martedì 31 maggio 2016

Balasso testimonial Rolex

Harambe e il nostro delirio antropocentrico - Rita (http://www.ildolcedomani.com/)




Sembra proprio che sui social e sui media sia difficile elaborare un pensiero che non vada oltre una faziosità tipica da stadio, eppure, sulla vicenda di Harambe, credo che ci si debba sforzare di fare qualche considerazione in più perché è paradigmatica non solo del nostro rapporto con gli altri animali, ma anche della rappresentazione di noi stessi in quanto presunta specie eletta la cui sacralità dei singoli non deve essere messa in discussione.  
Innanzitutto, non bisogna smettere di ripetere quanto gli zoo e altre strutture che imprigionano gli animali siano da bandire totalmente. Si tratta di luoghi intrisi di violenza sia sul piano pratico, che su quello simbolico e rappresentativo. Pratico, perché tenere in gabbia (o anche in recinti più ampi, poco importa) individui appartenenti a specie che necessitano di esprimere ben altre esigenze etologiche (correre, arrampicarsi sugli alberi, socializzare, sperimentare il mondo con tutta la varietà di stimoli che offre, predare ecc.) è una forma di violenza immane. Significa in pratica castrare, mutilare, dominare, impedire a qualcuno di essere e di stare nel suo mondo. 
Sul piano rappresentativo, quindi del significante, si tratta di un’altrettanta forma di violenza dalle numerose sfaccettature: innanzitutto si trasmette ai bambini l’idea che la nostra specie possa impunemente controllare e imprigionare altri animali, quindi l’antropocentrismo in una delle sue manifestazioni peggiori, secondo poi li si espone a un rapporto tra soggetto che guarda e soggetti guardati che non è paritario, non è relazionale, ma è anzi, oltre che di dominio, spesso di scherno e denigrazione. Tra gli zoo moderni e quelli ottocenteschi non vi è nessuna differenza. Si possono chiamare “bioparco” quanto volete, ma le parole in questo caso sono solo orpelli per nulla aderenti alla realtà che vorrebbero indicare in quanto si tratta sempre della medesima struttura in cui c’è appunto un osservante che dall’alto della sua presunta posizione di superiorità osserva altri individui considerandoli fenomeni da baraccone. E non può essere altrimenti perché altro non si può imparare. Cosa si può sapere infatti del leone sedato e privato della possibilità di esprimere quelle che sarebbero le sue caratteristiche di specie? 
Mi è capitato spesso, guardando dei video girati dai visitatori di zoo e strutture simili, assistere a risate di scherno e azioni di disturbo nei confronti degli animali imprigionati. Ragazzotti che si sentono superiori e più intelligenti che fanno il verso ai loro cugini primati, deridendoli e facendoli arrabbiare, senza minimamente capire che l’uso della parola, anziché del linguaggio gestuale e del corpo, non fa di noi una specie superiore, ma solo diversa. Assistere a tali manifestazioni di dominio è avvilente ed è la prova non della nostra presunta superiorità e intelligenza, ma semmai della nostra incapacità di guardare oltre l'orizzonte del nostro naso. 
La questione Harambe è paradigmatica anche per un altro verso: la sua vicenda ricorda molto da vicino quella cinematografica di King Kong. Un gorilla viene estirpato dal proprio habitat e portato nel nostro al solo fine di trarne profitto economico. Poi, incapaci di gestirne la natura selvatica, viene ucciso. Doppio danno: l’essere stato dapprima privato della sua libertà – che è già una prima morte psicologica – e poi materialmente privato della vita. In questo, come in tanti casi reali, si assiste alla tragedia di un individuo che deve pagare con la sua vita per errori tutti umani. E ci sarebbe anche molto da dire sulla maniera in cui, dal momento in cui ci siamo tirati fuori dalla natura, cui continuiamo però ad appartenere in quanto animali, abbiamo iniziato a temere e stigmatizzare ogni comportamento che non appartenga (spesso a torto) al rango della razionalità. Quel che si teme è la propria animalità (Freud direbbe che la civiltà è soppressione degli istinti), quel che si mette in atto è una rimozione della nostra natura animale, quel che inconsciamente manifestiamo è la distruzione dell'animale per meglio esaltare la nostra presunta umanità (ossia la costruzione culturale e fittizia che abbiam fatto di essa)*. Inoltre, tutto ciò che riguarda il nostro comportamento viene sempre definito razionale, ossia avente una motivazione logica e intelligibile, mentre tutto ciò che fanno gli altri animali è imputabile al mero istinto. Pure qui si tratta di una pura distinzione ideologica: perché mai se una donna protegge il proprio figlio dovrebbe essere un comportamento logico mentre se lo stesso fa un'orsa viene definito bruto istinto? 
Paradigmatico anche il modo in cui i media hanno trattato la vicenda, a cominciare dalla terminologia usata: Harambe, è un esemplare appartenente a una specie in via d’estinzione, mentre il bambino è IL bambino, la cui vita è considerata sacra a prescindere (anche secondo le parole dell’etologo Alleva). Ecco, stupisce constatare quanto persino un etologo, che dovrebbe conoscere Darwin, ancora faccia questa distinzione ontologica tra animali da una parte, in cui vi sono esemplari intercambiabili, quindi sostituibili e gli umani dall’altra, in cui vi sono invece individui unici, portatori di una irripetibile singolarità che non può essere ridotta a qualsivoglia classificazione tassonomica. 
Eppure sarebbe bastato abbandonare questa ormai obsoleta prospettiva antropocentrica per capire che tanto Harambe, quanto il bambino, erano soggetti unici di una vita e che la vita non è sacra a prescindere, ma lo è proprio in quanto irripetibile per ognuno. Ecco, dicevo, sarebbe bastato questo leggero spostamento di prospettiva per riflettere meglio sul da farsi e per cercare una soluzione che non si imponesse come scelta tra uno o l’altro, ma come rispettosa di entrambi.
Forse una soluzione diversa davvero non c’era (la sedazione poteva essere pericolosa perché non si sarebbe potuta prevedere la reazione immediata del gorilla?), ma quel che duole è constatare come non la si sia nemmeno cercata e senza pensarci due volte si sia preferito uccidere l’animale non umano: per una petizione di principio, per una impostazione solamente ideologica. Detto in altre parole: per pura ignoranza e miopia. 
Ed è stato così per Alexandre, il giraffino fuggito dal circo alcuni anni fa, per Daniza, l’orsa, rea di aver difeso i suoi cuccioli e per chiunque sia escluso dall’appartenenza al regno superiore dell’umano. 

Che questa vicenda ci faccia riflettere: sul nostro falso concetto di umanità costituitosi respingendo da noi l'animalità e su queste strutture lager che continuiamo a finanziare danneggiando migliaia di individui e avvilendo anche la nostra intelligenza perché, davvero, potremmo essere migliori di quanto siamo.

*citazione da un mio precente articolo "Chi ha paura degli animali?"

lunedì 30 maggio 2016

ammazzando gorilla

Il gorilla di uno zoo viene ucciso per trarre in salvo un bambino caduto nel suo recinto. Accade a Cincinnati, negli States, dove in una manciata di minuti un bimbo di 4 anni ha avuto la sfortuna di farsi un volo nel fossato di poco più di 3 metri e di ritrovarsi faccia a faccia col gorilla di pianura che se ne stava lì beato.
Il gorillone, di circa 180 chili, di 17 anni e dal nome di Harambe, era una sottospecie a rischio estinzione. Una volta scorto il bambino, si sarebbe subito avvicinato a lui, scatenando le urla (come si può sentire dal video che gira in rete in queste ore) e il panico generale…
…Circa l’uccisione di Harambe, non chiediamoci tanto se la tragedia si sarebbe potuta evitare, ma: sulla base di cosa esistono ancora gli zoo? Siamo andati a chiederlo all'etologo Roberto Marchesini che è chiaro su un punto:
Quello che è successo allo zoo di Cincinnati è la dimostrazione di come gli zoo siano strutture assolutamente da superare, non sono strutture educative, non sono strutture dove in qualche modo si tutelano gli animali, ma sono semplicemente dei grandi baracconi dove al primo problema la cosa più semplice da fare è quella di ammazzare un animale”. Dunque? Questo zoo ha dimostrato una incapacità totale di saper lavorare con gli animali. Non ha saputo leggere i comportamenti dell'animale. Non aveva personale capace di entrare dentro la gabbia e relazionarsi con l'animale. E sicuramente, come questo, ce ne sono altri mille di esempi nel mondo. "Lo zoo è sempre una prigione dove l'animale subisce un maltrattamento. Chiuderli in una gabbia non permette agli animali di esprimersi per quello che sono", conclude Marchesini...


Scoppia l'indignazione social per l'esecuzione del gorilla Harambe, ucciso nella sua buca dello zoo dopo che un bambino di quattro anni è caduto nel suo recinto. Per moltissimi navigatori del web Harambe, maschio di 17 anni, avrebbe dovuto essere risparmiato, perché non non intendeva far male al bimbo.
E' stato lanciato l'hashtag #JusticeForHarambe, che ha fatto boom. Per molti sono i genitori del bimbo che vanno condannati per quanto è accaduto sabato scorso allo zoo, perché non sono stati in grado di sorvegliare il figlio. I dipendenti dello zoo hanno ucciso il gorilla (un bestione di 180 chili), che aveva preso il bambino caduto nel fossato, perché la situazione rappresentava una "minaccia per la vita" del bimbo…
…Nel 1987 accadde un incidente simile in uno zoo sull'isola di Jersey, ma quella volta ci fu un lieto fine: un bambino di cinque anni cadde nel recinto dei gorilla e perse conoscenza. Un gorilla schiena d'argento di nome Jambo lo vegliò, allontanando gli altri animali del branco e carezzandogli la schiena. Quando il bimbo si riprese scoppiò a piangere, i gorilla si allontanarono permettendo al personale dello zoo di recuperarlo.


giovedì 26 maggio 2016

Legumi, guida pratica per un uso consapevole - Francesca Spiga

Ottima fonte di proteine vegetali e carboidrati, con un basso contenuto di grassi e ricchi di sali minerali, vitamine e fibra, dall’elevato potere saziante, adatti alla dieta delle persone affette dalle più svariate patologie e comprendenti una varietà di tipologie talmente vasta da riuscire ad accontentare i gusti di tutti, i legumi sulla carta sono l’alimento perfetto, quello che dovremmo consumare in grandi quantità, diversamente da tanti altri cibi, eppure il loro utilizzo in cucina sta sensibilmente calando tanto che molti bambini non ne conoscono neppure il sapore e diversi adulti non hanno ben chiaro cosa siano tanto da confonderli spesso con le verdure (utilizzandoli quindi come contorno) oppure con i cereali in chicco come farro, riso, orzo (utilizzandoli quindi come primo piatto a cui far seguire il secondo proteico di origine animale).
Forse anche per questi motivi il 2016 è stato eletto dall’ONU l’anno internazionale dei legumi. Durante questi mesi la FAO avrà il compito di informare i cittadini sulle caratteristiche nutrizionali dei legumi; una delle prime iniziative, per esempio, è stata quella di pubblicare sul suo sito (guarda) una raccolta comprendente 850 ricette internazionali che vedono protagonisti assoluti i legumi.
I legumi sono i semi secchi dei bacelli, comprendono decine di specie e un esorbitante numero di varietà che si possono trovare nelle diverse parti del mondo.
Vengono chiamati spesso “carne dei poveri” per il loro elevato contenuto in proteine: 100gr di manzo apportano infatti 21,8gr di proteine contro i 20,9gr per 100gr di ceci, 23,6gr dei fagioli e 36,9gr della soia. La loro biodisponibilità (la quota che effettivamente viene assimilata dal nostro organismo) è sicuramente minore rispetto alla carne ma è molto semplice raggiungere la quota proteica minima e superarla se la nostra dieta è varia ed energeticamente adeguata. In ogni caso ciò non toglie che anche chi segue una dieta onnivora potrebbe inserire qualche volta a settimana i legumi in sostituzione ai prodotti animali, con grandi benefici per la salute ma anche per la linea e il portafogli!
I legumi infatti non contengono colesterolo, sono molto ricchi di fibra e minerali come calcio, magnesio, potassio e zinco, essendo privi di glutine sono adatti anche alla dieta di chi è affetto da malattia celiaca o soffre di Gluten Sensitivity, inoltre, pur contenendo carboidrati, possiedono un basso indice glicemico rappresentando quindi un alimento adatto anche ai soggetti diabetici. In più hanno bassi costi di produzione e di vendita e si prestano ad essere utilizzati in tantissime preparazioni culinarie.
Ora, dopo queste righe, in tanti starete pensando che la prossima volta che andrete a fare la spesa inserirete nel carrello degli “ottimi” legumi già cotti in barattolo che così non fate neanche la faticaccia di cucinare, tuttavia questo non è un buon modo per consumarli dal momento che possiedono un diverso valore nutritivo e le loro proprietà benefiche potrebbero non essere presenti, sono inoltre dei prodotti ad alto tenore di Sodio, da evitare soprattuto nei soggetti ipertesi e/o con problemi di ritenzione di liquidi.
I legumi secchi richiedono un lungo periodo di ammollo prima della cottura, solitamente dalle 6 alle 12 ore, e lunghi tempi di cottura che possono variare in funzione della varietà e del metodo di cottura, ma che sono necessari al fine di inattivare alcuni fattori antinutrizionali e aumentarne la digeribilità. Nel caso in cui, anche con lunghi ammolli e lunghe cotture, siano fonte di gonfiore addominale e meteorismo, possono essere passati e ridotti in crema, per chi è particolarmente sensibile al posto del frullatore si può utilizzare il passaverdure che riesce ad imprigionare il rivestimento dei legumi (la cosidetta “pellicina”), maggiore causa di gonfiore. Ancora in alternativa possono anche essere utilizzate le varianti decorticate che non presentano il problema.
Un altro accorgimento da adottare per rendere i legumi più digeribili è quello di aggiungere un piccolo pezzo di alga Kombu(reperibile in qualsiasi negozio di articoli biologici) in ammollo e un altro in cottura che verrà poi eliminato, ed effettuare la cottura in pentola a pressione o di terracotta. Tuttavia mi sento di fare una piccola raccomandazione: quando si ingeriscono degli alimenti contenenti tanta fibra un minimo di gonfiore è normale ma anche giusto poichè è il risultato del lavoro di intestino e flora batterica intestinale, basta attendere la fine della digestione e tutto ritorna come prima con grandi benefici acquisiti.
Ma come si consumano questi legumi? Per tornare al discorso di prima, sono verdura, cereali o che cosa? I legumi non vanno confusi né con la verdura né con i cereali che devono essere usati insieme ai legumi e non “al posto di”. I legumi infatti sono carenti dell’amminoacido Metionina (chiamato appunto amminoacido limitante), che è invece contenuto nei cereali che però, a loro volta, sono carenti in Lisina, di conseguenza combinandoli insieme andiamo a comporre un ottimo piatto unico dalle grandi prorietà nutrizionali. Ancora una volta quindi la risposta ci viene data dai piatti della tradizione: pasta e ceci o fagioli, riso e lenticchie e ottimi minestroni e zuppe di farro, orzo e altri cereali in chicco con legumi e verdure.
Ma ora che arriva l’estate chi ha voglia di zuppe? I legumi infatti, nell’accezione comune sono degli ingredienti invernali nonostante, essendo secchi, non temono la stagionalità ma nessuno ci vieta di prepararci delle ottime insalate di ceci, pomodori e rucola, o fagioli e cipolle rosse, o ancora fare delle ottime creme prendendo magari anche spunto dalla cucina etnica, come l’hummus della cucina araba.
Insomma, non ci sono più scuse per non consumare i legumi con regolarità! Buon anno dei legumi a tutti!
Per completezza ecco una lista dei legumi che più facilmente è possibile reperire e consumare nel nostro territorio: ceci, fagioli, lenticchie, fagioli di soia, fagioli azuki, piselli, fave, lupini, cicerchie.
Francesca Spiga (Biologa nutrizionista)

martedì 24 maggio 2016

se n'è andato Pluto, il cane del terremoto





“Se non c’è Pluto, vuol dire che non è una cosa importante”. E’ la frase che io pronunciavo, scherzando (ma fino a un certo punto) se a una manifestazione non vedevo comparire l’inconfondibile sagoma di Pluto. Pluto ju cane, aveva una pagina facebook tutta sua, con migliaia di like. Era famoso, Pluto, già prima del terremoto. Perché a ogni manifestazione lo vedevi comparire col suo fido assistente Chicco a seguire (o più spesso precedere) le sfilate. Alla Perdonanza era sempre presente, scompariva, o meglio, lo nascondevano per evitare che fosse portato in canile, solo in occasione del Corteo della Bolla. Ogni volta lui c’era. Ma è dopo il sisma del 6 aprile 2009 che la fama di Pluto ju cane ha iniziato a varcare i confini dell’Aquila. Pluto è allora diventato “il cane del terremoto”, quel quadrupede che è rimasto in centro storico anche quando il centro dell’Aquila era un cumulo di palazzi svuotati da dentro. “Chissà se Pluto c’è ancora”, si chiedeva chi, col caschetto in testa, entrava in centro accompagnato dai Vigili del fuoco. E Pluto compariva, pelle e ossa. Ma lui stava lì. Un giorno arrivò la voce che Pluto fosse stato catturato e messo in un canile. Su facebook scoppiò la rivolta. Migliaia di persone chiesero che il cane venisse rimesso al suo posto, a fare la guardia alla città distrutta. Un giorno il Comune decise anche di promulgare una ordinanza che, per tutelare “il decoro”, doveva impedire di dare da mangiare ai randagi. Che, apro una parentesi, randagi non sono, in quanto chippati e di fatto di proprietà pubblica e assegnati agli animalisti. Anche in questo caso ci fu la rivolta, con addirittura manifestazioni al Castello, nel punto in cui ancora oggi ci sono le cucce dei randagi. E in quel punto ci fu anche la conferenza stampa degli ambientalisti quando il Comune ritirò la delibera incriminata. Le cucce al Castello furono spostate una volta sola, quando arrivò il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a inaugurare l’auditorium del Parco realizzato da Renzo Piano. Allora i cani furono nascosti un pochino più lontano, ma tornarono al loro posto il giorno dopo. Col passare del tempo, Pluto era diventato un simbolo, a dispetto delle sue intemperanze con i ciclisti (mitico fu l’inseguimento alla villa comunale al passaggio di una tappa ciclistica) e di quelle con gli altri cani. Un writer di lanciano, Macs, artista conosciuto a livello internazionale, ne fece uno straordinario e commovente ritratto che per mesi campeggiò a via Garibaldi. Pluto ju cane era il simbolo dell’Aquila che dopo terremoto aveva resistito a ogni avversità. Gli aquilani, tutti o quasi, vedevano in quel quadrupede arrivato in piazza Duomo chissà da dove nel 2003 e che negli ultimi mesi arrancava con le articolazioni gonfie, il simbolo di chi, nonostante tutte le avversità, non ha mollato mai. Qualcuno sta pensando di fare un monumento, da mettere in un angoletto al Castello. Come Balto, il cane da slitta che salvò decine di persone portando il vaccino in uno sperduto villaggio dell’Alaska, come quello a Taro e Jiro di Osaka, in memoria dei due cani ritrovati un anno dopo che la spedizione li aveva dovuti abbandonare in Antartide insieme ad altri 13 cani da slitta. O come Hachikō, il cane famoso per la sua fedeltà, che aspettò per anni alla stazione il padrone morto improvvisamente. Storie da film, è vero, ma Pluto ju cane un simbolo lo era diventato per davvero. Almeno per noi…

domenica 22 maggio 2016

(le volpi a guardia delle galline) Inchiesta sul recupero della fauna selvatica a Padova. Un clamoroso caso di conflitto di interessi - Grig

Il Centro Recupero Animali Selvatici della LIPU Padova chiude i battenti per una convenzione provinciale che non gli è stata più rinnovata e che quindi impedisce l’affidamento della fauna selvatica ferita agli esperti della Lega Italiana Protezione Uccelli, per la cura, la riabilitazione e infine la restituzione all’ambiente naturale. Perciò tutti a casa.
Tutti davvero?
In qualche meandro del sito internet della Provincia di Padova, scopriamo che la LIPU Padova ha un “concorrente”.  Si tratta dell’Associazione di Volontariato Ornitologica “IL GHEPPIO ONLUS” con sede operativa a Villafranca Padovana in Via G. Matteotti, 53, rappresentata dal Presidente pro-tempore, Bison Giorgio nato a Villafranca Padovana il 29/11/1944.
Il disciplinare che regola i rapporti tra la Provincia di Padova e la LIPU, e il disciplinare stipulato tra la Provincia di Padova e “Il Gheppio” sono praticamente una fotocopia l’uno dell’altro, eccetto che per 2 voci:
la LIPU Padova all’art. 1 co. 2 ha un punto aggiuntivo che “Il Gheppio” non ha, e suona così:“La LIPU si impegna a svolgere le seguenti attività: 2. prestazioni gratuite per la visita e le prime eventuali cure veterinarie da parte dei volontari L.I.P.U.;”. “Il Gheppio” invece ha a sua volta una voce (art.1 punto 4) che la LIPU non ha: “L’Associazione di Volontariato Ornitologica “IL GHEPPIO ONLUS” si impegna a fornire le seguenti prestazioni: detenzione dei soggetti di cui non è stata possibile la riabilitazione al volo;”. La LIPU dunque può ospitare degli uccelli per un tempo limitato, anche se non più curabili.
Tecnicamente, invece, “Il Gheppio” può detenere a vita uccelli selvatici “compromessi” (non ci è dato sapere se l’infermità venga documentata da un medico veterinario oppure sia frutto di autocertificazione da parte dei responsabili della struttura).
Che strana difformità di trattamento ad opera del Dirigente del servizio caccia e pesca, Dott. Renato Ferroli…
Ma chi sono allora i responsabili del “Centro recupero fauna selvatica Il Gheppio”? Diamo un’occhiata all’organigramma.
Il Presidente è un certo Giorgio Bison, il Vicepresidente risponde al nome di Patrizio Carraro, il Segretario si chiama Mattia Gobbin. A queste tre persone dobbiamo aggiungerne una quarta, tale Enrico Volpin, che compare, nel disciplinare della Provincia di Padova, tra i collaboratori de “Il Gheppio” autorizzati a detenere fauna selvatica presso la propria abitazione. Cominciamo da Giorgio Bison che sappiamo essere nato a Villafranca Padovana, dove del resto si trova la sede del Centro recupero fauna selvatica. Proviamo un po’ di combinazioni sul motore di ricerca e inseriamo qualche parola magica e voilà, scopriamo che Giorgio Bison è Presidente della Federazione Italiana Della Caccia nella sezione comunale di Villafranca Padovana. Mah?! Accanto al nome di Bison leggiamo una sigla “UCIM”. U.C.I.M. sta per “UNIONE CACCIATORI ITALIANI MIGRATORISTI” ed è definito “settoriale della Federcaccia”. Sì sa, ogni cacciatore ha le sue preferenze: ci sono quelli che amano la caccia grossa (safari, cinghiali, ecc.) e poi ci sono quelli che cadono nella follia per uccelli migratori di pochi grammi o anatre migratrici che arrivano dalla Mitteleuropa, dalla Scandinavia o dalla Siberia. Uccelli che si fanno qualche migliaia di chilometri in volo per farsi massacrare in Italia.
In gergo, i “migratoristi”, sono proprio quelli che vanno a caccia di uccelli migratori (caccia specialmente da appostamento fisso con utilizzo di uccelli da richiamo in gabbia). Il Presidente del “Centro recupero fauna selvatica Il Gheppio” di Villafranca Padovana è una di queste persone.
Ma Giorgio Bison è anche tra i 10 componenti del Comitato Direttivo dell’Ambito territoriale di caccia PD1 “Alta Padovana”. L’Ambito territoriale di caccia è una suddivisione del territorio agro-silvo-pastorale dove si esercita la caccia, ed è amministrato da una struttura di tipo associativo con interesse pubblico che opera a fini di gestione faunistico-venatoria del territorio all’interno di confini fissati dal piano faunistico-venatorio regionale (Piano Faunistico – Venatorio Regionale approvato con L. R. n. 1/2007).
Questi enti di diritto privato, quali sono gli ATC, non si occupano solo della distribuzione dei tesserini venatori regionali dei cacciatori residenti nell’ambito di competenza per conto della Provincia, ma orchestrano la cosiddetta “riqualificazione ambientale faunistica”, che dal nome sembra una figata, nella realtà si tratta di acquisto e lancio di migliaia di animali pronta-caccia  (lepri, fagiani, starne, ecc.), di realizzazione di allevamenti di fauna stanziale domesticata, organizzati in forma di azienda agricola, nonché di massacro di tutti gli “elementi di disturbo alla caccia”: ad esempio, massacro delle volpi e dei Corvidi. 

sabato 21 maggio 2016

Il primato verde della Germania: per due giorni solo rinnovabili – Luca Pagni

  
C'è un fantasma che si aggira per l'Europa e sta spegnendo le centrali elettriche alimentate con le fonti tradizionali, che siano il carbone o il gas naturale. A tutto vantaggio delle fonti rinnovabili, il cui uso è cresciuto al punto negli ultimi anni da riuscire ad alimentare, in alcuni paesi, tutta l'energia necessaria in certi momenti della giornata. È accaduto in Germania, la nazione guida dal punto di vista economico d'Europa. Proprio questo motivo, grande consumatrice di energia. Eppure, nelle ultime due domeniche, le fonti rinnovabili hanno coperto rispettivamente il 90 e il 99 per cento del fabbisogno.
 
Questo è avvenuto nella giornata in cui fabbriche e uffici sono per lo più chiusi e la minore domanda ha portato i prezzi dell'energia in negativo: cosicché solo le rinnovabili (visto che sole e vento non costano) hanno prodotto elettricità. Un risultato ancora più clamoroso, se si pensa che le rinnovabili in Germania al momento coprono nel corso dell'anno non più del 30 per cento del fabbisogno complessivo. Ma è anche vero che in Europa la Germania è il paese che ha installato più megawatt di fotovoltaico di tutti.

Il record tedesco, però, è insidiato dal "piccolo" Portogallo. Dove, l'altra settimana, il 100 per cento del fabbisogno è stato coperto dalle rinnovabili per quattro giorni consecutivi. Per la precisione, il Portogallo ha usato solo energie verdi (per lo più da fonte eolica) dalle 6.45 di sabato 7 maggio alle 17.45 di mercoledì 11. In tutto, 107 ore in cui non si è dovuto far ricorso all'elettricità prodotta da centrali termolettriche. Del resto, il Portogallo è un paese che già dal 1994 ha iniziato la sua uscita dai combustibili fossili, mettendo al bando gli impianti a carbone.

Anche se il dato più clamoroso rimane il record raggiunto più di un anno fa dalla Danimarca, quando l'energia prodotta dai suoi impianti eolici ha coperto il 140 per cento del suo fabbisogno. Mentre, sempre grazie alle rinnovabili, la Gran Bretagna ha potuto per la prima volta in oltre 100 anni (il 10 maggio scorso) fare a meno del carbone.

E L'Italia? È uno dei paesi che sul fronte delle rinnovabili ha fatto più strada negli ultimi anni. Tanto è vero che - secondo i dati forniti da Terna, la società che assicura il "dispacciamento" dell'energia lungo tutta la penisola - la percentuale di fabbisogno coperta dalle rinnovabili si aggira sul 40 per cento del totale. Ma anche per il nostro paese ci sono state giornate in cui il risultato è stato più elevato: in particolare, il 25 aprile scorso, in alcune ore le energie verdi hanno raggiunto una quota del 70 per cento.

Un record che potrebbe essere presto battuto. "Con l'arrivo del bel tempo stabile - spiega Antonio Sileo, ricercatore dello Iefe-Bocconi e direttore dell’osservatorio sull’innovazione energetica dell’I-Com - è facile pronosticare che anche nel nostro paese si arriverà al sorpasso stabile delle fonti rinnovabili su quelle tradizionali: questo sognifica che le rinnovabili andranno a coprire stabilmente il 50 per cento del fabbisogno. L'unico ostacolo potrebbe venire solo da una estate eccesivamente calda, perché in questo caso l'uso massiccio dei condizionatori,
soprattutto nel Nord Italia, richiederà una tale quantità di energia concentrata in alcune ore della giornata che solo le centrali termoelettriche possono soddisfare. Ma è solo questione di tempo, la strada favorevole alle rinnovabili è ormai segnata".

Sette proposte per l’agricoltura sostenibile del futuro - Greenpeace


  

1. restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;

2. sovranità alimentare. L'agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;

3. produrre e consumare meglio: è possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo
per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;

4. incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo;

5. proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso;

6. consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l'impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l'acqua,
gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;

7. rafforzare la nostra agricoltura, perché si adatti in maniera efficace il sistema di produzione del cibo in un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.

Per contribuire alla crescita dell’agricoltura sostenibile, Greenpeace collabora con agricoltori e comunità rurali.

venerdì 20 maggio 2016

Così stiamo divorando il suolo italiano - Davide Mancino

Maggiori emissioni di gas serra, perdita di biodiversità, scomparsa di una risorsa non rinnovabile: quella del consumo di suolo è tutt'altro che una questione estetica. Eppure esistono città, in Italia, in cui si può girare per tutto il tempo senza trovare un minimo di spazio libero – non occupato dall'uomo e dalle sue attività. Per questo è un significativo passo in vanti la legge contro il consumo di suolo che è stata approvata dalla Camera con 256 sì, 140 no e 4 astenuti. Per la prima volta si fissa un obiettivo molto avanzato: azzerare la cementificazione entro il 2050.

Secondo dati resi disponibili dall'istituto superiore per la ricerca e la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Torino è la grande città con la maggiore fetta di suolo consumato (57,6 percento), seguita a brevissima distanza da Napoli. Anche a Milano risultano numeri simili, mentre fra i centri principali Roma si trova assai più in basso (20 percento).

Eppure i valori più elevati non sono affatto in queste città. Al contrario, in diversi piccoli comuni trovare uno spazio non edificato è quasi impossibile. Che sia a Casavatore – 18mila abitanti appena a nord di Napoli – oppure a Melito o Arzano, ancora nel napoletano, la situazione non cambia troppo: lì il consumo di suolo supera il 75 percento, e proprio a Casavatore – record italiano – tocca un picco dell'85 percento.
Cosa significa, in pratica, "consumo di suolo"? Ispra lo definisce come "l'occupazione di una superficie in origine agricola o naturale", un processo dovuto soprattutto alla "costruzione di nuovi edifici, capannoni e insediamenti, all'espansione delle città". Oppure, altro caso, alla conversione di terreno in un'area urbana: come per esempio è successo a Milano nell'area dedicata a Expo.

"Oltre alla scomparsa di una risorsa non rinnovabile" – spiega Michele Munafò, ricercatore dell'Ispra – "il problema è la perdita delle funzioni che essa ci assicura. In primo luogo la produzione agricola, con tutta una serie di servizi di regolazione dei cicli naturali come quello delle acque. Se il suolo viene sigillato questa capacità va persa, e aumenta per esempio il rischio di inondazione. Scompare anche il supporto alla biodiversità. Direttamente, perché sappiamo molto poco di quanta ce ne sia del suolo anche se possiamo stimare che un quarto delle specie del pianeta viva sotto terra. Ma anche indirettamente, perché trasformandolo abbiamo un impatto anche sulle aree dove il suolo non è consumato in maniera diretta".

Il terreno, poi, è in grado di contenere il carbonio – molto più dell'atmosfera stessa – ma solo a condizione che non venga occupato artificialmente. "Abbiamo stimato", continua Munafò, "che negli ultimi cinque anni il suolo consumato dalle nuove costruzioni e infrastrutture ha portato a una perdita equivalente alle emissioni di CO2 di quattro milioni di auto. Come se ci fosse il 10 percento di veicoli in più che gira per le strade"...

giovedì 19 maggio 2016

paleocene, eocene, antropocene o telocene, l’era geologica della fine – bortocal


le notizie piu` importanti si trovano, in qualche angolino dei media.
sono mezze nascoste, perché fanno paura.
La NASA comunica per il settimo mese consecutivo che il mese appena passato e` il piu` caldo da quando si misurano le temperature globali del pianeta.
ripassare gli annunci e` impressionante, scelgo a caso:
Clima, Omm: il 2015 è lʼanno più caldo di sempre
INVERNO SALTATO  Clima, Nasa: “Gennaio 2016 più caldo di sempre”
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in questo momento in Italia ce ne accorgiamo di meno
(nella mia casa a 750 metri di altezza nelle Prealpi al momento ho 13 gradi)
ma per un motivo molto semplice, questo:



come si vede dall’immagine, sull’Atlantico settentrionale le temperature nell’aprile 2016 sono piu` fredde di un grado che nel 1951.
e questo spiega anche le ondate di freddo e maltempo che in questi giorni arrivano da ovest a raffreddare le nostre giornate.
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ma anche questo era previsto e risulta comprensibile:
l’aumento globale delle temperature ha come effetto locale il graduale spegnimento della Corrente del Golfo, che da sempre manteneva l’Europa piu` calda di quanto normalmente dovuto alla sua latitudine.
e dunque, provvisoriamente, abbiamo aumenti di temepratura minori, anzi addirittura temperature relativamente piu` fredde in Europa, soprattutto in questa stagione.
la Corrente del Golfo riscaldava le acque dell’oceano piu` vicino a noi,
mentre oggi invece la corrente del golfo si arresta a meta` Atlantico, come sempre si vede dall’immagine.
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bando agli effetti locali, dunque.
Aprile ha fatto segnare un record (il settimo consecutivo) di temperatura.
I dati rilevati dalla Nasa indicano che il 2016 sarà l’anno più caldo mai registrato e probabilmente con ampio margine.
Il primato dello scorso mese batte quello precedente del 2010 di 0.24 gradi centigradi ed è superiore di 0.87 rispetto alla media di aprile.
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“Se queste temperature sono in parte causate dal fenomeno del Nino, il fattore determinante è il riscaldamento globlale dovuto all’effetto serra.
I climatologi lanciano avvertimenti almeno dagli anni Ottanta.
Ed è tutto ormai assolutamente scontato dal 2000 in poi.
Quindi perché sorprendersi?”
Secondo Andy Pitman, direttore dell’Arc Centre of Excellence for Climate System Science dell’Università australiana del New South Wales, gli ultimi dati mettono in serio dubbio l’obiettivo fissato dalla COP21 di Parigi.
(come dice anche questo blog da tempi non sospetti)
“L’obiettivo di 1.5 gradi è solo un pio desiderio.
Non so neppure se riusciremo a raggiungere 1.5 gradi se anche si bloccassero oggi stesso tutte le emissioni.
C’è una forte inerzia nel sistema”.
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trovo altrove altri dati, da combinare con questi, basta poco.
(e sono quelli che danno il titolo al post).
56 milioni di anni fa la Terra venne colpita dalla peggiore catastrofe climatica prima di quella attuale.
viene chiamata Massimo termico del Paleocene-Eocene e segna appunto il passaggio da un’era geologica all’altra, dal Paleocene all’Eocene.
dal mondo degli animali antichi a quello degli animali moderni.
Un improvviso aumento dell’anidiride carbonica (forse rilasciata da giacimenti sottomarini per un aumento delle temperature degli oceani) fece alzare le temperature del pianeta di 5 gradi.
questo porto` all’estinzione di molte specie e alla sopravvivenza di alcune altre, che andarono poi gradualmente a ripopolare il pianeta, quando le temperature tornarono a normalizzarsi.
lo studio dei sedimenti al largo del New Jarsey e degli isotopi del carbonio e dell’ossigeno ha permesso di quantificare meglio il fenomeno, secondo una ricerca appena pubblicata su Nature Geo-Science.
Allora le emissioni di Co2 nell’atmosfera erano di un miliardo di tonnellate l’anno e durarono per 4.000 anni.
la CO2 provoco` l’aumento delle temperature.
ma forse un aumento delle temperature, dovuto ad altre cause, provoco` a sua volta l’aumento delle temperature…
difficile trovare in natura rapporti di semplice causa ed effetto, esistono anche i meccnaismi di feedback.
in ogni caso: 4.000 miliardi di tonnellate di CO2 distribuiti in 4.000 anni.
e un aumento devastante medio di 5 gradi delle temperature del pianeta.
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guardiamo all’oggi, adesso.
attualmente stiamo riversando nell’atmosfera 10 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno.
cioe` ogni anno 10 volte l’anidride carbonica di 65 milioni di anni fa.
e senza considerare il metano e altri gas serra ancora piu` pericolosi della CO2.
da quanto lo stiamo facendo?
diciamo da 100 anni, per semplificare?
allora abbiamo gia` raggiunto il 25% dell’obiettivo di 65 milioni di anni fa.
ma molto piu` in fretta.
l’aumento di 1,5 gradi di temperatura e` gia` garantito.
anzi, e` gia` stato realizzato e superato.
e non c’e` proprio neppure l’ombra di nessun motivo ragionevole per cui debba fermarsi.
anche considerando che stiamo continuando a immettere CO2 nell’atmosfera allo stesso ritmo.
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da qualche tempo chiamiamo l’epoca attuale antropocene.
la consideriamo una nuova era geologica, perche` e` gia` in corso la piu` spettacolare estinzione di massa delle specie viventi della storia della Terra.
e la chiamiamo proprio cosi`, antrocene, l’era geologica dell’uomo, perche` il protagonista indiscusso di questo sterminio e` l’essere umano.
indiscutibilmente, ma non so come, il futuro dovra` cambiare la definizione di questa nuova epoca geologica che viene fatta iniziare dal 1950.
perche` indiscutibilmente la specie umana sparira` dal pianeta nel giro di pochissime generazioni, forse soltanto di qualche decennio.
e dunque sara` ridicolo chiamare antropocene una nuova era geologica della Terra dove l’essere umano non esistera` piu`.
chiamiamola telocene, piuttosto: l’era geologica della fine (telos, in greco).
stanno gia` scorrendo in sala i titoli di coda, non vedete?
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la cosa e`certa, non e` una fantasia.
possiamo provare a ritirarci sulle montagne per sopravvivere un poco di piu`, almeno individualmente.
ma qui fra meno di cent’anni ci saranno comunque le temperature del centro del Sahara.
arbusti, insetti e forse serpenti, niente di piu`.
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chi mi legge di solito ha questo punto ridacchia.
a volte arrivano anche commenti stupidi: bene, cosi` risparmio il riscaldamento…
sono risate nervose, lo sappiamo io e te.
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nella categoria delle idiozie tranquillizzanti metteteci pure anche questa intervista che adesso copio e incollo.
buonismo generico, ottimismo un tanto al chilo.
e` uno dei massimi studiosi del clima, dice l’intervistatore.
pero` l’unica cosa che manca in queste previsioni scritte apposta per tenere tutti tranquilli, sono i dati quantitativi visti sopra.
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siamo nel pieno di una catastrofe planetaria.
il tempo per riuscire a salvarsi e` passato.
forse sara` bene rendersene conto, giusto per organizzare al meno peggio i tempi e i modi personali della fine.
io ai miei discendenti lascio una casa e un pezzo di terra a mezza montagna.
vedo che le patate crescono molto bene qui.
e penso che potrebbero farlo ancora per un po’.
e adesso esco a farmi una passeggiata sui monti, per oggi il mio dovere l’ho fatto.
pace a voi.
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ecco l’intervista:
L’ecologo Rockström: “Le nostre chances di salvare la Terra? Il 50%”
Intervista allo studioso svedese: “Nei prossimi 10-15 anni si gioca la partita per salvare noi e il pianeta”

RUDI BRESSA

È uno dei massimi esperti dei temi legati alla sostenibilità e alla resilienza dei sistemi ecologici del pianeta.
Nel suo nuovo libro Grande mondo, piccolo pianeta(Edizioni Ambiente), Johan Rockström, direttore dello Stockholm Resilience Centre, spiega come l’umanità abbia raggiunto il punto in cui il pianeta non è più in grado di compensare il nostro impatto senza conseguenze.
Ma c’è ancora spazio per una crescita prospera, a patto di scegliere la sostenibilità come modello.
Il suo ultimo libro è una sorta di sintesi degli studi condotti finora?
«Sì. Diciamo che si tratta del riassunto di decine di anni di ricerche scientifiche su quelle che chiamiamo Earth system sciences (Scienze del sistema terrestre, ndr), le discipline che studiano come il pianeta opera e che misurano il nostro impatto su di esso. Queste ricerche, portate avanti da me ma anche da altri scienziati che collaborano col mio centro, ci hanno fornito la prova fondamentale del fatto che abbiamo voltato pagina. Siamo passati da un piccolo mondo e un grande pianeta – quando avevamo un impatto limitato sulla Terra – ad uno in cui l’umanità ha raggiunto il limite della capacità della Terra di rispondere alla pressione antropica senza conseguenze catastrofiche».
Nel libro usa il termine “”Antropocene. Come influirà quest’epoca sulla società e sul futuro del pianeta?
«Io credo che l’Antropocene sia un punto di svolta per l’umanità. La scienza oggi è d’accordo nell’affermare che siamo entrati in quest’era negli anni ’50 del XX° secolo. Sono passati circa 60 anni ormai ma, nonostante la nostra crescita non sia stata sostenibile, nei primi 40 anni questo modello insostenibile ha portato una crescita considerevole e un benessere diffuso per tutta l’umanità. Il pianeta aveva così una tale resilienza, una tanto enorme capacità di assorbire abuso e stress, che non si sono a lungo viste le conseguenze».
Ora però abbiamo raggiunto il limite.
«Dobbiamo comprendere una volta per tutte che quel vecchio modello ha portato un relativo benessere economico, ma ha consumato e inquinato il pianeta. È un modello che non funziona più. Ora il pianeta ci sta mandando il conto. Dobbiamo cambiare logica e capire che se vogliamo che l’umanità continui a prosperare ovunque, dobbiamo seguire una strada di sviluppo sostenibile globale».
Questo cosa significa davvero?
«Significa un cambiamento drastico. Se vogliamo restare all’interno di una zona di sicurezza, dovremmo condividere la quantità di CO2 che possiamo ancora emettere e la quantità di combustibili fossili o di acqua dolce che possiamo consumare con un numero sempre maggiore di persone. Dovremo perciò cambiare il modo in cui pensiamo lo sviluppo economico. Il punto fondamentale è che avere dei limiti, dei confini, non significa bloccare lo sviluppo. La sostenibilità ci può aiutare a fare passi da gigante, producendo tecnologia, buon cibo, buona energia. E lo possiamo fare in maniera sostenibile. Non si tratta di tornare indietro, ma di entrare in un’era nuova per l’umanità».
Come si immagina il pianeta tra 20 o 50 anni?
«Sono ottimista. Ma non nascondo di essere molto preoccupato: potremmo non fare in tempo. Il 2015, spero, è stato l’anno della svolta. È l’anno in cui i leader dei Paesi di tutto il mondo hanno adottato gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDG, ndr). E poi c’è stata la COP 21 a Parigi, dove si è deciso di decarbonizzare l’economia il più velocemente possibile. La questione è: saremo abbastanza rapidi nell’evitare il punto di non ritorno? Io penso che abbiamo un 50 per cento di possibilità di farcela, e un 50 per cento di fallire. Tutto sarà deciso da quello che faremo nei prossimi 10-15 anni».
da qui