Chi,
dall’aeroporto di Lisbona, decida di prendere la linea rossa della
metropolitana, comodissima perché in una dozzina di minuti porta in centro, può
trovarsi a osservare una serie di graziose caricature di portoghesi illustri
della recente contemporaneità, e può anche cimentarsi a riconoscerli. La fila
della macchinetta dei biglietti comincia giusto davanti a Pessoa.
“Ecco
un paese orgoglioso dei suoi esponenti migliori”, penso. E, chissà come mai, mi
sento subito all’estero.
Ritrovo
frammenti di pensiero di autori portoghesi graffitati sui muri delle città.
Trovo José Saramago citato sul dépliant del castello di Marvão (a proposito:
quella è una meta meno nota, ma da non perdere). Trovo il filosofo Eduardo
Lourenço – “o meu paraíso foram sempre os outros” – citato su una bustina di
zucchero del caffè.
Mete
classiche e altre meno
Questo
è il racconto di un viaggio in auto di nove giorni, in Portogallo, con alcune
mete classiche e altre che lo sono un po’ meno. Luoghi visitati: Lisbona,
Sintra, Mafra, Alcobaça, Batalha, Coimbra, Aveiro, Porto, Lamego, Castelo de
Vide, Marvão, Guarda, Alter, Évora. Per poi tornare a Lisbona.
Si
può fare: le distanze sono più che ragionevoli, le strade più che buone e (a
parte l’uscita da Lisbona) semideserte. Bastano un po’ di pianificazione
preliminare (io ho usato la guida del Tci e quella del National Geographic,
integrate con qualche ricerca in rete per aggiornamenti e curiosità). E poi:
voglia di fare deviazioni estemporanee e voglia di camminare. Qui racconto
alcuni dettagli che non necessariamente si trovano sulle guide.
Appunto:
camminare sull’ondosa, irregolare, lustra e decorata calçada portuguesa, il tipico
lastricato composto di tessere di marmo, è imperativo. E poi in auto è
difficile spostarsi e, ancora più, posteggiare.
Le
città maggiori (Lisbona, Porto) sono piene di turisti, che si arrampicano o si
calano volonterosi per strade e scalinate così ripide che San Francisco, a
confronto, è una passeggiata in pianura. Meglio essere preparati: in una
singola giornata a Lisbona mi sono fatta, secondo il telefono cellulare, un
dislivello corrispondente a 37 piani di scale.
Se
l’obiettivo è evitare la ressa dei turisti, meglio stare alla larga da Sintra,
almeno in alta stagione: sì, l’area è stata dichiarata Patrimonio dell’umanità.
Sì, i palazzi, i vertiginosi bastioni del Castelo dos Mouros e le ville
novecentesche sono affascinanti, ma la folla è tale che sembra di essere in
autobus, chilometri di auto parcheggiate ingombrano il saliscendi delle
stradine che conducono da un luogo all’altro e l’incanto che aveva sedotto
Andersen e Byron è, se non svanito, assai appannato.
Da
non perdere
Altri
luoghi Unesco tocca proprio vederli: per esempio, a Lisbona, il magnifico
Monastero de Jerónimos e il suo chiostro (ahimé, lunga coda anche lì). Ma ci si
può consolare facendo colazione nella pasticceria di Belem, poco distante,
assaggiando gli indimenticabili pasteis e ricordando che le origini del luogo
sono intrecciate con la storia nazionale: nel 1834 gli ordini religiosi furono
sciolti e i beni monastici confiscati. Così, per mantenersi, alcuni fuoriusciti
del monastero cominciarono a confezionare dolci squisiti, guadagnandosi un
successo che dura ancora oggi.
Un
vantaggio del muoversi a piedi è che si possono scegliere percorsi secondari,
che conservano intatto lo spirito dei luoghi. E che si possono guardare e
leggere i muri.
Sui
muri di Lisbona si trovano bellissimi graffiti, brani e citazioni di autori
portoghesi, poetiche dichiarazioni d’amore e messaggi creativi che, da noi,
solo nel ’77. A Coimbra, poco distante dall’università, leggo “crediamo
nell’utopia, perché la realtà sembra impossibile”. Oppure, “il tempo e la
religione mettono ansia”.
Certo,
bisogna visitare i due indimenticabili monasteri di Alcobaça e Batalha, e guai
a trascurarli, anche se c’è un bel po’ di gente. Arrivandoci da Lisbona, però,
si può fare una sosta nel gigantesco convento-palazzo reale di Mafra, assai
meno frequentato: corridoi sterminati, arredi di gusto discutibile, bella
biblioteca. A preservare i volumi dai tarli che mangiano la carta c’è una
colonia di minuscoli pipistrelli. La stessa cosa accade nella magnifica
biblioteca Joanina che si trova all’università di Coimbra (coda per entrare,
bisogna rassegnarsi. Attorno all’università, tra i turisti e nonostante il
caldo, diversi studenti nell’abito nero tradizionale).
A
Mafra, due ulteriori interni notevoli: nella parte reale, la stanza della
caccia, interamente arredata di corna, dai lampadari ai tavoli, ai sofà. Nella
parte conventuale, l’infermeria settecentesca: tetri lettini isolati da cortine
ai due lati e in fondo un altare, a ricordarci le incertezze della medicina
dell’epoca.
Procedendo
da Coimbra per Porto, si può deviare verso la costa e verso Aveiro. Dove ci si
imbatte in una disperante barriera di brutti palazzoni moderni, superata la
quale c’è un vecchio, grazioso quartiere di pescatori affacciato sui canali
(case e barche dipinte di colori vivaci). Qui ho gustato il miglior pranzo di
pesce dell’intero viaggio (ristorante O Bairro, 40 euro in due con calice di
vino. Il posto è piccolo ed è meglio prenotare).
Poco
più a nord c’è Ovar, che definisce se stessa “città degli azulejos” per via
delle molte case decorate di piastrelle, con la coloratissima Igreja Paroquial
de Válega. La chiesa è antica ma il rivestimento è recente: per questo non è
citato sulle guide. Ma il colpo d’occhio non è male.
Ancora
a proposito di libri: se a Lisbona, al numero 73 della bella rua Garrett, c’è
la Livraria Bertrand, la più antica del mondo, a Porto c’è la libreria Lello e
Irmão, i cui interni hanno ispirato alcune ambientazioni dei libri e dei film
di Harry Potter.
La
ressa dei visitatori è tale da aver convinto i proprietari a far pagare un
biglietto d’ingresso, e da persuadermi a ripiegare verso il vicino museo della
fotografia, collocato in un antico carcere settecentesco (semideserto, ampia
mostra di macchine fotografiche d’epoca e impressionanti grate alle finestre).
Un
altro luogo non troppo visitato di Porto, e assai paradossale, è l’Igreja de
São Francisco. È una chiesa francescana con severo esterno gotico e opulenti
interni barocchi, interamente coperti di foglia d’oro (oltre 200 chili d’oro,
si stima) dai ricchi mercanti dell’impero coloniale. Uno sfarzo che ricorda
quello che si può trovare in un tempio birmano.
Visitata
Porto, il dilemma è tra procedere verso nord o piegare a est verso la valle del
Douro, la più antica regione vinicola al mondo. Chi sceglie la seconda opzione
e viaggia per strade secondarie deve sapere che l’accesso non è all’altezza
delle attese, e si procede tra paesini agricoli non troppo dissimili dai nostri
della Brianza o dell’Appennino emiliano. Ma non appena si imbocca la Route 222
tutto cambia.
C’è
meno gente di quanto ci si possa aspettare e i paesaggi tolgono il fiato per
ampiezza, bellezza, sapienza, armonia e vertigine. In estate, tra i filari
spuntano i cappelli delle donne che eliminano tralci per dar più sole e forza
ai grappoli.
Dicevo.
Il disegno delle vigne, che segue il profilo erto e irregolare delle alture
intrecciando i filari come in una trina, è incantevole. Ma conviene non
lasciarsi prendere dall’entusiasmo e non affidarsi mai alla funzione “percorso
più breve” del navigatore. Facendo così mi sono ritrovata a percorrere uno
scosceso tratturo che finiva nel nulla, dissestato e stretto tra due filari.
Retromarcia troppo accidentata per risultare divertente.
Scendendo
verso sud la campagna è bellissima. Ci si può fermare a Guarda, la città più
alta del Portogallo, bastione (da qui il nome) contro le invasioni arabe
attorno all’anno 1100. Superata la consueta barriera di palazzoni si trova un
centro storico intatto e praticamente deserto, con una magnifica cattedrale, e
arrampicandosi sul tetto ci si può concedere un momento suggestivo, in
probabile assoluta solitudine.
Appena
fuori del centro storico ci si può fermare al ristorante Bola de Prata. Il
pranzo a prezzo fisso costa sette euro a testa. Menu del giorno: pane e olive,
ottima minestra tipica di verdure, saporito rotolo di carni con abbondante
contorno, dolce, caffè, acqua minerale. Chi prova a parlare in inglese viene
serenamente ignorato. Meglio lo spagnolo, l’italiano, i gesti.
Castelo
de Vide è assai graziosa e non troppo affollata. Da lì, l’altra tappa
meritevole è, come dicevo, l’arroccata Marvão: tutto quello che si può
immaginare di una cittadina portoghese, appena un po’ ripulito, con un panorama
incredibile, una storia che risale al sesto secolo avanti Cristo, un fascino
pressoché intatto e una pressione turistica per ora limitata. Ma occhio: il
sito è candidato a entrare nel patrimonio Unesco, e tra un po’ potrebbe non
essere più così.
Procedendo
verso sud, se si sceglie la strada secondaria, si intercetta un’infilata di
paesini sonnacchiosi, deserti e intatti. Sono Alter, con un piccolo castello
che sembra tratto da un libro di fiabe (dalla torre tonda potrebbe scendere la
treccia di Raperonzolo), Fronteira e Sousel: vie deserte, spigoli delle case
mano a mano più colorati, qualche vecchietto sulle panchine.
E
infine ecco Évora. È Patrimonio Unesco, ma c’è molta meno gente che sulla
costa, e il fatto che le auto non possano sostare nel centro storico aiuta. Le
cose da vedere sono su qualsiasi guida, ma il piacere massimo è camminare per
le belle strade e le piazze ariose fino ad arrivare alla pregevole fontana da
Porta de Moura. Sta lì da 500 anni e lo strusciare secolare dei sederi ha
scavato confortevoli conche di varia misura nel marmo rosa dei bordi. Uno si
accomoda lì, osserva la grande sfera centrale di marmo, l’acqua che scorre, il
tempo che passa. E, per un momento, può scordarsi di essere un turista.
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