandolfo a parlare con Bergoglio e Ratzinger. Una cosa così: fatte le giuste proporzioni. 
Cioè, Don Romualdo potevamo essere noi. Bergoglio e Ratzinger, loro. 
Vabbè, il paragone è un po' così: ma ci siamo capiti. 
Il fatto è che, per motivi sicuramente validissimi, non c'era nè Bergoglio e nè Ratzinger (questo un po' ce lo immaginavamo che Benedetto XVI e Francesco non ci fossero). Cioè, non c'erano nè Pigliaru nè Cabras. Meglio ancora: Cabras ha parlato di mattina. L'incontro istituzionale e il dibattito coi paesi morituri era alle 18. 
Ma non ci siamo persi d'animo e abbiamo provato - insieme ai sindaci di Nughedu San Nicolò, Villa Verde, Padria, Sini (c'erano pure altri colleghi in altre "sezioni") - a dire la nostra. 
Vediamo un po' di riassumere. 
Magari - dopo un po' - stanca essere il paese-mozzarella. Il paese con la data di scadenza appiccicata sul groppone. Sarà pur vero che ci sono 31 paesi in una situazione più critica degli altri, ma non si spopola solo Villa Verde o Nughedu Santa Vittoria o Ardauli o Cheremule. Si spopola TUTTA la Sardegna. 
Lo spopolamento si declina in altre parole: emigrazione, disoccupazione, denatalità, invecchiamento della popolazione. 
Dovrà pur finire - anche - lo Storytelling di 'staminchia di alcuni imbrattacarte che si emigra per far esperienza. Su 100.000 che emigrano 5/6 emigrano per fare lo scrittore maudit nelle periferie delle grandi capitali coi soldi di mamma e babbo. Gli altri emigrano per bisogno. Per il bisogno di lavorare. Perché in questa terraccia che calpestiamo non c'è lo straccio di una prospettiva. Nemmeno la più miserabile e infima. 
Se in Sardegna (e in Italia) il tasso di natalità decade; se l'età media in Sardegna si attesta sui 46 anni mentre nel Maghereb è di 21 anni: ci sarà un problema? 
Se in Sardegna, col 99% di zone rurali, si perdono un paio d'anni a discutere di "città metropolitane"; se in Sardegna, col 99% di aree rurali, l'unica forma di fiscalità di vantaggio l'abbiamo chiamata "zona franca urbana" ci si renderà conto che - forse - si è perduta la connessione con la realtà? 
Cioè, che ci costringono a vivere in una dimensione parallela? A discutere (e ad azzuffarci) su questioni inutili o utili solo a pochi?
Chi dice di possedere la ricetta per "mitigare" lo spopolamento è un cialtrone. Tutte le politiche devono essere per forza di cose "sperimentali". Nella sperimentazione, forse, ciò che va bene in Gallura non va bene nel Barigadu. Potrebbero servire sperimentazioni differenti su problemi simili. 
Naturalmente è un cialtrone anche chi dice "farò", "faremo". Sempre declinato al futuro. 
È l'adesso che conta. 
Noi, nei paesi, la dobbiamo pure far finita di fare i "necrofori" delle nostre comunità. Intuire (e attuare) che le politiche di sviluppo non possono essere "comunali", ma territoriali (le funzioni associate e le fusioni comunali, invece, non sono una soluzione, ma uno strumento da maneggiare con cura). 
Nei paesi dobbiamo strapparci di dosso la data di scadenza e sovvertire l'ordine delle cose. Sovvertirlo a livello culturale, politico, umano. 
La smettiamo di dire cosa può fare la "regione" per noi? E diciamo cosa possiamo fare NOI per la Sardegna? 
La smettiamo di offrire - NOI - solo il Grande Sagrificio? E ci mettiamo in cammino a offrire il meglio che c'è in termini culturali, ambientali, produttivi e paesaggistici? 
Ci riesce a farla dentro di noi la rivoluzione? O pensiamo che la faranno Bergoglio e Ratzinger per noi? Magari, come diceva Flaiano, utilizzando la loro mobilia per le barricate? 
Ecco. Un po' di pensieri sparsi in una domenica delle salme. 
[E]

E infine una provocazione a chi dice che i servizi possono essere chiusi dove ci sono poche persone. Che non può esserci - chi cazzo lo ha mai chiesto? - un ospedale per ogni paese. 
Da Pattada a Sassari ci sono 78 km. Oggi hanno chiuso il punto nascita dell'Ospedale di Ozieri. Le partorienti del Monte Acuto e del Logudoro migrano verso l'urbe. 
Sogniamo. Facciamo che un pazzo chiude il punto nascita di Sassari e tiene aperto quello di Ozieri. 
Cosa succederebbe in Sardegna? Cosa direbbero a Sassari? Direbbero che una partoriente di Sassari non può farsi 78 km per andare a partorire a Ozieri. 
O sbaglio? 
E perché dovrebbe essere normale che una partoriente di Pattada faccia 78 km di strade devastate per andare a partorire a Sassari? 
La domanda l'ho fatta. Datevi la risposta.

giovedì 15 dicembre 2016

Noi diventati poliziotti vegetariani

di Alessio Ribaudo


L’appuntamento, per tre giorni a settimana, è fissato a mezzanotte. Prima si infilano stivali alti, indossano materiali tecnici per sopportare il freddo intenso, inseriscono potenti torce nella cintura e, dopo una riunione in Commissariato, si inerpicano sui monti del Parco dei Nebrodi con dei fuoristrada: sino a 1.800 metri dove le strade asfaltate si interrompono e diventano sentieri. Sono in dieci e battono palmo a palmo pascoli e boschi alla ricerca di animali rubati o casolari trasformati in macelli clandestini dove si sezionano pure carni adulterate e potenzialmente rischiose per la salute. Solo ieri, nell’ultimo blitz chiamato «Gamma-Interferon», coordinato dalla procura di Patti, nel Messinese, hanno eseguito 33 provvedimenti cautelari che hanno colpito allevatori, macellai e veterinari. Senza considerare altri 17 indagati fra cui un comandante dei Vigili e un sostituto commissario di Polizia.
L’idea della squadra
Sono stati ribattezzati «la squadra dei vegetariani». «Ci hanno affibbiato questo nomignolo pensando di ridicolizzarci — spiega il vicequestore aggiunto Daniele Manganaro, 42 anni, due lauree e un master universitario di secondo livello — ma noi lo siamo diventati a ragion veduta perché più scoprivamo illegalità e più, uno dopo l’altro, abbiamo smesso di mangiare carne». Manganaro, guida il commissariato di Sant’Agata di Militello (Messina), dal 2014. «Appena arrivato — prosegue — ho intuito che nei Comuni del Parco di mia competenza c’era qualcosa di strano: troppi imprenditori denunciavano smarrimenti e furti di bestiame». Da qui l’idea di creare una squadra specializzata in abigeati, macellazioni clandestine, sofisticazioni alimentari e truffe per ottenere fondi pubblici.
Le diverse competenze
«Ho scoperto che fra i miei uomini c’erano figli di allevatori come Salvatore Mangione che conoscono quei boschi e sanno come trattare gli animali durante i controlli; c’erano chimici come Tiziano Granata in grado di analizzare i medicinali rinvenuti e, poi, altri ragazzi encomiabili che passano notti al freddo per osservare i movimenti sospetti».
Il supporto del questore
Un incastro umano che ha trovato la sponda dal questore di Messina, Giuseppe Cucchiara. Un dirigente schivo, con un lungo passato da investigatore della Mobile, che alla scrivania preferisce la strada. «Supportandoli con uomini e mezzi ho fatto solo il mio dovere — dice Cucchiara — e a furia di seguire le loro indagini anche io sono diventato vegetariano»…