Seconda puntata di un’inchiesta in tre
parti sulla grande distribuzione organizzata.Prima puntata, terza puntata.
“Sei un pragmatico o un cacciatore?”. La domanda riecheggia per la sala
conferenze. La grande stanza immersa nella luce artificiale del neon è
affollata, quasi tutti uomini, età media sui 40. Il relatore ha un microfono in
mano e un telecomando con cui fa scorrere infografiche e dati su una lavagna
luminosa. Il pubblico guarda le slide e ascolta
rapito.
Non siamo a una seduta collettiva di life-coaching guidata
da qualche guru di nuova tendenza, ma a Marca, la grande fiera dei prodotti a
marchio della grande distribuzione organizzata (gdo) che si tiene ogni anno a
Bologna, nel cuore dell’imponente e labirintico spazio fieristico. L’uomo in
piedi accanto allo schermo sta presentando una ricerca condotta dall’istituto
Gfk per conto dell’Associazione della distribuzione moderna (Adm) sui “nuovi
processi d’acquisto”. Sono indicate le varie tipologie di clienti dei supermercati.
La tassonomia è affascinante e ognuno è assorto nell’ascolto, impegnato senza
dubbio a pensare a quale categoria appartenga.
C’è il “pragmatico”, il consumatore che non perde tempo e va dritto verso
quello che deve comprare guardando solo le caratteristiche del prodotto e il
prezzo. Secondo i ricercatori ha un’istruzione medio-bassa e tende ad
acquistare al prezzo minore. C’è il “cacciatore”, che si aggira tra gli
scaffali anche lui alla ricerca del risparmio ed è pronto a cambiare marca, prodotto
e perfino supermercato a seconda della convenienza. Nella corsia a fianco
troviamo il “prudente”, pure lui orientato dal prezzo ma con un enorme bisogno
di rassicurazione. Spostandosi nel nord Italia sarà più facile invece
imbattersi nell’“esperto”, che legge le etichette, si informa, ha un’istruzione
medio-alta. Infine il “brand fan”, che vuole il meglio, di marca, senza badare
a spese perché l’importante è essere appagati.
Largo ai prodotti “della casa”
La fiera dura due giorni. Per gli operatori del settore è un’occasione per fare il punto del mercato, incontrarsi e stringere relazioni d’affari. Ma soprattutto per celebrare la crescita inarrestabile della grande protagonista della kermesse: la marca del distributore, ovvero il prodotto con il logo del supermercato.
La fiera dura due giorni. Per gli operatori del settore è un’occasione per fare il punto del mercato, incontrarsi e stringere relazioni d’affari. Ma soprattutto per celebrare la crescita inarrestabile della grande protagonista della kermesse: la marca del distributore, ovvero il prodotto con il logo del supermercato.
Pasta, pomodori, biscotti, gelati, detersivi, basta entrare in un qualunque
punto vendita per toccare con mano questa evoluzione: i prodotti con il marchio
del distributore (Coop, Conad, Carrefour, eccetera) sono sempre di più, in
posizioni sempre migliori, e sempre più concorrenziali rispetto ai marchi più
noti. Il volume d’affari della private label, si
chiama così in gergo, ha raggiunto i 9,5 miliardi di euro, circa il 18 per
cento dei prodotti di largo consumo confezionati (il cui fatturato totale è 52
miliardi). Percentuale che sale di molto se si considera il comparto discount.
Cifre ancora ben lontane da quelle di altri paesi europei come il Regno
Unito, dove la marca commerciale raggiunge il 45 per cento, che indicano però
una chiara direzione di marcia. Secondo le previsioni dell’Adm, che rappresenta
le aziende della distribuzione, la private label raggiungerà
nel 2025 la quota del 50 per cento dei prodotti in vendita. Ma già la
percezione nei supermercati è quella: perché, accanto al prodotto di marca
tradizionale, quello a marchio del distributore è sempre più visibile.
“Se consideriamo che le grandi catene italiane, Coop e Conad, hanno
percentuali di private label maggiori del 25
per cento, possiamo dire che la gdo è diventata la più grande industria
alimentare italiana”, sintetizza Corrado Giacomini, professore di marketing dei
prodotti alimentari all’università di Parma.
Un elemento di rassicurazione
Quand’è che la grande distribuzione è diventata un’industria? Nata negli anni venti del novecento nel Regno Unito, la private label è sempre stata associata a prodotti di minor valore, poveri anche nella confezione, destinati a clienti con scarso potere d’acquisto. Negli ultimi anni questa impostazione è cambiata: le grandi catene curano la qualità, il packaging, cioè le confezioni, investono il loro “potenziale di fiducia” presso i consumatori. Quelli che un tempo erano per definizione prodotti non di marca, a buon mercato e alla portata di tutti, oggi si sono trasformati in brand, conquistando la fiducia dei consumatori che, sempre di più, vedono in quel marchio un elemento di rassicurazione.
Quand’è che la grande distribuzione è diventata un’industria? Nata negli anni venti del novecento nel Regno Unito, la private label è sempre stata associata a prodotti di minor valore, poveri anche nella confezione, destinati a clienti con scarso potere d’acquisto. Negli ultimi anni questa impostazione è cambiata: le grandi catene curano la qualità, il packaging, cioè le confezioni, investono il loro “potenziale di fiducia” presso i consumatori. Quelli che un tempo erano per definizione prodotti non di marca, a buon mercato e alla portata di tutti, oggi si sono trasformati in brand, conquistando la fiducia dei consumatori che, sempre di più, vedono in quel marchio un elemento di rassicurazione.
Accanto a Coca-Cola, Barilla, Ferrero, troviamo quindi ormai le marche di
Coop, Conad, Esselunga, ognuna con la sua linea specifica e orientata alle
esigenze del singolo consumatore. Stesso scaffale, prodotti diversi: ci sono le
aziende leader, quelle che fanno prodotti unici conosciuti in tutta Italia e
spesso nel mondo, come le bevande gassate e le creme da spalmare. Li trovi in
bella vista, pronti per essere messi sul carrello dalle mani sicure del
cosiddetto “brand fan”.
Gli altri clienti invece
mirano ad articoli diversi. I pragmatici si dirigono verso i cosiddetti
prodotti primo prezzo, più economici. I prudenti vogliono risparmiare ma essere
rassicurati sulla qualità. Puntano quindi a marche minori, i cosiddetti
“follower”: quelli che, dietro ai leader, cercano di ritagliarsi uno spazio non
sempre agevole tra gli scaffali. È proprio in quest’articolazione tra tipologie
di consumatore e gerarchie di marchi che si è inserita ormai in modo sempre più
preponderante la private label.
La strategia della gdo è chiara: differenziare l’offerta e puntare sempre
più verso l’alto. Se con i primi prezzi troviamo prodotti di gamma inferiore
rispetto alle marche tradizionali, con la “premium” qualità e prezzo sono più
elevati rispondendo alla richiesta di prodotti ricercati, tipici e regionali.
Ed è così che negli ultimi anni c’è stato un fiorire di marchi commerciali che
vogliono essere garanzia di qualità: Sapori e dintorni di Conad, Fior fiore di
Coop, il Viaggiator goloso di Unes, Terre d’Italia di Carrefour. Per non
parlare delle linee biologiche, del commercio equo, interi scaffali riservati
ai vegani o ai celiaci.
“La grande distribuzione si è ormai sostituita alla signora Maria
dell’alimentari sotto casa, che ti garantiva la qualità del prodotto”, riassume
efficacemente Giacomini. “Così oggi i prodotti a marca commerciale hanno varie
categorie, ma puntano soprattutto sulla premium, quella di maggiore pregio, che
mira a fare concorrenza ai grandi marchi industriali”.
Rispetto all’industria classica, la distribuzione gode di alcuni vantaggi
incomparabili: non deve fare pubblicità sui prodotti né preoccuparsi
dell’accesso al mercato. A differenza dei prodotti industriali, quelli a marca
commerciale hanno un canale di vendita dedicato, già pronto, ovvero lo scaffale
dello stesso supermercato che mette il marchio sul prodotto. E così si spiega
perché, in un mercato in cui il 70 per cento degli acquisti alimentari passa
per i punti vendita della gdo, la private label è
il nuovo Eldorado. E l’industria, che una volta dettava le leggi e i prezzi,
oggi deve adeguarsi.
Concorrenza contraddittoria
Non c’è persona più indicata per parlare di questo tema di Francesco Pugliese. L’attuale direttore e amministratore delegato di Conad è uno dei pochi del settore ad aver fatto il salto della barricata: per anni attivo nell’industria, prima come direttore generale Europa di Barilla, poi come amministratore delegato e direttore generale del gruppo Yomo, dal 2004 ha preso le redini del secondo gruppo distributivo italiano. Conosce quindi sia il mondo del commercio sia quello dell’industria, con i loro rispettivi pregi, difetti, potenzialità.
Non c’è persona più indicata per parlare di questo tema di Francesco Pugliese. L’attuale direttore e amministratore delegato di Conad è uno dei pochi del settore ad aver fatto il salto della barricata: per anni attivo nell’industria, prima come direttore generale Europa di Barilla, poi come amministratore delegato e direttore generale del gruppo Yomo, dal 2004 ha preso le redini del secondo gruppo distributivo italiano. Conosce quindi sia il mondo del commercio sia quello dell’industria, con i loro rispettivi pregi, difetti, potenzialità.
Con un fatturato di
circa tre miliardi di euro la marca Conad è una delle più performanti:
rappresenta il 27,4 per cento di un fatturato di poco più di 12 miliardi di
euro. Un risultato che stacca di quasi dieci punti percentuali la media
italiana. “Il che equivale a dire che nei nostri carrelli, un prodotto su tre è
a marchio Conad”, esclama con una certa soddisfazione.
Nella sede del gruppo nel quartiere fieristico di Bologna, questo manager
di 58 anni analizza le tendenze di sviluppo della marca del distributore e i
rapporti con gli industriali che la producono. Perché, per quanto ovvia, è bene
fare una puntualizzazione: non è che i supermercati si siano messi direttamente
a trasformare e inscatolare i prodotti. La marca del distributore è prodotta da
fornitori in appalto, che spesso sono gli stessi che producono le marche
industriali, con il risultato un po’ contraddittorio che i due articoli – che
magari provengono dallo stesso stabilimento e sono prodotti con la stessa
materia prima – si fanno concorrenza sul medesimo scaffale con marchi diversi.
In un mercato con
margini sempre più risicati e con un accesso stretto al consumatore finale, le
industrie si trovano così davanti a un bivio: continuare a produrre con il
proprio marchio, oppure diventare fornitrici della distribuzione, perdendo cioè
la propria identità imprenditoriale ma mantenendo la speranza di non avere
problemi nella commercializzazione dei prodotti.
Una scelta quasi obbligata, leggendo i numeri crescenti della private label, ma che presenta non poche criticità.
Secondo una ricerca dell’associazione Industrie beni di consumo (Ibc)
illustrata proprio alla fiera Marca, su un campione di 75 fornitori della gdo
il 92 per cento produce sia un proprio marchio sia un marchio commerciale. Al
contempo, il 42 per cento lamenta un enorme aumento della competizione con
altri concorrenti. Perché se diventi un subappaltatore, è la gdo a monte e non
più il consumatore a valle a promuovere o bocciare il tuo marchio. E i voti
alti in pagella possono essere determinati anche da una richiesta di prezzi più
bassi.
Tra marchio industriale e marchio commerciale sugli scaffali non c’è
partita. Non dovendo pagare spese di marketing né le varie tipologie di
contributi e sconti che normalmente la grande distribuzione chiede
all’industria per fare entrare i prodotti nei suoi punti vendita, la private label ha solitamente un migliore rapporto
qualità/prezzo. E così, come sottolinea l’indagine conoscitiva sulla grande
distribuzione dell’agenzia per la concorrenza, la gdo si trova a svolgere ruoli
diversi: “Acquirente, concorrente (attraverso le private label), ‘venditore’ degli spazi a scaffale,
controllore degli accessi (il cosiddetto gate keeper) al
principale canale distributivo”.
La legge del mercato o quella del più forte?
“È una questione di regole di mercato: se sei una marca conosciuta e affermata hai un posizionamento di primo piano e maggiore potere negoziale”, ribatte Pugliese. Il manager ha ben chiaro in mente dove si sta dirigendo il mercato: “La tendenza in atto vede l’affermazione delle marche leader e la crescita costante della marca del distributore, come avviene in tutta Europa”. Da questo punto di vista Conad persegue una strategia di sviluppo in questo senso molto ben definita: “La marca del distributore è un’opportunità per il produttore, piccolo o medio che sia, perché gli mette a disposizione un mercato molto ampio. Ma lo è anche per il consumatore, al quale garantisce prodotti di qualità a prezzi convenienti”.
“È una questione di regole di mercato: se sei una marca conosciuta e affermata hai un posizionamento di primo piano e maggiore potere negoziale”, ribatte Pugliese. Il manager ha ben chiaro in mente dove si sta dirigendo il mercato: “La tendenza in atto vede l’affermazione delle marche leader e la crescita costante della marca del distributore, come avviene in tutta Europa”. Da questo punto di vista Conad persegue una strategia di sviluppo in questo senso molto ben definita: “La marca del distributore è un’opportunità per il produttore, piccolo o medio che sia, perché gli mette a disposizione un mercato molto ampio. Ma lo è anche per il consumatore, al quale garantisce prodotti di qualità a prezzi convenienti”.
L’amministratore
delegato difende la listing fee e
gli altri contributi che la gdo chiede ai fornitori: “La presenza di prodotti
sugli scaffali comporta un rischio di impresa che deve essere condiviso. La gdo
ha costi di gestione come qualunque altro attore del commercio, ma margini
molto ridotti, in media lo 0,4-0,5 per cento, mentre quelli dell’industria
raggiungono il 5-6 per cento”. Proprio per incentivare la spinta verso il private, i contratti che Conad chiude con i fornitori
delle sue marche non prevedono le listing fee che
impongono invece ai marchi industriali, ma sono net-net:
cioè il prezzo netto pulito, senza contributi o scontistiche. Così, il piccolo
è spinto a produrre per il distributore e a non lanciarsi in rischi
imprenditoriali eccessivi che potrebbero portarlo contro un muro.
Pugliese è molto diretto: “Lo scenario è cambiato in pochi anni. La piccola
e media industria sono chiamate a misurarsi con la reale domanda di mercato”.
Ed è così che sempre più si sta verificando un grande stravolgimento dei
rapporti di forza: se i gruppi della gdo in Italia, in particolare Conad e
Coop, sono nati come unione di dettaglianti per fronteggiare il potere della
grande industria, oggi è la gdo a farla da padrona rispetto a un universo di
fornitori che appare decisamente poco coeso.
L’industria è quindi
destinata a diventare una pura subappaltatrice, realizzatrice di processi
dettati da altri attori della filiera? Il manager di Conad respinge
quest’obiezione: “Si tratta di una dinamica di condivisione. Fare la marca del
distributore è un lavoro specifico che richiede uno sforzo di progettazione e
implementazione molto significativo unito a una visione strategica chiara. Noi
con i nostri fornitori della private label abbiamo
rapporti duraturi di mutua fiducia”.
Salvo aggiungere, tanto per essere precisi: “Molte innovazioni, soprattutto
in determinati ambiti, sono partite proprio da sollecitazioni della gdo, che
interfacciandosi direttamente con i consumatori conosce meglio i loro
orientamenti e le loro esigenze”. In effetti spesso le richieste di
certificazione etica partono dalla grande distribuzione e sono recepite
successivamente e a volte obtorto collo dagli
altri anelli della filiera: è il caso per esempio della campagna “Buoni e
giusti” di Coop Italia nata per garantire legalità e assenza di sfruttamento e
caporalato sui prodotti in vendita.
A sentire l’altra campana, cioè l’industria, le relazioni non sono però
così rosee. Molti fornitori sostengono, sempre in forma anonima per non
inimicarsi la gdo, che le condizioni dettate da quest’ultima sono spesso dure,
al limite del vessatorio. Alcuni degli operatori interpellati per
quest’inchiesta lamentano che i buyer spesso
non conoscono le aree di produzione, i costi, il valore degli articoli. E
badano prevalentemente a ottenere il prodotto a costi bassi. Insomma, è un cane
che si morde la coda: i fornitori non possono più fare a meno della private label, ma produrre per la private label erode il loro potere negoziale.
Chi è causa del suo mal…
Il punto critico del sistema è proprio questo: l’asimmetria contrattuale. In un paese fatto per lo più di piccole e medie imprese, la grande concentrazione della distribuzione nelle mani della gdo genera elementi di distorsione: da una parte c’è un attore potentissimo, che controlla l’accesso al mercato, dall’altra un mondo estremamente frastagliato, poco incline all’aggregazione e quindi incapace, con poche eccezioni, di avere una reale forza negoziale. Migliaia di piccoli e medi agricoltori che non si mettono insieme a fare sistema, una miriade di industrie di trasformazione con fatturati minuscoli se paragonati a quelli della gdo, con la conseguenza che in queste condizioni il rischio di esondare nel cosiddetto eccesso di potere contrattuale è sempre più alto.
Il punto critico del sistema è proprio questo: l’asimmetria contrattuale. In un paese fatto per lo più di piccole e medie imprese, la grande concentrazione della distribuzione nelle mani della gdo genera elementi di distorsione: da una parte c’è un attore potentissimo, che controlla l’accesso al mercato, dall’altra un mondo estremamente frastagliato, poco incline all’aggregazione e quindi incapace, con poche eccezioni, di avere una reale forza negoziale. Migliaia di piccoli e medi agricoltori che non si mettono insieme a fare sistema, una miriade di industrie di trasformazione con fatturati minuscoli se paragonati a quelli della gdo, con la conseguenza che in queste condizioni il rischio di esondare nel cosiddetto eccesso di potere contrattuale è sempre più alto.
“Non bisogna demonizzare la gdo. Si tratta di una grande opportunità per
tutta la filiera agroalimentare”, continua Giacomini. Certo, riconosce il
professore: “C’è una sproporzione di forze tra i giganti delle catene dei
supermercati e gli altri attori della filiera”.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, taglia corto con i suoi toni un
po’ caustici Pugliese. “Credo che sia necessario sempre più che gli altri
attori definiscano un indirizzo di filiera per avere un rapporto meno
sbilanciato con la gdo”, propone in modo più diplomatico Giacomini. “Se è vero
che i gruppi della gdo hanno un fatturato enormemente superiore a quello di
qualsiasi impresa agricola, è vero anche che se ognuna di queste si presenta da
sola nella contrattazione, non ha alcuna possibilità di spuntare un prezzo
congruo”.
Perché negli anni la gdo si è aggregata nelle centrali e nelle super
centrali, mentre non si può dire lo stesso per i fornitori che, salvo rare
eccezioni, continuano ad andare in ordine sparso. In un certo senso, ha ragione
Pugliese: le stesse organizzazioni di produttori, create in campo agricolo su
impulso dell’Unione europea proprio per favorire l’aggregazione, in molti casi
si sono rivelate unioni fittizie, determinate più dalla necessità di
intercettare i fondi dei piani operativi europei che da un desiderio di fare
sistema e di unirsi per essere più forti. Così, in un paese costituito da
piccole e medie imprese e da aziende agricole con una superficie media di
pochissimi ettari, è ovvio che il piccolo industriale o il piccolo agricoltore
avranno potere contrattuale nullo di fronte ai giganti della gdo.
Come natura crea
Se gli agricoltori e gli industriali che non si aggregano dovrebbero solo “piangere se stessi”, che danno ne ricava il cittadino consumatore? In definitiva, ottiene prodotti alimentari a basso costo della cui qualità si fa garante la catena di distribuzione. Ma siamo sicuri che sia proprio così?
Se gli agricoltori e gli industriali che non si aggregano dovrebbero solo “piangere se stessi”, che danno ne ricava il cittadino consumatore? In definitiva, ottiene prodotti alimentari a basso costo della cui qualità si fa garante la catena di distribuzione. Ma siamo sicuri che sia proprio così?
In un approccio più sistemico, se i prodotti sono a basso costo, è tutta
un’economia a risentirne. E alla fine la stessa qualità: perché l’industriale
che vende al ribasso alla gdo, si rifarà sull’agricoltore e sul fornitore di
materia prima. E quest’ultimo cercherà in tutti i modi di aumentare le rese,
usando sementi più performanti, aumentando l’uso di pesticidi e riducendo al
massimo le spese accessorie. Produrrà quindi sempre di più una merce, prodotto
indistinguibile per qualità il cui valore si misura solo in quantità, perché il
costo a cui la vende sarà legato sempre più unicamente a quest’ultima
variabile.
È questo quello che sta accadendo? I grandi attori della gdo giurano di no.
“Il rapporto con i fornitori di prodotti della nostra marca è basato sulla
reciproca soddisfazione, una soddisfazione che si stabilizza nel tempo, con
rinnovi annuali per una durata media di oltre otto anni”, afferma Pugliese.
“Nell’ortofrutta la media di durata delle relazioni è di 25 anni a evidente
dimostrazione di rapporti proficui da entrambe le parti”, puntualizza Coop
Italia. I responsabili della gdo sostengono che quella della marca commerciale
è un’evoluzione naturale, che loro ci mettono la faccia e garantiscono prezzi
più bassi, che stabiliscono relazioni solide e di mutua convenienza con i
fornitori.
E che nei supermercati
ci sarà sempre una varietà di scelta per tutte le tipologie di clientela. Ma il
rischio molto concreto è un altro: che alla fine i cittadini, siano essi
clienti esperti, prudenti, cacciatori o pragmatici, si trovino a comprare
prodotti diversificati solo nel marchio e nel marketing ma in realtà spesso
identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre
un’omologazione verso il basso. E perché gli orientamenti della produzione
saranno in effetti sempre più dettati da attori che non necessariamente
conoscono i problemi dell’agricoltura o dell’industria di trasformazione, ma
avranno come orizzonte d’azione quello dell’acquisto della fornitura al più
basso costo possibile.
da qui
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