Prima puntata di un’inchiesta in tre parti sulla
grande distribuzione organizzata.Seconda puntata, terza puntata.
La scritta campeggia ben visibile all’entrata del supermercato:
“Sottocosto”. Bottiglie di passata di pomodoro vendute a 0,49 euro, pacchi di
pasta a 0,39, confezioni di tonno da quattro scatolette a 1,99 euro. Il locale
è un supermercato di una grande catena, in una zona semicentrale di Roma. Ma la
stessa promozione si può vedere nei suoi innumerevoli punti vendita. Simile a
molte altre che si possono trovare in locali gestiti da aziende concorrenti in
tutta Italia.
Le catene della grande distribuzione organizzata (gdo) fanno sempre più
dell’abbassamento dei prezzi al consumatore il principale elemento della propria
strategia di marketing. “Qualità e convenienza”, recita lo slogan di Coop,
primo gruppo in Italia. “Bassi e fissi”, risponde Conad, seconda azienda per
fatturato nel paese. Carrefour ribatte con la promozione “sotto e freschi” su
carni e pesci. Il basso prezzo è il grande imperativo categorico; il sottocosto
l’ultima frontiera del marketing.
Abbagliato dal risparmio, il cliente non s’interroga su come sia possibile
acquistare qualcosa a un prezzo indicato come inferiore al costo di produzione.
E così le promozioni impazzano: secondo uno studio condotto dalla società di consulenza
Iri, oggi “32 euro di spesa su 100 vengono effettuati
in presenza di un’offerta”.
Una mosca bianca
“Credo che rincorrere i discount sia una scelta sbagliata”, sostiene Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes, un gruppo minoritario ma in crescita nel panorama nazionale. Sotto le insegne di U2 e U!, i suoi supermercati sono concentrati per lo più nel nord Italia.
“Credo che rincorrere i discount sia una scelta sbagliata”, sostiene Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes, un gruppo minoritario ma in crescita nel panorama nazionale. Sotto le insegne di U2 e U!, i suoi supermercati sono concentrati per lo più nel nord Italia.
Nel suo ufficio accanto al magazzino a Vimodrone, periferia est di Milano,
davanti a una mappa gigantesca su cui si accendono innumerevoli lucette che
indicano i punti vendita, Gasbarrino analizza quelli che sono secondo lui i
trend del mercato. “Noi proviamo a fare una politica diversa: facciamo poche
promozioni, cercando al contempo di mantenere prezzi ragionevolmente bassi
tutto l’anno. Così stringiamo un patto con i nostri clienti, che sanno di poter
trovare da noi prodotti di qualità sempre a prezzi concorrenziali. Ma facciamo
anche un accordo con i fornitori, con cui stabiliamo delle relazioni durature,
basate sulla condivisione del rischio d’impresa. Loro ci vendono il prodotto a
un prezzo che è costante, non è legato alle promozioni”.
Mostrando la curva in ripida salita del fatturato e degli utili netti del
suo gruppo da quando ne ha assunto la guida, questo manager di 63 anni non
nasconde la soddisfazione di aver fatto delle scelte controcorrente che si sono
dimostrate vincenti.
Perché Gasbarrino sembra una mosca bianca. La gran parte degli altri
supermercati insegue la strategia dello sconto o del sottocosto, ritenuto il
metodo più efficace per non far diminuire le vendite in un periodo di crisi in
cui il potere d’acquisto dei singoli e delle famiglie è calato sensibilmente.
Ma con quali risultati duraturi? “La strategia della scontistica ha avuto
un effetto boomerang, creando una categoria di consumatore opportunistico che
si muove da un punto vendita all’altro cercando le offerte. Non stabilisce
nessuna forma di legame tra il cliente e la catena di distribuzione. Ci sono
ormai migliaia di acquirenti nomadi, che si spostano a seconda dei prezzi
scontati”, analizza Sandro Castaldo, docente all’università Bocconi di Milano
ed esperto di evoluzione del commercio. “Questo meccanismo ha poi avuto un
altro effetto: ha provveduto a far sfumare la percezione del giusto valore di
un prodotto alimentare. Il prezzo corretto sembra essere quello in sconto, che
non è più un’eccezione, ma la regola”.
Partita ad armi impari
Ma chi sono gli attori principali nell’universo della distribuzione alimentare? Quando percorriamo la corsia di un supermercato siamo travolti da una vastità di colori, insegne, lattine, barattoli, confezioni risparmio. Per ognuno di questi prodotti esiste chi ha coltivato la materia prima (l’agricoltore), chi l’ha trasformata (l’industriale), chi la vende (la gdo) e chi la consuma (il cittadino). I fornitori cercano di vendere al prezzo migliore. I responsabili delle catene di supermercati spesso determinano i costi al ribasso. Ognuno di loro gioca una partita non sempre ad armi pari in cui ci rimette sempre chi ha meno potere contrattuale.
Ma chi sono gli attori principali nell’universo della distribuzione alimentare? Quando percorriamo la corsia di un supermercato siamo travolti da una vastità di colori, insegne, lattine, barattoli, confezioni risparmio. Per ognuno di questi prodotti esiste chi ha coltivato la materia prima (l’agricoltore), chi l’ha trasformata (l’industriale), chi la vende (la gdo) e chi la consuma (il cittadino). I fornitori cercano di vendere al prezzo migliore. I responsabili delle catene di supermercati spesso determinano i costi al ribasso. Ognuno di loro gioca una partita non sempre ad armi pari in cui ci rimette sempre chi ha meno potere contrattuale.
La distribuzione organizzata in Italia è nata come risposta dei
dettaglianti di piccola e media dimensione per contrapporsi alla concorrenza
dei grandi gruppi francesi e tedeschi entrati nel mercato della distribuzione
alimentare con superfici di grandissima dimensione e una presenza capillare.
Oggi, attraverso la gdo passa circa il 70 per cento degli acquisti alimentari.
Dal punto di vista di chi produce (gli agricoltori e gli industriali) è di
conseguenza il canale di distribuzione più importante, spesso l’unico, per stare
sul mercato.
In questo 70 per cento, ci sono gli ipermercati, enormi punti vendita con
una superficie di almeno 2.500 metri quadri; i supermercati classici, di
dimensioni medie tra 400 e i 2.500 metri quadri; e le cosiddette superette, la
cui estensione normalmente non supera i 400 metri quadri. Sommati tra loro,
costituiscono un universo diffuso forte di 27mila punti vendita.
Il primo gruppo in Italia per fatturato è Coop, seguito da Conad. Il primo per
performance è Esselunga, che riesce a registrare la cifra record di 16mila euro
di vendite per metro quadro. Ci sono poi i discount, guidati da Lidl ed
Eurospin e i colossi francesi (Carrefour e Auchan).
“Negli ultimi vent’anni”, sottolinea sempre Castaldo, “la gdo ha sostituito
i piccoli commerci. Si tratta di un’evoluzione inarrestabile, segnata però
sempre più da una forte guerra tra i vari operatori. La concorrenza si sviluppa
tra i due estremi: il discount e la fascia gourmet, evidenziata dal successo di
Eataly. Chi è in mezzo e vuole accontentare tutti rischia di non accontentare
nessuno e di perdere la partita”. Ed è così che la principale strategia per
catturare i consumatori è quelle delle offerte, dei volantini, del 3x2, fino
all’aberrazione semantica del “sottocosto”. Ma chi paga veramente il prezzo
delle offerte? In capo a chi vanno i costi degli sconti proposti ai consumatori
finali?
“Un sistema che vive di tangenti più o meno occulte”
Districarsi nell’universo dei contratti tra gdo e fornitori non è un’impresa facile. “Ci vuole molta esperienza o almeno un master in marketing, ma soprattutto esperienza”, sottolinea un operatore del settore. “Ci sono vari livelli di lettura non sempre comprensibili ai non addetti ai lavori”. Molti contratti prevedono infatti diverse voci “fuori fattura”, contributi di vario genere che integrano i listini e corrispondono a servizi che le catene impongono di fatto ai fornitori. C’è innanzitutto la cosiddetta listing fee, cioè una somma da versare per ogni prodotto che viene messo sullo scaffale. In pratica, se vuoi stare sullo scaffale del supermercato ed essere visibile al consumatore, devi pagare la listing fee. Una partita di giro in cui la gdo compra dal fornitore, e il fornitore a sua volta deve pagare la gdo per stare sullo scaffale.
Districarsi nell’universo dei contratti tra gdo e fornitori non è un’impresa facile. “Ci vuole molta esperienza o almeno un master in marketing, ma soprattutto esperienza”, sottolinea un operatore del settore. “Ci sono vari livelli di lettura non sempre comprensibili ai non addetti ai lavori”. Molti contratti prevedono infatti diverse voci “fuori fattura”, contributi di vario genere che integrano i listini e corrispondono a servizi che le catene impongono di fatto ai fornitori. C’è innanzitutto la cosiddetta listing fee, cioè una somma da versare per ogni prodotto che viene messo sullo scaffale. In pratica, se vuoi stare sullo scaffale del supermercato ed essere visibile al consumatore, devi pagare la listing fee. Una partita di giro in cui la gdo compra dal fornitore, e il fornitore a sua volta deve pagare la gdo per stare sullo scaffale.
C’è poi il contributo una tantum che le catene della gdo chiedono ai
fornitori per l’apertura dei nuovi punti vendita. Il ragionamento è semplice:
se un gruppo inaugura un nuovo punto vendita chiede al fornitore di accollarsi
parte del suo rischio di impresa.
Ci sono gli “sconti di fine anno”, spesso imposti retroattivamente dopo la
firma del contratto. O altri sconti che le catene decidono di far scattare e
impongono a posteriori ai fornitori. Dario Dongo, avvocato esperto di diritto
alimentare e fondatore del sito ilfattoalimentare.it, racconta un esempio
concreto: “A un certo punto qualche anno fa il gruppo Carrefour Italia ha
deciso di premiare la fedeltà dei suoi clienti con sconti sulla spesa applicati
a tutti i possessori di Carta Spesamica. Il gruppo, al fine di remunerare
questa iniziativa promozionale decisa unilateralmente, ha richiesto un
contributo straordinario a tutti i fornitori delle merceologie fresche quali
ortofrutta, carne, pesce, salumi e formaggi, gastronomia e panetteria, ovvero
uno sconto pari al 20 per cento sul consegnato di una settimana”.
Non si tratta di cifre da poco. Nel 2013, l’autorità antitrust ha condotto
un’indagine conoscitiva del settore della gdo,
con un focus particolare proprio sul rapporto con i fornitori. Un’indagine resa
necessaria, come si legge nella stessa premessa, dalle segnalazioni dei
fornitori della gdo su “presunti comportamenti vessatori” e
“anti-concorrenziali” delle catene di distribuzione “in fase di contrattazione
delle condizioni di acquisto dei prodotti”.
Nel lungo documento sono elencate tutte le pratiche che i diversi attori
della grande distribuzione mettono in atto nei complicati contratti con i
fornitori. Sono stati identificati sei tipi di “sconti” (sconti incondizionati;
sconti target; altri sconti condizionati; sconti logistici; sconti finanziari;
recupero marginalità) e nove tipi di “contributi” (servizi di centrale; fee di accesso del fornitore; gestione e
mantenimento dell’assortimento; inserimento nuovi prodotti; esposizione
preferenziale; contributi promo-pubblicitari e di co-marketing; anniversari,
ricorrenze ed eventi vari; nuove aperture/cambio insegna; altri vari, come
controllo qualità, cessione dati).
Attraverso un questionario inviato a 471 imprese agroalimentari, l’autorità
per la concorrenza fa una vera e propria radiografia dei rapporti tra grande
distribuzione e fornitori. E sancisce che sconti e contributi costano alle
singole aziende fornitrici il 24,2 per cento del fatturato con la catena
cliente. In pratica, un quarto del prezzo effettivo di listino.
Volendo semplificare, se il fornitore vende a 10 il suo prodotto, in realtà
è come se lo stesse vendendo a 7,5, sacrificando il suo margine di guadagno.
“L’effetto di distorsione della concorrenza collegato all’applicazione di oneri
economici per il fornitore appare più probabile in presenza di contributi
applicati unilateralmente dal distributore, a fronte di controprestazioni dalle
quali il fornitore non ritiene di ricavare vantaggio, e comunque non richieste
dal fornitore stesso”, conclude l’anti-trust.
Se l’autorità per la concorrenza usa il linguaggio distaccato dell’analisi
tecnica, altri operatori sono più drastici. In una lettera pubblicata l’anno scorso dal Corriere
Ortofrutticolo, Luigi Asnaghi, che si definisce un buyer pentito della gdo (il buyer è chi è incaricato di selezionare e
acquistare la merce per conto della catena di distribuzione), denuncia “un
sistema che vive di tangenti più o meno occulte e che si illude di continuare a
trarre ricavi e di conseguenza basa i propri conti economici su sconti di fine
anno, contributi promozionali, contributi centralizzazione e mille altre
gabelle spacciate con giustificativi che farebbero invidia al miglior
Machiavelli”. La lettera ha girato molto, dal momento che racconta cose che
pochi si avventurano a dire pubblicamente. Perché mettersi contro la grande
distribuzione organizzata vuol dire pagare un prezzo davvero alto.
Se non mi abbassi, ti cancello
Lo sa bene Fortunato Peron, amministratore delegato della Celox, azienda produttrice di pere che, dopo 20 anni di forniture alla Coop Italia, ha protestato contro quella che considerava una richiesta eccessiva di sconto e si è visto dare il benservito. Peron, che aveva come fornitore unico Coop e ha come core business le pere, ha deciso di rivolgersi all’autorità per la concorrenza. Quest’ultima ha riconosciuto l’“abuso di posizione dominante” e condannato la Coop Italia a una multa di 49mila euro. La Coop si è giustificata dicendo che aveva dato al fornitore un notevole preavviso e ha fatto ricorso al Tar, che ancora non si è pronunciato. Inoltre, ha puntualizzato il gruppo alla nostra richiesta di spiegazioni, quello della Celox è un “caso isolato”: “Negli ultimi 30 anni, sono state 5 le controversie emerse a fronte di un parco di oltre 3.000 fornitori che si dichiarano soddisfatti della collaborazione tra le parti” (la vicenda di Peron-Coop italia è stata ricostruita nei dettagli nell’inchiesta “Le catene della distribuzione” di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello, vincitrice del premio Morrione 2016 e andata in onda su Rainews 24 il 21 gennaio 2017) .
Lo sa bene Fortunato Peron, amministratore delegato della Celox, azienda produttrice di pere che, dopo 20 anni di forniture alla Coop Italia, ha protestato contro quella che considerava una richiesta eccessiva di sconto e si è visto dare il benservito. Peron, che aveva come fornitore unico Coop e ha come core business le pere, ha deciso di rivolgersi all’autorità per la concorrenza. Quest’ultima ha riconosciuto l’“abuso di posizione dominante” e condannato la Coop Italia a una multa di 49mila euro. La Coop si è giustificata dicendo che aveva dato al fornitore un notevole preavviso e ha fatto ricorso al Tar, che ancora non si è pronunciato. Inoltre, ha puntualizzato il gruppo alla nostra richiesta di spiegazioni, quello della Celox è un “caso isolato”: “Negli ultimi 30 anni, sono state 5 le controversie emerse a fronte di un parco di oltre 3.000 fornitori che si dichiarano soddisfatti della collaborazione tra le parti” (la vicenda di Peron-Coop italia è stata ricostruita nei dettagli nell’inchiesta “Le catene della distribuzione” di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello, vincitrice del premio Morrione 2016 e andata in onda su Rainews 24 il 21 gennaio 2017) .
Il direttore della Celox è l’unico a essere uscito allo scoperto, e a
essersi ritrovato con le ossa rotte. Ma non è certo l’unico operatore dei
settori ortofrutticolo e industriale a essere in affanno. Basta parlare con i
fornitori per raccogliere un coro di lamentele diffuse – sempre rigorosamente
anonime – sullo “strapotere della gdo”.
Ma perché i produttori che, anonimamente, denunciano di sentirsi strozzati
dalla gdo non lo fanno pubblicamente? Perché non si appellano all’articolo 62
della legge 27 del 2012 (più nota come “cresci Italia”), che sancisce il
divieto di imporre condizioni gravose, extracontrattuali e retroattive?
“Spesso non c’è scelta perché l’alternativa è il delisting”, racconta un fornitore, che prima di parlare
si assicura mille volte che non sarà citato per nome. Il delistingequivale alla discesa agli inferi: i tuoi
prodotti sono levati dallo scaffale, eliminati dai punti vendita. In un mondo
in cui quasi i tre quarti degli acquisti passano per la gdo, essere tagliati
fuori da quel canale equivale alla morte.
Supercentrali e piccoli burocrati
Si dirà allora: qual è il danno che riceve il grande pubblico? In fin dei conti, parliamo di relazioni commerciali tra distributori e fornitori, soggette alle dinamiche del libero commercio e della concorrenza. Ma a questo punto è utile fare un passo indietro e tornare alla domanda iniziale: chi ci rimette alla fine con le presunte pratiche vessatorie della gdo? Chi paga davvero le famose promozioni e il sottocosto?
Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza londinese Europe Economics , quelle “tangenti più o meno occulte” denunciate da Asnaghi ammontano al livello europeo a una cifra compresa fra i 30 e i 40 miliardi di euro. Si tratta di una cifra colossale, pari a più della metà dei sussidi che la Commissione europea garantisce agli agricoltori comunitari attraverso la politica agricola comune (pac).
Si dirà allora: qual è il danno che riceve il grande pubblico? In fin dei conti, parliamo di relazioni commerciali tra distributori e fornitori, soggette alle dinamiche del libero commercio e della concorrenza. Ma a questo punto è utile fare un passo indietro e tornare alla domanda iniziale: chi ci rimette alla fine con le presunte pratiche vessatorie della gdo? Chi paga davvero le famose promozioni e il sottocosto?
Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza londinese Europe Economics , quelle “tangenti più o meno occulte” denunciate da Asnaghi ammontano al livello europeo a una cifra compresa fra i 30 e i 40 miliardi di euro. Si tratta di una cifra colossale, pari a più della metà dei sussidi che la Commissione europea garantisce agli agricoltori comunitari attraverso la politica agricola comune (pac).
In un certo senso, il denaro pubblico alla fine non è utilizzato per
innovare o migliore la qualità, ma per tenere in piedi un sistema economico
iniquo, in cui il più grande mangia il più piccolo. Come conclude lo stesso
studio, “le pratiche sleali nel commercio limitano la possibilità per i
fornitori di reinvestire nelle loro imprese e creano un grado di incertezza
(alcuni analisti la definiscono ‘paura’) che scoraggia impegni a lungo termine.
Nel corso del tempo, questo ridurrà le possibilità di sopravvivenza di
fornitori competenti e risulterà in una mancanza di innovazione e di
miglioramento della qualità. Alla fine queste pratiche danneggiano il
consumatore”.
Negli ultimi trent’anni la grande distribuzione ha dovuto misurarsi con il
potere contrattuale delle multinazionali, proprietarie di marchi conosciuti e
apprezzati dal grande pubblico, che riuscivano a determinare i prezzi di
vendita dei loro prodotti. È un ragionamento economico elementare: se il
prodotto è rinomato e la domanda è alta, l’offerta è determinata dalla
multinazionale che possiede il marchio, non dalla gdo.
Da questa esigenza sono nate le centrali di acquisto della grande
distribuzione, alleanze tra catene diverse per ottenere risparmi in fase di
contrattazione. In pratica, tra gli anni ottanta e novanta, le imprese della
grande distribuzione si sono messe insieme per contrastare lo strapotere delle
multinazionali.
Le centrali d’acquisto riuniscono più di un gruppo e stabiliscono accordi
quadro con i fornitori. A livello europeo si creano poi delle supercentrali
d’acquisto, che riuniscono catene di diversi paesi.
Una bolla estranea all’economia reale
In un continuo processo evolutivo in cui nascono nuove centrali e singoli gruppi si spostano da una centrale all’altra, negli anni il meccanismo di acquisto delle supercentrali non si è rivolto solo ai cosiddetti brand leader ma a tutti gli anelli della distribuzione, aumentando quindi la forbice di potere tra acquirente e fornitore. Oggi i rapporti di forza tra industria e gdo si sono rovesciati ed è la grande distribuzione a dettare le condizioni.
In un continuo processo evolutivo in cui nascono nuove centrali e singoli gruppi si spostano da una centrale all’altra, negli anni il meccanismo di acquisto delle supercentrali non si è rivolto solo ai cosiddetti brand leader ma a tutti gli anelli della distribuzione, aumentando quindi la forbice di potere tra acquirente e fornitore. Oggi i rapporti di forza tra industria e gdo si sono rovesciati ed è la grande distribuzione a dettare le condizioni.
Inoltre, gli accordi conclusi a livello di centrale o di supercentrale non
sono vincolanti: sono degli accordi quadro, che possono essere ridiscussi al
ribasso dai buyer locali. Insomma, una
ragnatela complessa in cui è davvero difficile districarsi.
Ma come si è arrivati a questo punto? Per capire cosa è successo è bene
ridare la parola all’anonimo fornitore, che opera nel settore da più di
vent’anni: “Il punto è che ormai gli acquisti sono affidati a buyer che non conoscono l’industria né i prodotti,
ma sono tenuti solo a rispettare i cosiddetti obiettivi di crescita. Devono
portare a casa ogni anno un aumento di qualche punto percentuale dei margini di
guadagno. Quindi, badano solo a quella cifra lì nell’ultima casella del
contratto. Tutte le discussioni sulle materie prime, lo stato dell’agricoltura,
i costi industriali non li toccano minimamente. Quando ne parli con loro è come
se ti esprimessi in sanscrito”.
Lo stesso Asnaghi scrive nella sua lettera: “Il prezzo più basso è
stabilito da personaggi (buyer) che nel tempo
sono stati svuotati di professionalità ed esperienza (doti non più
discriminanti) in luogo di una sterile teoria figlia di logiche
commercial-estortive”.
“È un sistema estremamente frammentato,
di cui non beneficia nessuno. Perché i singoli buyer locali
badano ai propri margini di guadagno. Nessuno si fida dell’altro e alla fine ci
perdono tutti”, aggiunge Andrea Meneghini, esperto di commercio ed
editorialista per il sito specializzato Gdonews. “I buyer locali
spesso vogliono portare a casa margini più alti e vogliono dimostrare che sono
più bravi di quelli nazionali e delle centrali”.
Conferma l’anonimo operatore: “Il problema è che i vari livelli non si
parlano tra loro: nel clima di sfiducia generale, il fornitore cerca solo di
salvare la pelle. Tira in avanti i negoziati. Accetta gli sconti e i contributi
e nel frattempo aumenta i prezzi di listino per recuperare. Così, alla fine si
perde in qualità o in funzionalità”.
In definitiva, si tratta di una specie di bolla che poco ha a che vedere
con l’economia reale, il costo delle materie prime, le rese di un raccolto o
quant’altro. Tutto ruota intorno alla “obiettivizzazione”, cioè agli “obiettivi”
di crescita annuale che la grande catena impone ai suoi buyer e ai manager dei suoi punti vendita, e che
devono essere raggiunti a ogni costo.
Se i buyer si rifanno sui fornitori, che con una mano
concedono i contributi e con l’altra aumentano i prezzi di listino (quando
hanno abbastanza potere contrattuale), i manager si rifanno invece sui
dipendenti, con una crescente contrazione delle condizioni di lavoro, che passa
attraverso contratti sempre più precari e meno garantiti. Perché, anche se
controlla il 70 per centro della distribuzione alimentare, la gdo classica non
se la passa poi così bene.
A leggere la relazione annuale che l’area studi di Mediobanca
dedica alla gdo, si vede che, con l’importante eccezione dei
discount e di Esselunga, le grandi catene stanno soffrendo parecchio. In
particolare, i gruppi francesi hanno perso cifre mostruose in Italia:
Carrefour, 2,47 miliardi di euro dal 2011 al 2015; Auchan, 560 milioni. La Coop
è riuscita a non perdere solo grazie ai contributi della gestione finanziaria.
Secondo la rivista di settore Food, per il 2016 “le prime stime lasciano poco
spazio all’ottimismo. Il mondo del largo consumo deve accontentarsi nel
migliore dei casi di incrementi di qualche decimo percentuale e soprattutto fa
un passo indietro rispetto ai risultati del 2015”, come scrive Domenico
Apicella in “Retail, la ripresa che non c’è” (Food speciale retail 2017, in
collaborazione con Iri, gennaio 2017).
In uno scenario economico volatile, i manager della gdo devono districarsi
tra esigenze dei consumatori, tendenze di mercato, fluttuazioni dei costi,
provando a immaginare il futuro della distribuzione.
A pagarne le conseguenze sono in primo luogo i lavoratori, come nel caso di
Carrefour che ha annunciato la chiusura di tre ipermercati, con il
licenziamento di 500 dipendenti. La grande catena francese – secondo gruppo al
mondo dopo lo statunitense WalMart – sta provando varie formule per far fronte
al collasso italico: ha aperto diversi negozi di prossimità, che costano meno e
rendono più degli ipermercati, e nei supermercati classici ha lanciato il
modello ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Locali sempre
aperti, in cui si punta sul taglio del costo del lavoro a fronte dell’aumento
delle mansioni: i cassieri di notte svolgono molte funzioni e hanno contratti
meno garantiti dei lavoratori diurni, come racconta un’inchiesta di Christian Raimo pubblicata da
Internazionale.
La trappola della merce
In un universo estremamente competitivo, gran parte delle catene reagisce alle perdite tagliando sul costo del lavoro interno, tenendo sotto giogo i fornitori e abbassando il prezzo di vendita dei prodotti.
In un universo estremamente competitivo, gran parte delle catene reagisce alle perdite tagliando sul costo del lavoro interno, tenendo sotto giogo i fornitori e abbassando il prezzo di vendita dei prodotti.
Gli articoli vengono così ceduti a un costo nettamente inferiore al loro
valore. La conseguenza è che questo valore viene perso di vista dal consumatore
finale. “È la cosiddetta trappola della merce (commodity)”,
aggiunge il professor Sandro Castaldo, citando la fortunata formula coniata
dall’esperto di marketing statunitense Richard A. D’Aveni. “Si è trasformato il
cibo in una merce, prodotto uguale a se stesso in tutto il mondo, e lo si è
distaccato dal modo in cui viene prodotto. Questa ‘trasformazione in commodity’ ha permesso alla grande distribuzione
d’imporre prezzi più bassi ai fornitori. Ma alla fine non giova nemmeno a lei,
perché ha di fatto scatenato una gara al ribasso, in cui perdono tutti”.
La gdo vende sottocosto e impone listing fee e
sconti vari ai fornitori. Questi sacrificano la qualità e tagliano il costo del
lavoro, per non rimetterci. Andando giù per la filiera, c’è uno strozzamento
che colpisce tutti gli anelli. Nei campi di pomodori o di arance, la raccolta è
pagata a quattro soldi e gestita spesso dai caporali, intermediari illeciti tra
i lavoratori e gli imprenditori agricoli. Nell’immaginario collettivo, il
caporale è il grande colpevole, lo sfruttatore e schiavista nei campi. Ma forse
è necessario allargare lo sguardo e analizzare i meccanismi che generano il
caporalato e lo sfruttamento.
Negli stessi giorni in cui partiva la raccolta delle arance in Calabria e
centinaia di immigrati affluivano nella tendopoli di San Ferdinando per
lavorare nei campi, all’uscita della stazione di Rosarno il viaggiatore era
accolto con un cartellone della Coop di tre metri per due: “Arrivano prezzi
sempre più bassi”. Il manifesto, in quel luogo simbolico dove nel 2009 c’è stata
la rivolta dei braccianti, troneggiava come una contraddizione in termini. Il
maggiore gruppo italiano della gdo, infatti, è impegnato con la campagna buoni
e giusti a garantire legalità e assenza di sfruttamento e
caporalato sui prodotti che vende. Ma in definitiva, per tenere i prezzi
“sempre più bassi”, ci si può trovare obbligati a ricorrere proprio al lavoro
sottopagato e al caporalato. E, in questa frenetica corsa al ribasso, il
caporale rischia di essere metaforicamente e indirettamente la stessa gdo,
insieme a ognuno di noi, che compriamo sottocosto senza chiederci chi pagherà
davvero il prezzo del nostro effimero risparmio.
da qui
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