sabato 31 dicembre 2016

La guerra in Siria vista dai campi di grano - Marina Forti

Dopo quasi sei anni di conflitto, in Siria la produzione di grano è pressoché dimezzata. La notizia può sembrare secondaria, rispetto ai drammatici sviluppi della battaglia di Aleppo e alla sorte di centinaia di migliaia di persone sotto assedio. A ben guardare però il grano è parte della guerra stessa: in fondo stiamo parlando di un paese essenzialmente agricolo, che fino a qualche anno fa produceva cibo in abbondanza, tanto da esportarne nei paesi arabi vicini. Ma questo era prima che sulla regione si abbattessero una disastrosa siccità e poi un conflitto sanguinoso, in cui le parti in causa sono molte e i fronti sono spesso confusi.
Così anche il raccolto di grano dice qualcosa su come sopravvive un paese. Il primo dato è che l’agricoltura è al collasso, e il crollo più drastico è avvenuto proprio nell’ultimo anno. Come se le risorse che avevano permesso ai siriani di resistere per ben cinque anni di conflitto fossero ormai esaurite. La superficie coltivata continua a diminuire (nella stagione 2015-2016 sono stati coltivati a cereali circa 900mila ettari, contro 1 milione e mezzo di ettari prima del conflitto). E i raccolti sono sempre più magri.
L’estate scorsa il paese ha prodotto 1,5 milioni di tonnellate di grano, cioè poco più di metà (il 55 per cento) della media tra il 2007 e il 2010, quando la Siria raccoglieva 3,5 milioni di tonnellate di grano. Ma non è stato un calo graduale. Ancora nell’estate del 2015 erano stati raccolti 2,4 milioni di tonnellate di grano. Fonte di questi dati è l’ultimo rapporto sulla “sicurezza alimentare” in Siria, diffuso dalla Fao e dal Pam (Programma alimentare mondiale), le agenzie delle Nazioni Unite rispettivamente per l’agricoltura e per le emergenze (raccogliere dati in una situazione di conflitto è una sfida: questo rapporto è basato in parte sulle interviste fatte da una missione internazionale di monitoraggio nel luglio scorso, almeno nelle zone raggiungibili dal lato governativo; in parte sulle informazioni raccolte da addetti locali, oltre che su foto satellitari e bollettini meteo).

Senza terra da coltivare
L’agricoltura crolla innanzitutto perché andare nei campi è pericoloso. Le terre restano incolte; a volte sono seminate ma è impossibile andare a mietere. Le interviste parlano di raccolti bruciati dai miliziani, per intimidire o perché non vi si nascondano cecchini. Ci sono zone inaccessibili per le mine. Ma anche dove sarebbe possibile coltivare, i sistemi di irrigazione sono spesso distrutti dalla guerra o sono inservibili per mancanza di manutenzione, carburante, pezzi di ricambio. Inoltre scarseggiano sementi e fertilizzati. Molto va sprecato perché manca il modo di trasportare il raccolto nei magazzini e nei mercati. I magazzini frigorifero per conservare ortaggi e frutta sono ormai pochissimi. Anche l’allevamento è decimato, per mancanza di foraggio e di pascoli (un terzo dei bovini e il 40 per cento di pecore e capre sono svaniti, dicono Fao e Pam).
Anche le piogge sono irregolari: sono state buone nella zona nordorientale, ma molto inferiori alla media nelle province di Aleppo, Idlib e Homs, dove la siccità rende più penosa la vita per gli abitanti ostaggio del conflitto. Già, quanti abitanti? Nessuno ha una stima precisa. Prima del conflitto la Siria aveva poco più di 22 milioni di cittadini, ma il bilancio della guerra è pesante. L’Onu stima che almeno 400mila persone siano morte. L’esodo è massiccio e continuo; nel settembre del 2016 l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati registrava 4,8 milioni di siriani all’estero, di cui oltre un milione in Libano e 2,7 milioni in Turchia, senza contare chi si è arrangiato con mezzi propri. Tra chi è rimasto, le agenzie umanitarie contano mezzo milione di persone intrappolate in zone sotto assedio, e oltre sei milioni di sfollati all’interno del paese. Oggi la Fao e il Pam calcolano le loro stime del fabbisogno alimentare su una popolazione di 18 milioni e mezzo, ma secondo altre fonti sarebbe poco più di 16 milioni. Di certo è una popolazione sempre più urbana, perché è nelle città che gli sfollati cercano rifugio e sostegno.

Come si sopravvive in tempo di guerra? Il quadro varia molto tra i diversi governatorati (le regioni). Buona parte del commercio e quel che resta dell’industria si sono spostati nella parte occidentale del paese, la fascia costiera controllata dal governo, che è relativamente più sicura. Le zone più fertili della Siria sono però quelle del nordest, la regione attraversata dal fiume Eufrate e dai suoi affluenti, e in particolare il governatorato di Al Hasaka, tradizionale “granaio” del paese (produceva da solo quasi metà del raccolto nazionale). Questa regione però è teatro di scontri tra fazioni armate, che competono tra l’altro per controllare il fiume e quindi l’approvvigionamento d’acqua per i centri abitati e per le coltivazioni.
Ora il paradosso è che il raccolto qui è relativamente buono, ma non c’è modo di distribuirlo, né nella provincia né più lontano: mancano camion e carburante, e comunque la strada verso Damasco è in parte sotto il controllo del gruppo Stato islamico (Is). Nel capoluogo nordorientale Al Hasaka ci sono ancora scorte dall’anno scorso, mentre milioni di persone in tutto il paese faticano a procurarsi il pane.
Il sistema pubblico di raccolta dei cereali, dove il governo comprava il grano dagli agricoltori, è saltato. Ma anche il mercato libero funziona in modo irregolare. Così oggi la parte occidentale del paese, sotto controllo governativo, importa farina e altri generi alimentari dall’estero (riso, zucchero, olio, margarina), mentre nel nordest ci sono riserve che non vengono distribuite.
Il risultato è che il prezzo della farina di grano, cioè l’alimento base, continua a salire sia nelle zone produttrici nordorientali, come quella di Al Hasaka, sia in città come Deir Ezzor o Damasco. I dati ufficiali (del governo siriano) dicono che l’inflazione è al 44 per cento su base annua, e al 57 per i prodotti alimentari. Ma questo dato non descrive davvero come stanno le cose. Il prezzo della farina dice molto di più. Un chilo di farina, che costava circa 50 lire siriane nel 2012, oggi costa più di 250 lire a Damasco, mentre ha toccato le 300 lire a Deir Ezzor e 250 ad Al Hasaka, dove però il prezzo è sceso un po’ a giugno grazie al nuovo raccolto. Ha raggiunto 350 lire a Raqqa, dove in primavera i combattimenti hanno interrotto i rifornimenti ai mercati. Insieme alla farina tutti gli alimenti di base sono rincarati, dai legumi all’olio. Del resto il valore della lira siriana è crollato, com’è ovvio: nel 2011 con mille lire si compravano 20 dollari, oggi se ne comprano meno di due.

Strategia di sopravvivenza
Invece procurarsi un reddito è sempre più aleatorio. Secondo il governo, la disoccupazione è al 50 per cento (contro il 10 per cento di prima del conflitto), anche se è impossibile parlare di vere statistiche. Nelle città molti competono per i pochi lavori retribuiti disponibili e gli unici salari regolari sono quelli dei dipendenti pubblici, ovviamente nelle zone sotto il controllo governativo. Chi può sopravvive con le rimesse dei parenti rifugiati all’estero. Molti altri sono costretti a chiedere prestiti mese per mese, per comprare l’essenziale per vivere: e poiché un meccanismo ufficiale di credito è pressoché scomparso, questo significa indebitarsi con parenti o conoscenti.
Le famiglie stanno ormai adottando “strategie irreversibili” per sopravvivere, dice il rapporto delle due agenzie, come vendere la terra o altri beni. Questo però renderà molto difficile risollevarsi quando la guerra sarà finita. D’altra parte le famiglie si stanno disintegrando, le donne restano sole con i figli mentre gli uomini scompaiono o fuggono all’estero per evitare di dover combattere. Se le famiglie sfollate sono le più vulnerabili, quelle a guida femminile lo sono in modo particolare, avvertono le agenzie dell’Onu. Il conflitto, la penuria di cibo, l’aumento dei prezzi, il freddo invernale fanno sì che oggi 9,4 milioni di siriani abbiano urgente bisogno di aiuti alimentari, stimano la Fao e il Pam. Le interviste raccolte dalle agenzie dell’Onu descrivono varie “strategie di sopravvivenza”, in particolare nelle zone direttamente toccate dai combattimenti. Dopo aver ridotto la dieta a pane e legumi, la principale è ridurre le porzioni o saltare i pasti. È un altro modo per dire che gran parte dei siriani è alla fame.
(*) Ripreso da «Internazionale». Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)

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