giovedì 30 agosto 2018

La Gronda. Dalla padella alla brace - Guido Viale



Ai sostenitori “senza se e senza ma” delle Grandi opere, che nel crollo del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una «Grande opera»: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e pericolosa per la vita e la salute di tutti. L’idea di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il traffico del turismo automobilistico della Riviera di Levante, così come il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente, negli anni “gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati, lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia (principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico. Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi, cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le spetta.
Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione delle case sottostanti. E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande “esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.
Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere (le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché necessaria, manutenzione.
No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato) lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da non più del 20 per cento del suo traffico… Non c’è esempio che spieghi meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado incontrollato: lo stesso vale per il Tav(Torino Lione, ma anche Genova-Tortona), il Mose; la Brebemi (che vuol dire Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto (altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante opportunità di creare lavoro finalmente utile.
E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso, dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta: da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo. Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo; mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono, saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire, che alla Gronda, da non realizzare.

mercoledì 29 agosto 2018

Asini, cinesi e affari nel Sahel - Mauro Armanino



Nel Sahel sono considerati come i più fedeli amici dell’uomo. Gli asini costituiscono un insostituibile mezzo di locomozione e di trasporto. Nella capitale Niamey, per esempio, hanno un ruolo di primo piano per regolare il traffico e le mercanzie. Persino le numerose fuori strada d’occasione o di contrabbando libico si fermano al loro studiato cambio di corsia. D’abitudine il conducente è seduto sull’animale e con un bastone ritma la direzione e il trotto dell’animale.
Portano in giro quanto costituisce l’economia reale del Paese. Legna da ardere, fieno per i capri che saranno presto sacrificati, bidoni d’acqua popolare, immondizie da gettare da un’altra parte e mobili per il trasloco nell’altro quartiere della città. Occasionalmente si impuntano nel mezzo dell’arteria principale della capitale e non si smuovono finchè la loro sovrana volontà non lo decide: a nulla valgono i bastoni, i calci, le spinte e le esortazioni. Offrono una resistenza degna di miglior sorte al potere del padrone. Il bello è che persino i bambini, senza nessuna licenza uficiale, sono al comando delle briglie e del carretto in legno o metallico, che li porta in giro. Con consumata perizia ammaestrano gli asini così come vedono fare dai grandi: a colpi di bastone.
Non sanno di avere gli anni contati. A meno di un cambiamento radicale di legislazione e di costumi gli asini sono in fase di decimazione. I cinesi hanno scoperto che la loro pelle nasconde innumerevoli proprietà magiche e terapeutiche. Asini e giraffe, assieme a rinoceronti, pangolini e zanne di elefante, sono ambito bersaglio dei bracconieri. Ridotto in polvere, ognuno a suo modo, è reputato per combattere la vecchiaia, l’aids e per risorgere appetiti che con gli anni tendono ad assopirsi.
L’asino non è ancora, nel Sahel, una specie in estinzione anche perché alcuni Paesi, e tra questi il Niger, hanno creato una legislazione che ne proibisce l’esportazione. Tutta la ricchezza dell’animale sta nella sua pelle. Anche l’ultimo dei capitalisti di questo mondo ciò l’aveva ben capito e applicato da tempo anche su esseri umani. Non casulmente, ad esempio nel vicino Burkina Faso, il furto di asini si è moltiplicato, à causa del prezzo, rendendo necessaria la costruzione di steccati protettivi. Dunque la Cina, dopo aver decimato gli asini in patria cerca altrove, in Africa nella fattispecie, quanto è carente nell’Impero di Mezzo. In Africa, per la Cina c’è di tutto e di più. Petrolio, rame, cobalto, uranio, bauxite, metalli e terre rare esportate per migliaia di tonnellate. E adesso anche pelli di asini.
Gli asini di Niamey ancora non lo sanno. Agli occhi dei cinesi sono preziosi come non mai nella loro millenaria storia. Asini di qualità e compagni per la pelle, perché in economia non ci sono amici ma solo complici o al più concorrenti. Nel Niger, a suo modo strategico, i cinesi sono i protagonisti riconosciuti del commercio e degli investimenti nelle strutture del Paese. Si sa, a parte gli asini, fuori della Cina non c’è salvezza. Sono operanti una trentina di imprese cinesi nel settore del petrolio, della telecomunicazione, dei lavori pubblici e nell’ambito degli hotel di lusso. Il Soluxe Hotel Niamey accoglie clienti dall’aprile del 2015 e comprende un centro commerciale e un complesso sportivo. E’ il primo hotel a cinque stelle del Niger, in grado di soddisfare le domande dei vari tipi di clientela.
Gli asini naturalmente non hanno accesso né all’hotel né agli impianti sportivi e, d’altra parte, non aspirano a farlo. La gente sa bene che i vestiti, gli utensili e buona parte dei prodotti cinesi non dura molto più di un paio di settimane a farla grossa. C’è però lo stadio nazionale, il terzo ponte, la diga che dovrebbe essere completata nel 2020 e infine gli asini la cui pelle darà a suo tempo lunga vita alla popolazione cinese abbiente.
In città gli asini viaggiano spesso in fila indiana. Per avere più visibilità e forza contrattuale attraversano la strada in gruppo. A volte, di notte, l’ultimo carro della fila porta un triangolo da sosta che brilla coi fari delle macchine che la sorpassano. Non mancano asini che resistono ad ogni tentativo di sfruttamento e, da veri proletari, vendono cara la pelle.

sabato 25 agosto 2018

La morte dei braccianti riguarda tutti noi consumatori - Stefano Liberti



I due tragici incidenti sulle strade della Capitanata, in cui sono morti sedici lavoratori in tre giorni, riporta agli onori delle cronache il tema del lavoro in agricoltura e delle condizioni in cui si svolge, spesso demandato a eserciti di braccianti stranieri pagati a cottimo e in balia della piaga del caporalato.
La raccolta del pomodoro – ma ancor di più quella dei finocchi, degli asparagi, dei broccoli – è affidata a questi lavoratori, che si muovono su furgoni scalcinati guidati da caporali o caposquadra lungo le strade del foggiano in cerca di un impiego a giornata.
La legge contro il caporalato del 2016 ha avuto l’indubbio merito di portare la questione all’attenzione dell’opinione pubblica e di svolgere un’azione deterrente su quegli imprenditori agricoli che sfruttavano i braccianti. Ma è rimasta largamente inapplicata sulle azioni da intraprendere per arginare veramente il fenomeno. Se non si prevedono alloggi per i braccianti stagionali e trasporti verso i campi, se non si mette in piedi un approccio in cui la domanda e l’offerta di lavoro siano regolamentate, se non si riformano i centri per l’impiego del tutto non funzionanti, i lavoratori continueranno a vivere nei cosiddetti ghetti e a muoversi su furgoncini malridotti, insicuri e gestiti in parte dai caporali.
Il caporalato è un effetto della mancata organizzazione, non una causa. È un meccanismo di intermediazione informale che prospera grazie all’assenza di un sistema di organizzazione del lavoro in agricoltura.
C’è poi un altro tema che riguarda tutti noi nella nostra quotidianità: quello del cibo a basso costo. Il pomodoro raccolto a mano dai braccianti morti nei giorni scorsi finisce nelle passate che sono poi vendute a prezzi irrisori nei supermercati. Molte insegne della grande distribuzione organizzata (Gdo) operano un’azione di strozzamento e di riduzione dei prezzi che non può non ripercuotersi sugli anelli a monte della filiera.
I contratti capestro, le aste online al doppio ribasso, i listing fee e le altre pratiche sleali della Gdo hanno effetti devastanti sugli operatori agricoli, che non riescono a far reddito e di conseguenza cercano di tagliare i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro.
Rispondendo sul sito di settore Gdoweek alla nostra inchiesta sulle aste online del pomodoro, il gruppo Eurospin ha sostenuto che “il mercato è cattivo” e che loro devono fare l’interesse del consumatore.
L’interesse del consumatore deve essere anche quello di sostenere attivamente una filiera agroalimentare sana, senza sfruttamento. In cui i diversi attori – i braccianti, gli operatori agricoli, gli industriali trasformatori – riescano tutti a vivere dignitosamente del proprio lavoro. Perché quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando.

mercoledì 22 agosto 2018

Studio con fondi pubblici sui tagli nel Marganai affidato a chi li ha effettuati – Pablo Sole





Senza scomodare Nostradamus, intuire dove andrà a parare l’indagine sulla “Sostenibilità ambientale e socio-economica” delle attività di ceduazione nel Marganai – finanziata dalla Regione con 150mila euro – è impresa abbastanza semplice: basta scorrere la lista dei soggetti promotori e degli esperti coinvolti. I quali, va detto chiaramente, sono tutti di apprezzabilissima levatura professionale. Ma – come vedremo – hanno rapporti molto stretti con chi, nel Marganai, ha già tagliato a raso 33 ettari di lecceta prima che la Sovrintendenza ai Beni paesaggistici di Cagliari guidata da Fausto Martino fermasse i lavori perché nessuno aveva chiesto l’imprescindibile autorizzazione paesaggistica. Rapporti che, bisogna dare atto di questa trasparenza, i vari protagonisti non nascondono affatto. Basti dire che il progetto dell’indagine finanziata dalla Regione a valere sul Progetto Sulcis è stato presentato lo scorso marzo nell’agriturismo Perda Niedda, struttura è gestita dalla cooperativa Agricola mediterranea ’94, che è presieduta da Giuseppe Vargiu, uno dei quattro condannati per i tagli abusivi. Si tratta infatti della coop che ha materialmente eseguito l’attività di ceduazione. Presente all’incontro (come si vede dalle foto pubblicate su progettomarganai.it) anche un altro condannato, Marcello Airi, in forza a Forestas. Mancavano l’allora dg di Forestas Antonio Casula e la collega Marisa Cadoni, gli altri due destinatari del decreto penale di condanna emesso a fine gennaio dal giudice di Cagliari Giovanni Massidda dopo un esposto di Italia Nostra. 
Motoseghe, autorizzazioni e “comitati scientifici” super partes
Intanto va ricordato che se associazioni ambientaliste come il Gruppo di intervento giuridico e Italia Nostra non avessero acceso i riflettori sul caso e se non fosse arrivato lo stop della Sovrintendenza – cui sono seguite, appunto, quattro condanne penali – nei piani di Forestas 550 ettari di lecceta sarebbero finiti in pellet e legna da ardere. Lo prevedeva il Piano di gestione stilato dalle società aretine Dream e Rdm su incarico dell’agenzia regionale. Un intervento che l’amministratore unico di Forestas, Giuseppe Pulina, ha sempre difeso, criticando severamente qualsiasi oppositore all’attività di ceduazione. Un qualche spiraglio si aprì quando nell’ottobre del 2015 i militanti di Liberu manifestarono sotto gli uffici cagliaritani dell’assessorato all’Ambiente. “Il commissario (Pulina, ndr) ci ha assicurato che sarà istituito un comitato di valutazione, composto da esperti a favore ed esperti contrari ai tagli della lecceta”, dichiarò il leader di Liberu Pierfranco Devias. In effetti, a distanza di tre anni, il “comitato” – nella forma del progetto di indagine finanziato dalla Regione e nelle scelta degli esperti – è arrivato. Ed ecco come è composto. A promuovere il “Progetto Marganai” è il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari, che oggi conta tra i dottorandi l’ex dg di Forestas Antonio Casula (qui la storia completa) il quale, dopo la condanna per i tagli abusivi nel Marganai, è stato anche promosso dalla giunta regionale a comandante del Corpo forestale. Sempre al Dipartimento di Agraria di Sassari, l’amministratore unico di Forestas Giuseppe Pulina è titolare della cattedra di Zootecnica. Tra i colleghi, anche l’attuale assessore all’Ambiente (favorevole ai tagli nel Marganai) Donatella Spano.
A presentare il progetto in Regione e ottenere il finanziamento di 150mila euro è stato il ricercatore del Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari Filippo Giadrossich, docente al corso di laurea in Scienze forestali e ambientali a Nuoro, gemmazione dell’ateneo turritano. È il medesimo percorso seguito da un altro componete, Roberto Scotti,“animatore della Nuoro Forestry School, Centro di studi del Dipartimento di Agraria” di Sassari. Che compare nella lista dei consulenti delle società aretine Dream e Rdm, promotrici, come detto, del taglio a raso nei 550 ettari del Marganai. Va da sé che la posizione del docente in merito alla ceduazione non è certo un mistero. D’altra parte, lo stesso Dipartimento di Agraria ha contribuito attivamente alla stesura finale del Piano di gestione che prevede la ceduazione del Marganai.
Né dovrebbe essere ostile ai tagli al Marganai, l’esperto cooptato dall’università sassarese per l’allestimento di “una struttura mobile per la misura dell’erosione con simulatore di pioggia”. Dopo una procedura comparativa per titoli, la scelta è caduta su Enrico Guastini su decreto del direttore del Dipartimento di Agraria Antonio Pazzona, già vicario di Pulina quando quest’ultimo fu nominato a Forestas. Guastini, laureato in Agraria a Firenze nel 2009, ha conseguito il tirocinio nel 2006. Con la Dream, dice il curriculum. E ad oggi la società aretina risulta essere stata l’unica committente del professionista.
Ancora, del Progetto di indagine fanno parte anche i borsisti Sergio Campus, Antonio Ganga e Irene Piredda. Non risulta che si siano mai pronunciati sui tagli al Marganai. Risulta, però, che sono soci fondatori di Elighes srl, spin-off dell’Università di Sassari nato nelle aule del Dipartimento di Agraria. In particolare, Elighes si occupa di consulenza e supporto tecnico-scientifico nel campo della selvicoltura. Motto della società: “Il bosco, piano piano, si riprende…”. Alla “consegna” delle borse, l’8 maggio scorso nella sede dell’ateneo nuorese, anche l’amministratore di Forestas Pulina, posta la stretta collaborazione tra l’agenzia regionale e UniNuoro. “La notizia – ha dichiarato alla testata L’Ortobene – è che scardiniamo il luogo comune per cui la didattica nelle sedi gemmate e staccate si organizza con docenti “da esportazione”. È una sfida, ma li formiamo qui, dando vita a Nuoro al polo permanente di ricerca”. Tra i corsi da attivare in partenariato con l’ateneo barbaricino, scrive sempre L’Ortobene, quello per “motoseghisti”.
Nel team, come riporta il sito dell’Università di Sassari, c’è anche Raffaella Lovreglio. Ricercatrice del Dipartimento di Agraria, ha curato uno studio sulla ceduazione nel Marganai firmato da una studentessa dell’ateneo e presentato proprio al battesimo del “Progetto Marganai”, nell’agriturismo Perda Niedda. Illuminanti, in particolare, alcuni passaggi laddove si legge che il ripristino del governo a ceduo nel Marganai fortemente voluto da Forestas “ha due punti di forza principali: l’aumento della biodiversità” e il “recupero di uno dei paesaggi storici della foresta del Marganai, che trasforma il cupo paesaggio del bosco senescente, in un bosco vigoroso e ricco di colori”. Per essere ancora più espliciti, si sottolinea che “il Piano di gestione” di Forestas ha l’obiettivo di “esaltare le attività produttive del bosco oramai abbandonate”. Nel lungo peana pro-tagli, la memoria delle condanne pare essersi dissolta.
Tra gli esperti anche Piero Piussi, professionista di fama internazionale, docente di Ecologia forestale e selvicoltura all’Università di Firenze dal 1980 al 2008, che già si era occupato dei tagli nel Marganai nel 2015: dopo una mattinata di sopralluoghi in compagnia dei tecnici di Forestas, il giudizio era stato in larga parte positivo. Va pure detto che un altro esperto di fama internazionale, Angelo Aru, che da anni studia la zona di Monte Linas-Marganai, ha sempre sostenuto il contrario, parlando di interventi “nefasti”, mentre il vicepresidente dell’Accademia di Scienze forestali Raffaello Gianniniha messo in guardia sul rischio desertificazione. 
Le parole sono importanti
Infine ci sono i responsabili della comunicazione del progetto, Paolo Mori e Luigi Torregiani, della società Compagnia delle foreste, con sede ad Arezzo. Laureati in Scienze forestali, giornalisti pubblicisti e animatori della rivista Sherwood, vantano costanti collaborazioni con la Dream e, tra i vari interventi seguiti c’è anche “Future for coppices” – letteralmente: futuro per i cedui – progetto sulle attività di ceduazione di cui Forestas è partner insieme con il Crea di Arezzo guidato da Piermaria Coronaaltro consulente della Dream per i tagli nella lecceta sulcitana. Non si sa quanto volontariamente, ma al momento la comunicazione curata dalla Compagnia delle foreste non ha fatto nulla per nascondere l’orientamento di partenza del progetto. Che sarebbe “il tentativo di uscire dalle logiche personali per portare il dibattito sul piano della conoscenza scientifica e tecnica”, dopo le polemiche “spesso fondate su ‘solide’ (testuale, ndr) opinioni. Un progetto dell’Università di Sassari punta a riportare la discussione sul piano scientifico”. Va poi ricordata una piccata lettera inviata al giornalista del Corriere Gian Antonio Stella, in cui Mori e Torregiani scambiano un reato paesaggistico per un’amnesia amministrativa e nel computo della foresta infilano pure rocce, corsi d’acqua e praterie, per dimostrare l’esiguità delle aree da ceduare.
A chiudere il cerchio, oltre al partenariato con il già citato progetto “Future for coppices”, alcune cooperative del domusnovese che lavorano e vendono legname e un’impresa con sede a Iglesias. Attività principale: commercio di pellet e legna da ardere.

martedì 21 agosto 2018

Crusca - Franco Arminio



A Crusca ora tutti puntano al centro, nessuno vuole stare in periferia. E chi si sposta al centro poi vuole stare ancora più al centro, vuole stare in piazza. E chi sta in piazza vuole stare nella casa al centro della piazza. E cosi tutti gli abitanti di Crusca stanno nella stessa casa, un poco stretti, ma felici.

lunedì 20 agosto 2018

Aumentano gli alberi, diminuiscono boschi e foreste - Gruppo d’Intervento Giuridico




Una ricerca dell’Università degli Studi del Maryland pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature afferma che dal 1982 al 2015 la superficie della Terra coperta da alberi sarebbe aumentata del 7,1%.
Ben 2,24 milioni di chilometri quadrati in più.
Tutto questo è molto bello, ma le cose, in realtà, sono un po’ più complesse.
Le piantagioni di Palme da olio e le forestazioni produttive non sono boschi e foreste, anzi spesso si sostituiscono a veri boschi e foreste.
Lo denuncia a chiare lettere la F.A.O., con il rapporto sullo Stato delle Foreste nel Mondo 2018.
Boschi e foreste, che, fra l’altro forniscono “cibo, reddito e diversità nutrizionale, i pilastri della vita umana …  per circa 250 milioni di persone”, sono fondamentali per la Terra.
L’olio di palma no.
Crescono i tagli delle foreste tropicali ed è un disastro per la Terra e i suoi abitanti, compresi i ricercatori del Maryland.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

A.N.S.A.16 agosto 2018
Superficie alberata nel mondo cresciuta del 7,1% dal 1982.   Ricerca, cali in zone tropicali superati da aumento in temperate.
ROMA – Dal 1982 al 2016 la superficie mondiale coperta da alberi è aumentata del 7,1%: +2,24 milioni di km quadrati, un’area pari a Texas ed Alaska messi insieme. La deforestazione nelle aree tropicali è stata compensata e superata dall’ampliamento delle foreste nei paesi temperati di America, Europa e Asia (dovuta all’abbandono delle colture), dalla crescita di alberi nelle zone polari (a causa del riscaldamento globale), e dai piani di riforestazione in Cina.
Lo sostiene uno studio dell’Università del Maryland, basato su foto satellitari e pubblicato dalla rivista Nature.
La copertura mondiale di alberi, nei 35 anni dal 1982 al 2016, secondo la ricerca è aumentata da 31 a 33 milioni di km quadrati. L’aumento maggiore si è verificato nelle foreste temperate continentali (+726.000 km quadrati), foreste boreali di conifere (+463.000 km2), foreste umide subtropicali (+280.000 km2), Russia (+790.000 km2), Cina (+324.000 km2) e Usa (+301.000 km2).
Le zone tropicali nello stesso periodo hanno subito le perdite di alberi maggiori: le foreste umide tropicali (-373.000 km2), le foreste pluviali tropicali (-332.000 km2) e le foreste secche tropicali (-184.000 km2). Il Brasile è il paese che ha perso più superficie alberata, -399.000 km2, più della perdita di Canada, Russia, Argentina e Paraguay messi assieme.
I ricercatori del Maryland osservano che i loro dati apparentemente contraddicono quelli della Fao, che parla di una perdita netta di foreste dal 1990 al 2015. Gli studiosi spiegano che l’agenzia alimentare dell’Onu prende in considerazione le foreste, mentre loro valutano la copertura di alberi. Le piantagioni di olio di palma o di alberi da legna per la Fao sono deforestazione, per la ricerca del Maryland sono sempre alberi.


sabato 18 agosto 2018

La resilienza contadina in Europa - Monica Di Sisto


Filiera corta: nel nostro Paese ha quasi assunto una connotazione modaiola, ma è una modalità di produzione e consumo prevalentemente alimentare che ancora sfama fino all’80% delle persone nei Paesi più poveri. Anche in Europa un cittadino su 5, secondo un sondaggio promosso da Eurobarometro nel 2016, sosteneva che bisognasse rafforzare la posizione degli agricoltori nella filiera[i] e secondo uno studio condotto dal European Parliamentary Research Service (EPRS) il 15% dei contadini europei già allora vendeva ben la metà del suo raccolto molto vicino a dove lo produceva[ii].Una necessità legata alla sopravvivenza dell’azienda, nel caso dell’agricoltura di piccola e media dimensione, la taglia d’azienda prevalente a livello globale, contrariamente a quanto comunemente si pensi. Secondo il Copa-Cogeca, l’associazione mainstream delle aziende agricole europee, gli agricoltori ricevono in media il 21% della quota del valore del prodotto agricolo mentre il 28% va ai trasformatori e fino al 51% ai dettaglianti.E’ stato il precedente programma europeo di finanziamento della Politica agricola comune (2014-2020) che per la prima volta ha introdotto tra i fondi Pac degli strumenti specifici, e nel suo rinnovo attualmente in corso c’è una forte opposizione da parte dell’industria agroalimentare nel rifinanziamento di queste opportunità. La Commissione europea, secondo quanto ha spiegato di recente Euractiv[iii], ha in mente di lasciare agli Stati membri la possibilità di progettare programmi su misura con un 15% delle loro dotazioni PAC tra pagamenti diretti e sviluppo rurale, scaricando in qualche misura ad essi la responsabilità di decidere se scommettere o meno sulla piccola dimensione. [iv]Una delle esperienze a livello europeo che potrebbe fare la differenza nella scelta degli Stati a favore di questo tipo di modelli è quella delle Csa: Comunità che Supportano l’Agricoltura che hanno superato in Europa un milione tra produttori e consumatori organizzati, in Francia le 2mila esperienze, stando ai dati più recenti raccolti dal loro network internazionale Urgency[v], in Italia come in altri Paesi europei come Belgio, Germania e Spagna sono intorno a 100 [vi]. La CSA crea un rapporto diretto tra chi produce e chi consuma, dove i soci – spesso organizzati in Gruppi d’acquisto solidale -prefinanziano e/o partecipano ai lavori agricoli e quindi fruiscono dei prodotti della terra. La CSA fa sì che produttore e consumatore condividano, così, i rischi di chi coltiva la terra, sottraendo completamente la produzione dalle logiche e dalle strettoie della grande distribuzione e del mercato convenzionale.Una delle esperienze-pilota in Italia di questa modalità di vivere la produzione agricola all’interno della comunità locale si chiama Arvaia, cooperativa agricola biologica nata nel 2013 a Bologna e strutturata come CSA[vii]. 40 ettari di terreno alle porte della città il cui raccolto di verdura, frutta, tuberi, legumi, cereali, oltre 75 varietà di ortaggi viene suddiviso tra i soci che hanno finanziato l’anno agricolo in corso.
Nel fine settimana del 23-24 giugno molte diverse CSA italiane, formate o in via di formazione, si sono incontrate presso gli spazi di Villa Bernaroli, adiacenti ai terreni di Arvaia, per confrontare le tante diverse sfaccettature in cui l’acronimo CSA ha preso corpo nei diversi territori, con lo scopo finale di creare una rete nazionale che si connetta a quella mondiale di Urgenci[viii].
E nella settimana intorno al 16 ottobre, quando la Fao celebra la Giornata mondiale dell’alimentazione, Urgenci chiamerà a raccolta molte di queste esperienze da tutta Europa per lanciare un messaggio chiaro: già oggi metà degli abitanti della terra vivono nelle città, e potrebbero arrivare al 66% entro il 2050. Se pensiamo che sarà l’industria agroalimentare a sfamarli, guardiamo a un modello che tra sprechi, impatto ambientale, impatto sociale potrebbe contribuire in modo determinante al collasso del pianeta.
Fairwatch, come coordinatore di uno dei progetti della Rete dell’economia solidale italiana, sosterrà la partecipazione di alcuni rappresentanti delle Csa italiane agli eventi di Urgency a Roma e al percorso di formazione[ix] che permetterà a queste esperienze italiane di essere sempre più integrate nella rete europea. Una forza necessaria per orientare la nuova Politica agricola comune, e i piani che ne discenderanno a livello nazionale e regionale, verso una prospettiva più sostenibile e lungimirante della produzione e del consumo di cibo.

*vicepresidente dell’Associazione Fairwatch


venerdì 17 agosto 2018

Sotto la pioggia. Le inondazioni nel Sahel - Mauro Armanino



Da queste parti lei arriva come un’intrusa. Necessaria come il pane, prevista, attesa e sperata fin dall’inizio dell’anno. La pioggia rimane una sorpresa a cui nessuno in città si abitua. Le strade, i cortili, le zone basse dei quartieri, l’unico sottopassaggio del Paese e il fiume Niger, sono impreparati a riceverla. Solo i bambini, con la consueta perizia, si avventurano a giocare partite di calcio improvvisate sotto la pioggia.
Sono i contadini per ora, invisibili ai più, che l’accolgono con riconoscenza e timore. Rischiano di seminare alla prima parvenza di acquazzone e implorano il dio incaricato di ricordarsi e provvedere la regolarità delle piogge. E’ accaduto più di una volta, infatti, che smetta di piovere e allora una seconda o terza semina sono necessarie, con gli scongiuri necessari ai nemici delle stagioni.
Sotto la pioggia è nel Sahel uno spettacolo da non perdersi per nulla al mondo. Alla prima avvisaglia di temporale si annullano riunioni importanti. I pochi automobilisti intrappolati nel traffico corrono a rifugiarsi sotto i tre cavalcavia della capitale. Le moto si parcheggiano sotto le tettoie che costeggiano le strade. I vigili spariscono coi loro cellulari sempre accesi. Non siamo soli. Inizio giugno, nella florida capitale economica della Costa d’Avorio, Abidjan, si erano registrati une ventina di morti, circa 200 i feriti e danni materiali ingenti. I giornali parlavano di immagini apocalittiche nelle zone colpite dalle inondazioni. Centinaia di botteghe sono state spazzate via in pochi minuti di pioggie torrenziali, non rare nel Paese.
Quasi ogni anno il copione si ripete, con in più gli esperti che ormai predicono, con qualche successo, le inondazioni a venire. Si attendeva infatti una stagione delle piogge particolarmente intensa. Morti e sfollati facevano parte del calcolo, accurato, degli esperti meteo che hanno stilato con perizia il rapporto in questione. La profezia annunciata si è avverata.
Nel vicino Mali forti piogge e decessi a Kaye e Naufunké, villaggi dei quali mai si sarebbe parlato senza questi disastri. Lo stesso è accaduto nel confinante Burkina Faso e non solo nella capitale Ouagadougou. Altri nomi prima sconosciuti, come quello di Gorom-Gorom, si trovano alla ribalta grazie alle piogge abbondanti. Come sempre non mancano i ministri e le prime dame che visitano e assistono gli sfollati, sotto le telecamere.
Anche il Niger, come sempre in queste circostanze, non è stato di meno. Il passato 6 agosto il governo ha annunciato il decesso di 22 persone e circa 50 mila sfollati di cui 2000 nella capitale Niamey. Nulla di troppo strano, se si pensa alle previsioni degli esperti e alla regolarità dell’accaduto. Ancora prima si lamentava nel Paese la morte di 13 persone a causa delle inondazioni. Una parvenza di guerra che, come sempre, colpisce i poveri che per vari motivi costruiscono le case in luoghi a rischio. Per loro vivere è già un rischio e dunque mettono in conto e sulla bilancia la precarietà che li accompagna nel quotidiano.

Quanto al Presidente, aveva programmato e il tempo è giunto, di rinnovare il Palazzo Presidenziale. Sarà l’Indonesia a incaricarsi dell’operazione che costerà, secondo il comunicato del vice-ministro degli Esteri indonesiano, 14 miliardi di franchi, circa 23 milioni di euro. Si tratta, infatti, di un palazzo dell’epoca coloniale che, a tutta evidenza, non è più adatto allo stile presidenziale del momento. Si tratta dell’inizio di una fruttuosa collaborazione tra i due Paesi. Nel futuro si prevedono interventi in ambito commerciale e professionale.
Il presidente dietro i vetri un po’ appannati fuma la pipa.
il presidente pensa solo agli operai sotto la pioggia.
Stanno arrivando da lontano con il futuro nella mano sotto la pioggia.
Per i vetri si può vedere ma la pipa no. Il nostro Presidente non fuma la pipa come faceva il Presidente Sandro Pertini nella nota canzone di Antonello Venditti del secolo scorso. Tantomeno pensa ai pochi e contesi operai malpagati nel Paese. Non fuma la pipa e, pur essendo dell’area socialista, crede poco agli operai col futuro nella mano. Ci sono in cambio i cinesi e tra non molto gli indonesiani che hanno promesso di terminare i lavori del palazzo in 17 mesi, tra una pioggia e l’altra.
Niamey, agosto 2018, sotto la pioggia

giovedì 16 agosto 2018

Glifosato, una sentenza storica - Giuseppe Onufrio*



La Corte della California che, in primo grado, ha condannato la Monsanto, recentemente acquisita dalla multinazionale tedesca Bayer, a risarcire con 289 milioni di dollari il giardiniere Johnson DeWayne, per aver contratto un tumore utilizzando erbicidi a base di glifosato è, per molti versi, storica. Per almeno due ordini di motivi: il primo è che per la prima volta in un’aula di tribunale viene riconosciuto che la stessa Monsanto era al corrente dei rischi per la salute umana del prodotto messo in commercio; il secondo è che le cause contro la Monsanto sono diverse e riguardano potenzialmente anche altri pesticidi a base di glifosato, accusati di contribuire a provocare il linfoma non-Hodgkin. La bayer si difende e farà appello, ma è chiaro che coloro i quali hanno sollevato le accuse di pericolosità di questi fitofarmaci, e in Italia la coalizione StopGlifosato, di cui Greenpeace fa parte, segnano un punto a loro favore.
È dunque da una Corte degli Stati Uniti che arriva questa decisione, mentre alla fine del 2017, nonostante 1,3 milioni di firme raccolte, la Commissione Europea aveva prorogato l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato per altri cinque anni.Monsanto papers – ovvero una serie di e-mail interne della Monsanto pubblicate sempre da un tribunale della California – rivelarono alcune delle tattiche utilizzate da Monsanto per ottenere valutazioni favorevoli dalle agenzie di regolamentazione.
Le email fanno intuire inoltre che Monsanto possa addirittura avere scritto direttamente documenti di carattere scientifico e pagato poi scienziati indipendenti per «editarli e firmarli col proprio nome».
Questo composto, un erbicida ampiamente utilizzato per la produzione di commodities di largo consumo come il grano, si trova, in tracce, in moltissimi prodotti.  Lo Iarc – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms – lo considera da tempo come probabilmente cancerogeno per l’uomo.

Inoltre, nei fitofarmaci il glifosato – di cui esistono 750 formulazioni commerciali – è miscelato con altre sostanze (i cosiddetti «coadiuvanti») che potrebbero amplificarne gli effetti tossici.
L’Efsa – l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare – e l’Echa – l’Agenzia europea per le sostanze chimiche – lo ritengono, anche sulla base di lavori non pubblicati, “probabilmente non cancerogeno”.In polemica con questa affermazione, novantasei scienziati indipendenti, tra cui molti di quelli coinvolti nel riesame dell’Oms. Uno di questi scienziati, il dottor Christopher Portier, ha anche evidenziato che l’Efsa e l’Echa non hanno rilevato numerosi collegamenti a tumori evidenti negli studi sugli animali effettuati dalle aziende produttrici di glifosato e mai pubblicati. E tutto ciò proprio mentre negli Usa la California aggiungeva il glifosato alla lista di sostanze chimiche che possono causare il cancro.
Si può fare a meno i sostanze come il glifosato? Centinaia di migliaia di agricoltori biologici mostrano ogni giorno che è possibile controllare le erbe infestanti senza l’utilizzo di glifosato e di altri erbicidi. Nei seminativi, ad esempio, una combinazione fra rotazione delle colture e uso di colture di copertura può sopprimere la crescita delle erbacce. Per combattere le infestanti rimanenti, possono essere utilizzati mezzi meccanici (ad es. una lavorazione leggera del suolo prima della semina). E’ essenziale, però, che gli agricoltori vengano sostenuti per l’applicazione di queste misure.
Una considerazione finale riguarda poi il contesto in cui tale sentenza arriva: l’Epa – Agenzia per l’Ambiente – di Donald Trump propone di riaprire la porta a prodotti contenenti amianto (!), i cui effetti sulla salute sono da tempo ben noti a tutti, trasformando il bando totale in una valutazione caso per caso per 15 usi specifici. Il sovranismo di Trump è (anche) la reazione di alcuni vecchi settori – carbone, petrolio, acciaio e ora anche amianto – ai cambiamenti necessari per proteggere ambiente e salute.

A settembre, sempre in California, stato con la normativa ambientale tra le più severe, si terrà il Summit globale di azione per il Clima, anche per rispondere al Trump che definisce i cambiamenti climatici “una truffa”.Speriamo di ricevere altre buone notizie dalla California, che sta già pagando a caro prezzo le conseguenze dei cambiamenti climatici: l’impegno americano – e anche solo di parte degli Usa – nella sfida globale è essenziale.
*Direttore di Greenpeace Italia


mercoledì 15 agosto 2018

ricordo di Maria Matus Tenorio


Voleva girare il mondo da sola: cantante 25enne stuprata e uccisa in Costa Rica
   
Maria Matus Tenorio

Un sogno finito in tragedia. Maria Matus Tenorio, cantante messicana di 25 anni, era finalmente riuscita a dare corpo a uno dei suoi sogni: girare il mondo da sola. L’idillio è però tragicamente finito alla prima tappa: in Costa Rica.
Maria è stata infatti trovata morta sulla spiaggia di Santa Teresa dopo essere stata stuprata da due uomini, ora arrestati.
Secondo la polizia locale, la ragazza era in compagnia di una donna inglese – conosciuta durante il viaggio – quando sono state aggredite da due uomini ed è stata la donna britannica che scappando è riuscita a dare l’allarme.
Una morte che ha colpito e non poco la popolazione locale, in particolare le donne. In centinaia sono scese in piazza al grido “Non una di meno”.
Due giorni fa si è svolta sulla spiaggia dove è avvenuta la tragedia una cerimonia per rendere omaggio alla cantante. In occasione è stato trasmesso un audio della madre: “Il suo nome era Maria Trinidad ma avevo deciso di chiamarsi Mar.. è proprio al mare è finita la sua vita”.
Elena Varade, una ragazza che ha incontrato Maria durante il suo viaggio, ha invece lanciato una campagna con l’hashtag #NoViajabaSola che sta riscuotendo un discreto successo.
“Viaggiare da soli non dovrebbe essere pericoloso – le sue parole -. La morte di Mar non sia vana! Non lasciate che la paura vi impedisca di realizzare i vostri sogni, continuate a incontrare persone, amare senza misura e andate a scoprire il mondo!”.


VIAGGIO SOLA: MARIA MATHUS TENORIO UCCISA IN COSTA RICA #NOVIAJABASOLA - Roberta Ferrazzi

Mar aveva nel nome tutta la libertà del viaggio. Oggi invece il suo nome è seguito dagli hashtag #nonunadimeno#niunamenos#noviajabasolaMaria Trinidad Mathus Tenorio è stata abusata e annegata lungo una spiaggia del Costa Rica, poco dopo l’inizio del suo sogno: un viaggio attorno al mondo da sola.
MARIA MATHUS TENORIO
“Oggi inizia il mio viaggio dopo tanto tempo in cui ho sognato di girare il mondo tutta sola” – Maria Mathus Tenorio
VIAGGIO SOLA
Un’amica, parlandomi della notizia della 25enne messicana, mi ha chiesto cosa ne penso, io che per aiutare le donne che viaggiano sole, supportarle ed incoraggiarle, ho creato un blog dedicato.
La risposta è amarezza.
Amarezza per l’accaduto, perché al posto di Mar, poteva esserci una qualsiasi di noi.
Amarezza per come la notizia viene strumentalizzata: “vedete cosa succede a viaggiare sole?” (tra l’altro Maria non era sola nel momento della tragedia).
Amarezza per i commenti: “se l’è cercata”.
Viaggiare sole da un adrenalinico senso di libertàsicurezza in se stesseconsapevolezza e autonomia. Capirete bene che sono parole potenti, che a molti fanno gelare il sangue nelle vene e danno fastidio…

VIAGGIATRICI SOLITARIE
Penso che quanto accaduto a Maria Mathus Tenorio, non sia poi così diverso da ciò che è successo a Maria, che viene picchiata dal marito nel silenzio delle sicure mura domestiche. A Maria, che in ufficio subisce battute sessiste. A Maria, che sceglie di darsi fuoco. A Maria, che è stata violentata perché aveva la gonna troppo corta. A Maria, che è stata infibulata. A Maria, che passeggia in città con lo spray al peperoncino. A Maria, che non può studiare. A Maria, che è una strega. A Maria, che è impura quando ha le mestruazioni. A Maria, attrice hollywoodiana molestata. A Maria, sposa bambina. A Maria, che deve rimanere al suo posto. A Maria, mercificata nelle campagne pubblicitarie come oggetto sessuale… e potrei andare avanti all’infinito a parlarvi di Maria.
In fondo viene da pensare che viaggiatrici solitarie lo siamo tutte.
Io credo che la violenza che subisce Maria ha volti diversi, ma euguale radice e nome, femminicidio. Che Maria sia stanca di tutta questa barbarie. In alcuni Paesi Maria è riuscita ad ottenere maggiori diritti, in altri Paesi di diritti non si parla proprio. Maria è una combattente per la libertà e le sue piccole, grandi battaglie si rincorrono ora dopo ora, giorno dopo giorno. Come in ogni campo di battaglia purtroppo alcune Maria cadono sotto i colpi inferti dal nemico. E a volte i nemici di Maria si nascondono proprio tra le schiere amiche. Maria ha paura, SEMPRE, ma è determinata a non arrendersi. Maria va avanti con ostinazione, da secoli sfida le circostanze avverse ed una società che troppo spesso la vorrebbe diversa.
DONNA CHE VIAGGIA
Maria è una donna che viaggia verso la libertà e non si farà intimorire da questa ennesima violenza, da questa ennesima campagna mediatica del terrore, perché Maria ha sempre di più coscenza di non essere da sola…Maria è tutte le donne, Maria siamo tutte noi! Ed il dado è ormai tratto.
#VIAGGIODASOLA
Buen viaje Mar :*