martedì 31 maggio 2016

Harambe e il nostro delirio antropocentrico - Rita (http://www.ildolcedomani.com/)




Sembra proprio che sui social e sui media sia difficile elaborare un pensiero che non vada oltre una faziosità tipica da stadio, eppure, sulla vicenda di Harambe, credo che ci si debba sforzare di fare qualche considerazione in più perché è paradigmatica non solo del nostro rapporto con gli altri animali, ma anche della rappresentazione di noi stessi in quanto presunta specie eletta la cui sacralità dei singoli non deve essere messa in discussione.  
Innanzitutto, non bisogna smettere di ripetere quanto gli zoo e altre strutture che imprigionano gli animali siano da bandire totalmente. Si tratta di luoghi intrisi di violenza sia sul piano pratico, che su quello simbolico e rappresentativo. Pratico, perché tenere in gabbia (o anche in recinti più ampi, poco importa) individui appartenenti a specie che necessitano di esprimere ben altre esigenze etologiche (correre, arrampicarsi sugli alberi, socializzare, sperimentare il mondo con tutta la varietà di stimoli che offre, predare ecc.) è una forma di violenza immane. Significa in pratica castrare, mutilare, dominare, impedire a qualcuno di essere e di stare nel suo mondo. 
Sul piano rappresentativo, quindi del significante, si tratta di un’altrettanta forma di violenza dalle numerose sfaccettature: innanzitutto si trasmette ai bambini l’idea che la nostra specie possa impunemente controllare e imprigionare altri animali, quindi l’antropocentrismo in una delle sue manifestazioni peggiori, secondo poi li si espone a un rapporto tra soggetto che guarda e soggetti guardati che non è paritario, non è relazionale, ma è anzi, oltre che di dominio, spesso di scherno e denigrazione. Tra gli zoo moderni e quelli ottocenteschi non vi è nessuna differenza. Si possono chiamare “bioparco” quanto volete, ma le parole in questo caso sono solo orpelli per nulla aderenti alla realtà che vorrebbero indicare in quanto si tratta sempre della medesima struttura in cui c’è appunto un osservante che dall’alto della sua presunta posizione di superiorità osserva altri individui considerandoli fenomeni da baraccone. E non può essere altrimenti perché altro non si può imparare. Cosa si può sapere infatti del leone sedato e privato della possibilità di esprimere quelle che sarebbero le sue caratteristiche di specie? 
Mi è capitato spesso, guardando dei video girati dai visitatori di zoo e strutture simili, assistere a risate di scherno e azioni di disturbo nei confronti degli animali imprigionati. Ragazzotti che si sentono superiori e più intelligenti che fanno il verso ai loro cugini primati, deridendoli e facendoli arrabbiare, senza minimamente capire che l’uso della parola, anziché del linguaggio gestuale e del corpo, non fa di noi una specie superiore, ma solo diversa. Assistere a tali manifestazioni di dominio è avvilente ed è la prova non della nostra presunta superiorità e intelligenza, ma semmai della nostra incapacità di guardare oltre l'orizzonte del nostro naso. 
La questione Harambe è paradigmatica anche per un altro verso: la sua vicenda ricorda molto da vicino quella cinematografica di King Kong. Un gorilla viene estirpato dal proprio habitat e portato nel nostro al solo fine di trarne profitto economico. Poi, incapaci di gestirne la natura selvatica, viene ucciso. Doppio danno: l’essere stato dapprima privato della sua libertà – che è già una prima morte psicologica – e poi materialmente privato della vita. In questo, come in tanti casi reali, si assiste alla tragedia di un individuo che deve pagare con la sua vita per errori tutti umani. E ci sarebbe anche molto da dire sulla maniera in cui, dal momento in cui ci siamo tirati fuori dalla natura, cui continuiamo però ad appartenere in quanto animali, abbiamo iniziato a temere e stigmatizzare ogni comportamento che non appartenga (spesso a torto) al rango della razionalità. Quel che si teme è la propria animalità (Freud direbbe che la civiltà è soppressione degli istinti), quel che si mette in atto è una rimozione della nostra natura animale, quel che inconsciamente manifestiamo è la distruzione dell'animale per meglio esaltare la nostra presunta umanità (ossia la costruzione culturale e fittizia che abbiam fatto di essa)*. Inoltre, tutto ciò che riguarda il nostro comportamento viene sempre definito razionale, ossia avente una motivazione logica e intelligibile, mentre tutto ciò che fanno gli altri animali è imputabile al mero istinto. Pure qui si tratta di una pura distinzione ideologica: perché mai se una donna protegge il proprio figlio dovrebbe essere un comportamento logico mentre se lo stesso fa un'orsa viene definito bruto istinto? 
Paradigmatico anche il modo in cui i media hanno trattato la vicenda, a cominciare dalla terminologia usata: Harambe, è un esemplare appartenente a una specie in via d’estinzione, mentre il bambino è IL bambino, la cui vita è considerata sacra a prescindere (anche secondo le parole dell’etologo Alleva). Ecco, stupisce constatare quanto persino un etologo, che dovrebbe conoscere Darwin, ancora faccia questa distinzione ontologica tra animali da una parte, in cui vi sono esemplari intercambiabili, quindi sostituibili e gli umani dall’altra, in cui vi sono invece individui unici, portatori di una irripetibile singolarità che non può essere ridotta a qualsivoglia classificazione tassonomica. 
Eppure sarebbe bastato abbandonare questa ormai obsoleta prospettiva antropocentrica per capire che tanto Harambe, quanto il bambino, erano soggetti unici di una vita e che la vita non è sacra a prescindere, ma lo è proprio in quanto irripetibile per ognuno. Ecco, dicevo, sarebbe bastato questo leggero spostamento di prospettiva per riflettere meglio sul da farsi e per cercare una soluzione che non si imponesse come scelta tra uno o l’altro, ma come rispettosa di entrambi.
Forse una soluzione diversa davvero non c’era (la sedazione poteva essere pericolosa perché non si sarebbe potuta prevedere la reazione immediata del gorilla?), ma quel che duole è constatare come non la si sia nemmeno cercata e senza pensarci due volte si sia preferito uccidere l’animale non umano: per una petizione di principio, per una impostazione solamente ideologica. Detto in altre parole: per pura ignoranza e miopia. 
Ed è stato così per Alexandre, il giraffino fuggito dal circo alcuni anni fa, per Daniza, l’orsa, rea di aver difeso i suoi cuccioli e per chiunque sia escluso dall’appartenenza al regno superiore dell’umano. 

Che questa vicenda ci faccia riflettere: sul nostro falso concetto di umanità costituitosi respingendo da noi l'animalità e su queste strutture lager che continuiamo a finanziare danneggiando migliaia di individui e avvilendo anche la nostra intelligenza perché, davvero, potremmo essere migliori di quanto siamo.

*citazione da un mio precente articolo "Chi ha paura degli animali?"

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