domenica 28 aprile 2013

(in)utilità della vivisezione

...Thomas Hartung, tossicologo di fama internazionale a capo per anni dell'Ecvam, ama ricordare come l'aspirina sia velenosa per gli animali da laboratorio e un miracolo per gli umani. Claude Reiss, luminare della biologia molecolare francese, sostiene che i test di tossicità sugli animali sono “inutili e dannosi”. E già nel 2004 il prestigioso British Medical Journal auspicava una moratoria degli esperimenti animali chiedendosi: “Dove sono le prove che le sperimentazioni animali portano beneficio alla medicina?”. 
“Il grande pubblico è ancora convinto che ogni grande progresso medico è stato ottenuto grazie alla sperimentazione sugli animali”, sostiene Marco Mamone Capria, matematico ed epistemologo presso l'università di Perugia e presidente dell'associazione Hans Ruesch, impegnato a dimostrare – come molti scienziati – che la vivisezione non è soltanto eticamente ingiusta, ma scientificamente inutile...

può dare prove del fallimento della vivisezione sul piano clinico ovvero nella medicina umana?
Innanzitutto andrebbe ricordato che, in base a una stima della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, il 92 per cento dei farmaci provati sicuri nei test su animali falliscono nelle fasi cliniche. I sostenitori della sperimentazione animale a scopo medico cercano di aggirare questo risultato, davvero desolante, obiettando che bisogna considerare anche quanti farmaci nocivi sono stati evitati grazie ai test su animali. Ma come si fa saperlo, se i risultati negativi sugli animali bloccano l'iter del farmaco prima delle fasi cliniche? Ci si dovrebbe, piuttosto, preoccupare dei farmaci che avrebbero funzionato sull'uomo e di cui invece non sapremo mai che efficacia clinica abbiano. Per esempio, è ben noto che l'individuazione della causa dell'ulcera gastrica nel batterio detto helicobacter pylori, scoperta premiata con il Nobel nel 2005 e che ha aperto la via alla cura antibiotica di tale disturbo, è stata ritardata dal tentativo di mostrare che la stessa cosa succedeva negli animali; come ha raccontato lo scopritore, Barry Marshall, alla fine dovette risolversi all'autosperimentazione – una pratica, peraltro, molto più comune di quanto le storie ufficiali della medicina raccontino.

Non dobbiamo più fidarci dei farmaci che assumiamo perché sono testati sugli animali?
La conseguenza non vale, perché, per esprimerci nei termini dell'epistemologia neoempirista, confonde tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. Questo però non vuol dire che l'efficacia dei farmaci in commercio sia molto elevata, perché in effetti non lo è, come è stato ammesso anche autorevolmente. E d'altra parte per i soli Stati Uniti si stimano in 100.000 circa le vittime annuali per reazione avversa da farmaco, che nelle forme più gravi colpisce in tutto, annualmente, 2 milioni di persone. Ciò premesso, la sola ragione genuina per fidarsi di un farmaco è in ogni caso la prova che ha dato di sé sugli umani. E qui non mi riferisco in primo luogo alle prove cliniche che precedono l'immissione in commercio, e che spesso vengono svolte non dopo ma parallelamente alle prove su animali. Mi riferisco invece all'esperienza “sul campo”, cioè dopo la commercializzazione. Proprio per questo diversi studiosi consigliano ai medici di prescrivere, di preferenza, i farmaci più “antiquati” invece delle “ultime novità”…

anche i celiaci mangiano


…sono 135.800 i celiaci diagnosticati in Italia (solo un quarto di quelli stimati, 600mila soggetti); oltre 115mila le diagnosi accertate in età adulta. E il numero di nuovi casi registrati in Italia cresce del 19% ogni anno. 
A causa dell’estrema variabilità dei sintomi con cui si manifesta la celiachia, sono necessari in media sei anni per ottenere una diagnosi sicura. I diritti dei pazienti celiaci sono tutelati dalla legge 123 del luglio 2005, “Norme per la protezione dei soggetti malati di celiachia”. È la legge quadro sulla celiachia, con la quale il Governo italiano stabilisce “l’erogazione gratuita di prodotti dietoterapeutici senza glutine” ai celiaci, introdotta per la prima volta nel 1982. I tetti di spesa -definiti nel 2001 dall’allora ministro della Salute, Umberto Veronesi, confermati nel 2006 e applicati da ogni Regione sulla base di apposite leggi regionali- sono suddivisi per fasce d’età e sesso e ammontano a 140 euro al mese per gli uomini e 99 euro per le donne. Per i bambini, invece, è prevista l’erogazione di un buono del valore di 45 euro fino a un anno di età, di 62 euro fino a 3 anni e mezzo, e di 94 euro fino a 10 anni. Questi buoni sono spendibili per l’acquisto di prodotti senza glutine iscritti nel “Registro nazionale dei prodotti destinati ad un’alimentazione particolare”, 2.600 referenze facilmente identificabili dal logo ministeriale. 

Il mercato del senza glutine muove un’economia che vale 237 milioni di euro: di questi, il 67,5% (161 milioni di euro) è coperto dagli alimenti erogati dal Sistema sanitario nazionale. Il resto del mercato comprende “la spesa con la quale i celiaci integrano il contributo pubblico e quella delle persone che, pur non avendo una diagnosi definitiva di malattia, decidono di escludere il glutine dalle loro diete”, spiega Caterina Pilo, direttrice generale dell’Associazione italiana celiachia (Aic, www.celiachia.it). 
L’appeal che i prodotti privi di glutine esercitano tra i cittadini si può tradurre in una percentuale: +6,4%, la crescita del fatturato del mercato nel 2012. Fino ai primi anni 2000 l’erogazione gratuita dei prodotti per celiaci veniva fatta solo nelle farmacie, ma da quando è stata introdotta la diversificazione del mercato (fino ad oggi in 12 Regioni) i buoni sono spendibili anche nella grande distribuzione o in negozi al dettaglio convenzionati. Tuttavia, ancora oggi il 74,3% (176 milioni di euro) del mercato del senza glutine viene dal fatturato delle vendite in farmacia, che pure ha registrato nel 2012 un calo dell’1,8%. Nella grande distribuzione, infatti, i prezzi sono inferiori fino al 40% rispetto alle farmacie: secondo una ricerca condotta dall’Aic nel gennaio 2011, per l’acquisto dello stesso “paniere senza glutine” una famiglia spende in media 39,53 euro al supermercato e 60,25 euro in farmacia. Anche per questo, la quota di mercato dei prodotti senza glutine nella Gdo -che oggi vale il 25,7% (61 milioni di euro) del mercato complessivo- sta conoscendo una rapida crescita e ha registrato nel 2012 un +22% rispetto all’anno precedente. Tutto quello che non si trova sugli scaffali della grande distribuzione lo si può cercare nei negozi al dettaglio diffusi sul territorio nazionale: una costellazione di presidi specializzati (quelli che accettano i buoni del Servizio sanitario nazionale devono essere autorizzati dall’Unità locale socio sanitaria di riferimento) che offre un maggior numero di referenze e prezzi inferiori fino al 15% rispetto alle farmacie, ma non sempre concorrenziali rispetto ai supermercati.

Se oggi l’eliminazione del glutine dalla dieta è l’unica terapia conosciuta per la tutela dei pazienti affetti da celiachia, il mondo della ricerca è al lavoro per studiare nuove tecniche produttive, valorizzando la lievitazione naturale e il recupero di antichi cereali. “I processi più rapidi e diffusi nella produzione su scala industriale sono la lievitazione chimica, che avviene sviluppando anidride carbonica, e l’uso del lievito di birra, che attiva una fermentazione alcolica” spiega Marco Gobbetti, del dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti dell’Università di Bari. Un’altra possibilità è l’uso del lievito naturale, la pasta madre, per una lievitazione che richiede tempi lunghi, ma ha molti vantaggi dal punto di vista sensoriale, nutrizionale e della conservazione del prodotto. Continua Gobbetti: “Nella fermentazione con il lievito naturale alcuni polimeri, tra cui alcune proteine responsabili della celiachia, sono in parte degradati” e il prodotto finale risulta più digeribile. Per degradare tutto il glutine e raggiungere la soglia di tollerabilità per i celiaci, i ricercatori dell’Università di Bari sono intervenuti sul processo di fermentazione microbica: hanno aumentato a 24 ore il tempo della lievitazione e selezionato i batteri lattici coinvolti nella fermentazione in base alla loro capacità di degradazione. “Abbiamo recuperato l’antica tecnica della lievitazione naturale per adattarla a un’esigenza particolare sfruttando dei microrganismi presenti in natura”, spiega Gobbetti. Gli esperimenti condotti su 20 soggetti in due ospedali a Roma e Napoli hanno avuto un riscontro positivo: fino ad ora il 100% dei pazienti celiaci ha tollerato i prodotti a base di farina di grano il cui glutine era stato completamente degradato. “I bassi costi e la possibilità per tutti di mangiare prodotti a base di grano sono i principali vantaggi che deriverebbero dall’applicazione di questa biotecnologia”, conclude Gobbetti…

Terra Bruciata - Voci dalla nuova frontiera della colonizzazione - Danilo Licciardello e Simone Ciani.

Frutti dimenticati, per un futuro sostenibile


Nell'ultimo secolo, in Italia, alcune specie di frutta come albicocco, ciliegio, pesco, pero, mandorlo e susino hanno registrato una perdita di varietà pari a circa il 75%, con punte massime per albicocco e pero, dal tasso di sopravvivenza varietale di appena il 12%. Nel solo Sud Italia, tra il 1950 e il 1983, è stato riscontrato che delle 103 varietà locali mappate durante il primo sopralluogo, solo 28 erano ancora coltivate poco più di trent'anni dopo. 
Perfino una coltura che è orgoglio dell’Italia, come quella della vite da vino, sembra essersi terribilmente “impoverita” nell’ultimo secolo: a partire dalla ricostituzione dei vigneti conseguente alla diffusione della fillossera (insetto dannoso per la vite) avvenuta a fine Ottocento, il numero dei vitigni, coltivati all’epoca in alcune migliaia (400 nella sola provincia di Torino), è sceso nel 2000 a circa 350, di cui 10 soltanto occupano il 45% della superficie vitata italiana…
Per frutti del passato, antichi e dimenticati, si intendono quelli che negli ultimi 50 anni hanno conosciuto un lento e silenzioso abbandono,per l’affermazione della frutticoltura moderna o industriale. Si trattava di produzioni localizzate, selezionate in numerose varietà nel corso dei
secoli; dovevano resistere a stress biotici causati da funghi, batteri, nematodi e insetti vari, perché non c’erano gli anticrittogamici, e a quelli abiotici dipendenti dalla disponibilità idrica e dalla qualità dell’acqua, dalla qualità della luce, dalla temperatura.
La sottoutilizzazione delle colture porta anche un impoverimento culturale, tanto più in Italia, paese che per i prodotti di nicchia ha un ruolo importante, con oltre 200 produzioni certificate che rappresentano più del 20% del totale europeo. Le indicazioni geografiche sono una dimostrazione del legame tra territorio, cultura e agricoltura, ma va notato che la maggior parte della biodiversità coltivata e dei saperi tradizionali ad essa associati sono custoditi in una categoria di aziende in genere condotte da persone sopra i 65 anni…

sabato 27 aprile 2013

Pesticidi: i 10 frutti e legumi più contaminati


L'utilizzo di pesticidi come quelli che si conoscono (insetticidi, funghicidi e erbicidi) è cominciato negli anni Settanta. Quaranta anni più tardi questa pratica è divenuta regola d'oro e numerosi residui di pesticidi si trovano nei nostri alimenti. Ricordiamo che secondo recenti studi possono essere la causa di cancro e presentare minacce per la fertilità maschile e lo sviluppo del feto.
Ogni anno l'Autorità europea della sicurezza alimentare (Efsa) analizza circa 70.000 alimenti per conoscere il loro tenore in residui di pesticidi. Ecco quello che è stato trovato, come lo riassume il libro dell 'ingegnere agronomo Claude Aubert Mangiare bio, è meglio!
-I residui di 338 pesticidi diversi nei legumi
- 319 nella frutta
-93 nei cerali
-35 nei prodotti animali
Tuttavia tutti i frutti e i legumi non sono toccati alla stessa maniera. Fra i meglio protetti: le cipolle, gli scalogni e l'aglio (con soltanto il 13,6% di campioni contaminati), gli spinaci (24,5%), gli asparagi e i porri (24,6%) o i legumi radici, come le patate o ravanelli (26%).

venerdì 26 aprile 2013

Oggi “compio” 12 anni. Vi racconto la mia vita dopo l’incidente - Simone Fanti


Fatemi gli auguri. E sì compio ben 12 anni. Alle 0.25 del 25 aprile del 2001 ho iniziato la mia seconda vita. Né peggiore né migliore di quella di prima, solo molto diversa. Anzi giocando con le parole quel giorno sono diventato un diversamente vivente. Che c’è da festeggiare? Beh l’alternativa, non certo allettante, sarebbe stata diversamente morto… La metto sul ridere, almeno ci provo, ma è un riso amaro. Se mi fosse data la possibilità di scegliere il mio destino certo non avrei selezionato l’opzione vita in sedia a rotelle. Ci sono tante altre vite che all’apparenza appaiono più interessanti. Ma così è andata.
Giocare con il proprio passato può essere utile e catartico. Può farti capire il percorso che hai fatto, che sei in viaggio verso una meta, può farti comprendere che sei vivo. Situazione che non era una certezza dodici anni fa sull’asfalto di Luino. Guardarsi alle spalle serve anche a fare i conti con se stessi, a far pulizia di tutto quello che è inutile, a non ripetere gli stessi errori. C’è stato un periodo, appena dopo l’incidente che mi ha reso paraplegico in cui ho sentito il bisogno di riempire l’esistenza di cose, spesso non importava se fossero realmente importanti. Ho riempito la mia vita di persone per poi scoprire che ne bastano poche, ma scelte con cura. Ho riempito la mia vita di flirt, per poi scoprire che una sola donna può saturare la tua esistenza d’amore. Ho riempito la mia scrivania di iniziative per poi non essere mai soddisfatto dei risultati. Il tutto per dimostrami che una vita normale è possibile. Oggi forse svuoterei un po’ l’agenda per lasciare più spazio alle emozioni vere e al pensiero…

giovedì 18 aprile 2013

i rifiuti differenziati


La telefonata della Spazzina Indignata arriva attorno alle 8 di mattina, quando la raccolta differenziata dovrebbe essere già a buon punto (il turno inizia alle 6.30) e invece, da Campo de' Fiori ai Coronari, da largo Argentina a Trinità dei monti, i sacchetti di «monnezza» svolazzano allegramente tutti insieme.
Per i non addetti ai lavori - tutti noi, a cominciare dai cittadini-utenti del centro storico perennemente alle prese con le buste multicolori, le piazzole a orario e l'odore di marcio fetente negli androni - la segnalazione è una sorta di messaggio in codice. Un rebus difficile da decrittare. Ma, per capire fino in fondo misteri e disfunzioni organizzative del servizio, è proprio da qui che bisogna partire: dal duro lavoro degli addetti Ama e dal viaggio spesso impazzito dei rifiuti.
«Stamattina - dice tutto d'un fiato l'operatrice dei compattatori - siamo nel caos più totale. Non siamo in condizione di fare quel che i cittadini si aspettano! Mancano i camion dell'umido, quelli che caricano le buste rosa, e a Campo Boario non c'è neanche il mezzo dedicato, detto bilico. Abbiamo a disposizione solo quello del "nero", l'indifferenziata...». D'accordo, e cosa significa in concreto? «Vuol dire che oggi quintali di scarti che i cittadini hanno pazientemente selezionato, gli avanzi di cibo, il pane, i fiori, i tovaglioli sporchi, finiscono assieme a tutto il resto: la gente fa la differenziata e noi la disfiamo! Tutto lavoro sprecato, una presa in giro!». Detta così, fa cadere le braccia. Il guaio è che, fotografie alla mano, esattamente questo succede: basta seguire con attenzione i passaggi…

martedì 16 aprile 2013

Rifiuti Zero, di Rossano Ercolini




«Sono sotto choc. Sapevo che il mio lavoro era conosciuto e seguito da molti, ma non pensavo che lo fosse anche a livello internazionale». Rossano Ercolini, 58 anni, fondatore del movimento «Rifiuti Zero», stenta ancora crederci. Perché vincere il «Goldman Environmental Prize 2013», conosciuto come il «Nobel dell'ecologia», non è cosa da tutti. Lui ci è riuscito lunedì. Erano 15 anni che il riconoscimento non veniva assegnato a un italiano (l'ultima fu Anna Giacobbe, nel 1998): un premio importante anche in denaro - 150 mila dollari - che rappresenta ad oggi la più grande somma corrisposta per l’attivismo ambientale di base.
«Sono sotto choc. Sapevo che il mio lavoro era conosciuto e seguito da molti, ma non pensavo che lo fosse anche a livello internazionale».Rossano Ercolini, 58 anni, fondatore del movimento «Rifiuti Zero», stenta ancora crederci. Perché vincere il «Goldman Environmental Prize 2013», conosciuto come il «Nobel dell'ecologia», non è cosa da tutti. Lui ci è riuscito lunedì. Erano 15 anni che il riconoscimento non veniva assegnato a un italiano (l'ultima fu Anna Giacobbe, nel 1998): un premio importante anche in denaro - 150 mila dollari - che rappresenta ad oggi la più grande somma corrisposta per l’attivismo ambientale di base…

lunedì 15 aprile 2013

Impariamo a mangiare sano con i cibi vegetali - Luciana Baroni


Abituarsi a basare la propria dieta prevalentemente o esclusivamente sui cibi vegetali è un modo efficace e piacevole per rimanere in buona salute. Una dieta vegetariana equilibrata è realizzabile semplicemente assumendo un’ampia varietà di cibi vegetali, sani, gustosi e sazianti: cereali, legumi, verdura e frutta.
Tutti i vegetariani per definizione non mangiano carne, pesce e volatili. Quelli che includono nella dieta i derivati del latte e le uova vengono propriamente definiti latto-ovo-vegetariani, mentre quei vegetariani che escludono dalla dieta questi prodotti di origine animale indiretta vengono propriamente definiti vegani o vegetariani totali. Una dieta latto-ovo-vegetariana è vantaggiosa per la salute, ma la dieta vegana è la più sana, in quanto si è dimostrata in grado di ridurre il rischio di molte comuni malattie croniche.

La salute cardiovascolare
I vegetariani hanno livelli di colesterolo nel sangue molto inferiori rispetto ai carnivori, e le malattie cardiovascolari sono poco diffuse tra i vegetariani. Le ragioni sono di non difficile comprensione: i cibi vegetali sono tipicamente poveri di grassi saturi e totalmente privi di colesterolo, che sono i fattori dietetici responsabili dell’aumento dei livelli di colesterolo nel sangue.
I vegani, in particolare, seguono un dieta virtualmente priva di colesterolo, dal momento che questo
grasso si trova solamente nei cibi animali come carni, latticini e uova.
Il tipo di proteine fornite da una dieta vegetariana è un altro importante aspetto vantaggioso per la salute. è stato infatti dimostrato che la sostituzione delle proteine animali con proteine vegetali è in grado di ridurre i livelli di colesterolo nel sangue, anche se non vengono modificati la quantità ed il tipo di grassi della dieta. Molti studi dimostrano che una dieta a limitato contenuto di grassi, a base vegetale, presenta vantaggi documentabili rispetto ad altri tipi di diete.

La riduzione dei valori di pressione arteriosa
Un impressionante numero di studi, a partire dagli anni ‘20, dimostra che i vegetariani presentano livelli
di pressione arteriosa inferiori a quelli dei nonvegetariani. è stato inoltre dimostrato che l’aggiunta
di carne a una dieta vegetariana aumenta in modo rapido e significativo i livelli di pressione arteriosa.
Gli effetti di questo tipo di dieta sono indipendenti e si sommano a quelli della riduzione del contenuto di
sodio della dieta. Quando i pazienti ipertesi adottano una dieta vegetariana, spesso sono in grado di ridurre o abbandonare i farmaci antipertensivi.

Il controllo del diabete
I più recenti studi sul diabete dimostrano che una dieta a elevato contenuto di carboidrati complessi (che si trovano solo nei cibi vegetali) e a ridotto contenuto di grassi è la migliore prescrizione dietetica per il controllo del diabete. Una dieta a base di verdura, legumi, cereali integrali e frutta, naturalmente a ridotto contenuto di grassi e zuccheri semplici, è in grado di abbattere significativamente i livelli di glicemia e spesso ridurre o persino eliminare il ricorso ai farmaci antidiabetici. Se questo effetto è spesso clamoroso nel diabete tipo 2, risulta molto utile anche nel diabete tipo 1. Sebbene infatti tutti i diabetici di tipo 1 (insulino- dipendente) dipendano dall’assunzione dell’insulina, questo tipo di dieta può permettere anche a questi pazienti di ridurre i fabbisogni di insulina.
Visto poi che i diabetici presentano un rischio elevato di sviluppare malattie cardiovascolari, ’eliminazione dalla dieta di grassi e colesterolo è il principale obbiettivo della terapia dietetica del diabete, e per questo la dieta vegetariana è l’ideale.

La prevenzione dei tumori
Le diete a base di cibi vegetali possono aiutare a prevenire alcuni tipi di tumore. Gli studi condotti su popolazioni di vegetariani mostrano che i tassi di mortalità per cancro sono circa metà/tre-quarti di quelli della popolazione generale. Il tumore della mammella ha una incidenza drammaticamente ridotta in quei Paesi dove le diete sono tipicamente basate su cibi vegetali.
Quando soggetti appartenenti a queste popolazioni adottano una dieta occidentale, basata su cibi animali, l’incidenza di tumore della mammella sale alle stelle.
I vegetariani presentano anche un’incidenza ridotta di tumore del colon rispetto ai carnivori. Il consumo di carne risulta più strettamente associato con il tumore del colon di qualsiasi altro fattore di rischio dietetico.
Perché dunque le diete vegetariane aiutano a difenderci dal cancro? Innanzitutto, perché sono povere
di grassi e ad elevato contenuto di fibre rispetto alle diete basate su cibi animali…

martedì 9 aprile 2013

Peter Joseph - La Grande Domanda

una grande meta

aggiustatutto

"L'idea - spiega Vallauri, trapiantato a Londra da Bra - mi è venuta dopo la mia collaborazione in Africa con la organizzazione non governativa britannica Computer Aid. In Kenya ho imparato approcci meno spreconi dei nostri. Lì non ci si sbarazza facilmente di qualcosa che può essere riparato. Si aggiusta tutto. Mentre noi spesso compriamo oggetti non dettati dalla necessità, ma dalla
pigrizia e dalla mancanza delle conoscenze necessarie per la manutenzione di quelli che abbiamo già. Il nostro obiettivo non è offrire delle riparazioni gratuite, ma sconfiggere l'obsolescenza programmata e recuperare la manualità in una società esasperata dal consumismo". 

Il primo Restart Party si è tenuto lo scorso giugno ed è stato subito un successo. "Sin dall'inizio abbiamo raccolto l'interesse - continua Vallauri - non solo di chi spesso è frustrato dalla macchinosa e scoraggiante burocrazia delle garanzie previste dalle aziende produttrici, ma anche di chi vuole mettere la propria manualità e il proprio saper fare al servizio degli altri". E il prossimo passo dell'organizzazione sarà proprio creare sul sito therestartproject.org una rete che metta in contatto chi cerca servizi con chi li offre: appassionati di riparazioni, sviluppatori di software, etc.

Complice la crisi economica, la cultura della riparazione sta soppiantando quella dell'usa e getta anche Oltremanica. In Olanda gli antesignani Repair Cafe sono oramai una trentina e hanno persino ricevuto una sovvenzione governativa di quasi mezzo milione di euro…

domenica 7 aprile 2013

Latte e formaggio sono la principale causa alimentare dell’osteoporosi


L’Osteoporosi è stata considerata da sempre una Malattia da carenza dietetica: la carenza di Calcio.
Ma attenzione: la questione è diversa e tuttavia molto semplice da capire; la principale causa alimentare di osteoporosi non è la carenza di calcio, bensì l’eccesso di proteine animali. Se quindi si basa la propria alimentazione su di un eccesso di alimenti che ne sono ricchi come latte, latticini, formaggi … ma naturalmente anche carne … cosa pensate che possa accadere?.
Diamo la parola alla Scienza Medica.
L’assunzione di un Alimento ricco di Calcio, ma ricco pure di Proteine animali, provocherà una tale produzione di scorie acide che tutto il Calcio che questo Alimento contiene dovrà essere utilizzato come Tampone. Spesso anzi questa quantità di Calcio non è sufficiente, e l’Organismo deve aggiungerne “di suo”. Il risultato è che l’Osso, giorno dopo giorno, cede più Calcio di quanto la Dieta non gliene possa fornire, andando inevitabilmente incontro ad una riduzione della Massa Ossea, processo denominato appunto “Osteoporosi“…
Non risulta quindi tanto importante la quantità di Calcio contenuta in un Alimento, quanto la proprietà di questo Alimento di non sottrarre Calcio dall’organismo: è il concetto di Bilancio del Calcio, che solo se rimane Positivo (cioè quando le entrate superano le uscite) permette di preservare la Salute dell’Osso. 
Tuttora viene propagandata l’assunzione di alimenti ricchi di Calcio nella Prevenzione e Trattamento di questa Malattia che affligge gran parte della Popolazione anziana dei Paesi Civilizzati. Sì, non di tutto il Pianeta, ma solo dei Paesi ricchi, dove l’assunzione di Calcio con la Dieta è molto elevata. Siamo arrivati a dosi giornaliere raccomandate di 1200-1500 mg di Calcio nelle donne in Menopausa, ed ancora non bastano. Perchè in questi Paesi ricchi l’incidenza di Fratture (parametro epidemiologico per monitorare i tassi di Osteoporosi nella Popolazione) è di gran lunga più elevata che nei Paesi poveri, in alcuni dei quali le Fratture sono praticamente sconosciute…

Le proteine animali, essendo ricche di aminoacidi solforati, quando vengono degradate producono scorie acide (acido solforico), le più acide che l'organismo sia in grado di generare, e che deve eliminare al più presto. Perchè questi prodotti acidi possano passare attraverso le delicate mucose delle vie urinarie, devonono essere neutralizzati, ed il tampone che l'organismo utilizza è proprio il calcio. Quel minerale che è depositato nell'osso e lo rende resistente alle sollecitazioni piccole e grandi, anno dopo anno, per tutta la vita.
L'assunzione di un alimento ricco di calcio, ma ricco pure di proteine animali, provocherà una tale produzione di scorie acide che tutto il calcio che questo alimento contiene dovrà essere utilizzato come tampone. Spesso anzi questa quantità di calcio non è sufficiente, e l'organismo deve aggiungerne "di suo". Il risultato è che l'osso, giorno dopo giorno, cede più calcio di quanto la dieta non gliene possa fornire, andando inevitabilmente incontro ad una riduzione della massa ossea, processo denominanto appunto "osteoporosi".
Non risulta quindi tanto importante la quantità di calcio contenuta in un alimento, quanto la proprietà di questo alimento di non sottrarre calcio dall'organismo: è il concetto di bilancio del calcio, che solo se rimane positivo (cioè quando le entrate superano le uscite) permette di preservare la salute dell'osso…

Esistono diversi studi eminenti che dimostrano come l'osteoporosi sia più frequente nelle popolazioni a maggior reddito rispetto a quelle più povere...Il problema è nella forma sotto cui il calcio viene assunto...Assumendo alimenti come il latte vaccino e i formaggi che sono ricchi di calcio ma anche di proteine animali, il calcio assunto non è sufficiente a limitarne le perdite...Le proteine introdotte nell'organismo per essere utilizate devono degradate a singoli aminoacidi costituenti; poichè molti di questi sono solforati, la loro degradazione comporta la formazione di acido solforico che deve essere neutralizzato. Per neutralizzare l'acido solforico, l'organismo utilizza dei sistemi tampone di cui entra a far parte il calcio. Pertanto l'organismo utilizza il calcio contenuto in alcuni alimenti contenenti proteine animali per neutralizzare i derivati delle proteine stesse e spesso il calcio contenuto negli alimenti non è nemmeno sufficiente, per cui si concretizza la situazione limite per cui l'organismo per neutralizzare l'acido solforico deve pure utilizzare il calcio contenuto nelle ossa...con conseguente osteoporosi...meglio allora introdurre alimenti vegetali contenenti molto calcio e poche proteine (cavoli, broccoli, fagioli, ecc)

poveri nuotatori


…Lo studio ha confrontato un gruppo di 112 nuotatori a livello agonistico (nuoto praticato 4-5 volte a settimana) con una popolazione scolastica, maschile e femminile, di 217 studenti di pari età, che pratica sport in maniera amatoriale o non lo pratica affatto. In entrambi i casi sono stati misurati i gibbi, la cifosi e la lordosi ed è stato fornito ai ragazzi un questionario per rilevare la presenza di mal di schiena. 
I risultati sono stati sorprendenti per gli agonisti, ma anche per gli amatori: i nuotatori, soprattutto le femmine, presentavano delle asimmetrie del tronco più accentuate ed erano ipercifotici, di conseguenza con una frequenza maggiore di dorsi curvi e mal di schiena.

"Dal punto di vista posturale, il nuoto induce a un collasso della schiena - spiega Zaina - e allena soprattutto la muscolatura degli arti, essendo praticato in scarico, non la schiena. Quando si parla di agonismo poi, con carichi di lavoro di ore, il nuoto induce il mal di schiena. Per chi ha la scoliosi arriviamo a sconsigliare il nuoto, decisamente. Non c'è distinzione neanche tra i vari stili: la rana e il delfino possono aumentare il mal di schiena nei casi di spondilolistesi, nel caso cioè in cui le vertebre scivolino una sull'altra. Quindi il nuoto non solo non è terapeutico, ma a livello posturale si rivela anche dannoso. Se lo si pratica a livello amatoriale non crea problemi, ma come qualsiasi altro sport, praticato un paio di volte a settimana".
Un altro mito che viene sfatato da altre ricerche, parallele e connesse a questa, condotte da Isico è che gli sport asimmetrici come il tennis inducano o peggiorino la scoliosi. "Non è vero neanche questo. La correlazione che c'è fra sport e mal di schiena è la quantità e interessa sia chi ne fa troppo sia chi ne pratica troppo poco", dice Zaina. "L'ideale è scegliere uno sport, tenendo presente che attività molto mobilizzanti della colonna (ginnastica artistica e ritmica, ad esempio) ci mettono più a rischio, soprattutto in casi di predisposizione naturale, mentre sport in carico (come la corsa) contribuiscono a rinforzarla perché ci costringono a vincere la forza di gravità".

mercoledì 3 aprile 2013

La dieta del digiuno intermittente


È l’ultima dieta del momento: in Gran Bretagna la definiscono “digiuno intermittente” e sul grado di pervasività che rischia di avere nei prossimi mesi c’è quasi da scommetterci.
Detta anche “5:2”, questa fast diet proposta dal giornalista della BBC Michael Mosley, di concerto con la collega Mimi Spencer, è già un must in Inghilterra e prima ancora di diffondersi nel resto d’Europa ha iniziato a spopolare oltreoceano dove l’obesità cresce a ritmi sostenuti.
Il meccanismo  è semplice: mangiare regolarmente per cinque giorni intervallandoli con 48 ore di quasi digiuno. Gli effetti, sostengono gli autori, sono immediati: rapida perdita di peso in cambio di un sacrificio sostenibile. «I nostri antenati hanno vissuto alternando grandi abbuffate a digiuni, a seconda di come andava la caccia», ragiona l’autore.
Nei due giorni di digiuno, le calorie vanno ripartite in due pasti, colazione e cena, per attenuare il senso di fame: si mangiano, ad esempio, uova sode e prosciutto al mattino,  pesce bollito e verdure scondite alla sera, bevendo sempre molta acqua e tisane.
La dieta definisce rigorosamente la quantità massima di calorie da assumere nelle giornate di “sacrificio”: 500 per le donne e 600 per gli uomini. Afferma Michael Mosley: «Queste calorie equivalgono al 20-25% delle dosi energetiche acquisite nei restanti giorni», durante i quali ci si può permettere di tutto, sia pur con moderazione.
La possibilità di non escludere carboidrati, carne rossa, cibi fritti e dolci rende la filosofia del “5:2” più comoda rispetto ad altre recenti proposte dietetiche  come  la dieta Dukan e Tisanoreica, tuttavia, la comunità scientifica si è divisa.
«Siamo di fronte all’ultima trappola», commenta Enzo Spisni, docente di fisiologia della nutrizione presso l’Università Alma Mater di Bologna. «La dieta ha effetti sul controllo del peso nel breve periodo, ma può essere dannosa a lungo termine. Purtroppo le diete sono sempre viste come specie di gabbie da chi deve seguirle e questa è un po’ meno stretta delle altre, ma non favorisce certo una corretta educazione alimentare nel paziente»…

I biocombustibili si mangiano le risorse... - Dario Dongo


Come per incanto, pannocchie e girasoli prendono il posto di benzina e gasolio. Dal campo alla strada, odore di frittura anziché di catrame. È tutto così “verde”, é tutto così “bio” – anzi, é tutto così F-A-L-S-O! I ministri europei ora devono scegleire se è meglio nutrire i bimbi affamati o saziare i SUV catalizzati? Action Aid! e Oxfam all’attacco.
Ma quanto costa? Mescolare i combustibili fossili ora in uso nel settore trasporti con il 10% di “bio-carburanti” significa sottrarre alle produzioni alimentari il 26% delle terre arabili del pianeta. Solo nel 2008, produrre cibo anziché “biofuels” avrebbe risparmiato dalla fame 127 milioni di esseri umani, poco più del doppio della popolazione italiana.
E dove si trova? Le monocolture intensive di derrate agricole primarie chiedono terra e acqua. Il mais da etanolo è pagato più di quello per le tortillas, e la sua produzione infatti prevale già nel primo Paese produttore, gli USA. Ma la terra non basta, e il business fiorisce…