domenica 17 maggio 2020

L’altraeconomia rilanci le sue reti - Alberto Castagnola



Quando si parla di economia alternativa e di economia solidale negli ultimi quindici anni, il pensiero va subito alle logiche da seguire per creare e far evolvere sistemi di produzione, di scambio e di consumo che siano completamente diversi da quelli tipici dell’economia dominante , in genere di tipo capitalistico, e che siano in grado, almeno concettualmente, di sostituirsi ai comportamenti basati sulla concorrenza portata agli estremi, sulla crescita senza limiti , ai guadagni e all’accumulazione di ricchezza come obiettivo centrale,  sempre presenti in tutti gli attori e che tante conseguenze negative hanno causato a tante popolazioni e agli stessi equilibri del pianeta. Il primo schema emerso e subito adottato in molti luoghi (almeno nell’esperienza italiana), è quello dei distretti di economia solidale.
Esaminando le esperienze subito moltiplicatesi e ancora oggi in corso, lo schema adottato era semplice, anche se ovviamente faticoso nella sua applicazione pratica. Comportava individuare attività che seguissero logiche diverse, in particolare produzioni che non seguissero i criteri di tipo industriale e chimico imposti dal sistema dominante, tipi di produzione primaria biologiche (ma anche basate sui principi della permacultura, della bioenergetica, ecc.), e che utilizzavano  spesso  varietà e semi antichi o tipici dei luoghi; vendite basate su rapporti diretti tra agricoltori e consumatori, prezzi fissati in comune che tenessero insieme presenti le condizioni alle quali operavano i contadini e i livelli reali di reddito degli acquirenti; famiglie che curavano particolarmente le qualità dei cibi evitando al massimo quelli industrializzati e quelli eventualmente dannosi per la salute; contatti e scambi anche culturali tra produttori e consumatori con visite e conoscenze reciproche dirette anche a migliorare le condizioni di vita dei villaggi e dei piccoli centri urbani. In alcuni casi si tendevano a realizzare anche forme economiche più complesse, come iniziative di prefinanziamento da parte dei consumatori nei confronti dei produttori  e l’organizzazione di feste e mercati legati alle stagioni  e alle tradizioni locali.
Si operava quindi in direzione di una continuativa estensione dei territori coinvolti e della costituzione di sistemi economici a piccola scala  molto innovativi e diversificati, che dovevano nel tempo moltiplicarsi e intensificarsi. Le esperienze così connotate si sono moltiplicate  specie nei primi anni 2000 e costituivano il presupposto per allargare progressivamente le aree interessate, sottratte in misura crescente alle lusinghe del capitale.
Nei primi anni erano molto chiare la visione alternativa adottata e le potenzialità di processi sempre più estesi e coinvolgenti, un vero e proprio “modello” o immagine sociale molto attraente. Oggi dobbiamo constatare che il numero delle aree coinvolte si è ridotto e soprattutto perchè si sono realizzate su una scala molto minore del previsto le espansioni orizzontali sui territori? E’ una domanda che dobbiamo porci se non vogliamo restare vincolati a schemi superati o se vogliamo evitare di perdere di fatto esperienze preziose che potrebbero fornirci indicazioni fondamentali.

Una seconda modalità di azione che sembra aver perso la capacità di spinta e di moltiplicazione che caratterizzavano i suoi inizi mi sembra sia costituita dai gruppi di acquisto solidale, non tanto perché il loro numero non è aumentato come si auspicava (sicuramente  ne continuano a sorgere in varie zone), quanto perché molti di essi sembrano aver perso di fatto la componente alternativa e solidale, e funzionano solo con acquisti collettivi e di prodotti alimentari migliori, avendo scarse relazioni con i produttori e approfondendo assai poco le tematiche generali della industrializzazione dei cibi e del loro rispetto per l’ambiente .
Ma soprattutto risulta assi raro che si preoccupino di ampliare la loro area di azione e o di generare altre iniziative similari nel loro territorio o in quelli vicini. Sembrano anche essere piuttosto rare le iniziative di “gemmazione” di altri Gas una volta superato un certo numero di aderenti oppure di ricercare nuovo forme di relazione con i produttori a ciascuno di essi più noto, ad esempio sperimentando forme di prefinanziamento delle attività agricole o lanciando forme di collaborazione e scambio anche a livello culturale.
Nella fase più creativa i Gas erano stati visti come dei nuclei di base di una economia dei consumi alternativa, e soprattutto come dei gruppi di persone particolarmente motivate e qualificate per diffondere l’economia solidale a scala territoriale, sperimentando in particolare la costituzione di entità di governo a livello locale  radicalmente alternative.
Oggi queste speranze sono ancora realizzabili oppure devono essere di fatto abbandonate? Dobbiamo anche chiederci se abbiamo fatto tutti gli sforzi necessari per stimolare all’interno dei vecchi e nuovi gas l’emergere di esigenze più alte rispetto al solo consumo alimentare più qualificato e se oggi (con la crisi economica  e con l’accelerazione della crisi ambientale) esistono le condizioni per una loro massiccia  partecipazione ad attività e campagne di interesse più generale, sempre nell’ambito delle logiche dell’economia solidale.
Un interesse particolare , nell’ottica dell’economia solidale, riveste la campagna Bilanci di Giustizia, che da molti anni coinvolge intere famiglie nella elaborazione di accurate analisi dei loro consumi, con lo scopo di ridurre progressivamente quelli più dannosi per l’ambiente e di effettuare scelte anche non alimentari più orientate alla tutela degli equilibri del pianeta. 
Sul piano pratico, può sembrare un lavoro faticoso (che peraltro può in gran parte essere svolto dai membri adolescenti o dagli anziani ancora attivi della famiglia) ma i risultati sono ottimali in termini di incidenza sui meccanismi economici e della comprensione approfondita dei danni ambientali dei comportamenti giornalieri. In realtà questo tipo di metodologia dovrebbe essere adottata, su scale diverse, in quasi tutte le esperienze di economie alternative e solidali che decidessero di valutare costantemente in termini quantitativi le dimensioni reali della sottrazione dalle logiche dominanti e della crescita effettiva del sistema alternativo.
Emergerebbero anche i punti di maggiore difficoltà ad ottenere risultati concreti e insieme il valore reale della costruzione di una economia di tipo solidale funzionante secondo logiche sue proprie. In altre parole, stabilire forme di collaborazione concrete tra i diversi gruppi impegnati, per mettere a punto strumenti quantitativi e procedure controllabili farebbe nascere (e gestire) un nuovo campo di elaborazione e di riflessione anche strategica.
Una analisi diversa sembrano invece richiedere le esperienze di agricoltura alternativa , che negli anni più recenti sono in fase di  moltiplicazione in diversi territori.
Molte delle realtà di agricoltura biologica risultano essere interessate a collegarsi tra loro, in genere con forme consortili, per raggiungere dimensioni  più capaci di inserimento sui mercati tradizionali e su quelli sostenibili e alternativi. Più di recente, sono emerse iniziative che si definiscono CSA, cioè una agricoltura sostenuta dai consumatori, che fa riferimento anche ad esperienze estere analoghe.

Oltre a definire schemi ben determinati di rapporti tra agricoltori e consumatori, in molti casi si approfondiscono i contenuti di una “politica del cibo” che riguarda un centro urbano o un territorio delimitati, attraverso la costituzione di “Consigli per il cibo” che fanno incontrare tutti gli operatori , gli esperti e i funzionari locali competenti e nel cui ambito vengono formulati criteri e strategie di intervento in tutti i comparti privati e pubblici coinvolti.
A giudicare dalle prime esperienze avviate, si tratta di una forma molto avanzata di rapporti tra produzione agricola, politiche alimentari, qualità del cibo e scelte dei consumatori; esistono molte esperienze all’estero e alcune in Italia, (Milano, Roma, ecc.).
Si può notare che  relazioni fortemente alternative tra produttori e consumatori sono tra le più avanzate sul piano economico in campo agricolo-alimentare, anche se le dimensioni e le estensioni raggiunte da queste esperienze sono ancora piuttosto limitate, mentre i tempi delle trasformazioni necessarie sono sempre più ristretti, data la velocità e le accelerazioni che caratterizzano in questa fase i meccanismi climatici.
In altre parole, quali metodi si possono mettere in pratica per moltiplicare rapidamente queste esperienze alternative? Come si riesce a coinvolgere sempre più famiglie in relazioni dirette con produttori di beni di consumo essenziali? L’organizzazione sempre più frequente di mercati non tradizionali, in particolare quelli fortemente caratterizzati dalla vendita di prodotti  tipici locali, può essere accompagnata da attività dimostrative e formative volte ad esaltare la convenienza dei prodotti alternativi in contesti dominati dalle logiche dei supermercati?
Più di recente, si sta analizzando più attentamente il fenomeno dei “patti” tra agricoltori e consumatori, in quanto si tratta di uno strumento che dovrebbe agevolare fortemente tali relazioni innovative. Però di patti se ne possono immaginare molti tipi, da quelli che prevedono addirittura forme diverse di prefinanziamento delle attività agricole, arrivando perfino alla programmazione delle coltivazioni sulla base del contributo economico, dei desideri e delle capacità di consumo delle famiglie coinvolte, e d’altra parte possono stimolare una presenza costante dei consumatori finali sulle terre coltivate, attraverso una partecipazione non passiva alle varie fasi delle attività agricole.
Ci si può chiedere,  tuttavia, se queste relazioni si possono realmente sviluppare all’interno delle maggiori concentrazioni urbane  oppure se  i patti possono essere difficili da immaginare per le produzioni intensive o molto specializzate.
In ogni caso le esperienze in corso dovrebbero essere al più presto analizzate al fine di evidenziare le caratteristiche emergenti e le difficoltà che incontrano, onde immaginare senza ritardi soluzioni e forme più congrue.
Durante i più recenti incontri a scala sia nazionale che regionale o territoriale delle organizzazioni che si riconoscono nell’economia solidale, si è spesso cercato di individuare le logiche più profonde che vengono seguite o che stanno emergendo. In questa sede non è possibile trattare questo tema in modo scientifico, e le considerazioni che seguono sono al massimo delle prime approssimazioni analitiche.
In primo luogo, che rapporti hanno le singole organizzazioni con le reti alle quali aderiscono o con quelle dalle quali si tengono distanti? In effetti negli ultimi anni è il concetto stesso di “rete” che è stato messo in discussione  e in molti territori è stato lasciato cadere o si è svuotato lentamente.
Negli ultimi anni sembra che si stia risvegliando l’esigenza di programmare rapporti più sistematici tra organismi che aderiscono a forme di coordinamento, però non sembra si aspiri a realizzare forme organiche di relazioni, quanto piuttosto si mettono in piedi – con molta semplicità e senza ricorso a delle formalizzazioni o alla formulazione di documenti che contengono principi e finalità da condividere – delle forme di puro collegamento, spesso solo comunicativo e su base informatica, evitando obiettivi di incontro e di scambio, e limitandosi a organizzare mobilitazioni per scopi specifici e limitati nel tempo. 
Nel corso dell’ultimo anno si sono ottenuti risultati non indifferenti in termini di manifestazioni e campagne, mentre i rari tentativi di potenziare le integrazioni hanno finora mostrato molti limiti.
Per quanto riguarda in particolare l’economia alternativa e solidale solo di recente si è rilanciata una sede nazionale di relazioni basate su adesioni e con obiettivi predefiniti, mentre sembra prevalgano le situazioni di uno splendido isolamento e di massima autonomia operativa.
Sempre nell’ottica delle caratteristiche dell’economia solidale, resta aperto il problema del perché venga ignorata quasi completamente l’importanza del “lavoro di rete”, cioè del ruolo che le  relazioni di scambio e di collaborazione tra le organizzazioni aderenti ad una rete possono mettere in moto con molta creatività, e i risultati che si possono ottenere in termini di diffusione e di potenziamento verso l’esterno di una rete ben funzionante.
La condivisione degli impegni assunti e dell’interesse reciproco tra gli aderenti può inoltre aumentare enormemente il peso di una rete nei suoi confronti verso l’esterno, rendendo più facili ed efficaci i tentativi di allargamento della rete stessa e di una maggiore incidenza sulle realtà circostanti.
In molti casi, il lavoro di rete viene inoltre considerato un onere aggiuntivo rispetto alle attività necessarie per mantenere in vita le rispettive organizzazioni, trascurando quindi il fattore di proiezione verso l’esterno della rete nel suo complesso.
Se questo elemento di analisi è corretto, questa potrebbe essere una spiegazione (parziale e incompleta) delle difficoltà incontrate dalle esperienze di economia solidale a diffondersi nei territori vicini e a cominciare a costruire sistemi economici alternativi sempre più complessi.
Se questo è vero, la persistenza di pochissime reti e il sostanziale rifiuto da parte dei collegamenti,  molto numerosi ma poco integrati, oggi esistenti di trasformarsi in reti più complesse e dinamiche è destinato a prolungarsi nel tempo, riducendo di molto le potenzialità di diffusione e di articolazione sui territori dell’intera gamma di esperienze di economia solidale.
Si può solo sperare che l’uso di nuove terminologie, come ad esempio l’ assunzione del termine “economie trasformative” possa in realtà rappresentare un cambiamento profondo dei comportamenti nelle relazioni tra organismi di economia solidale, accompagnati da una molto maggiore quantità di scambi di esperienze e da un maggiore impegno per moltiplicare tali esperienze sui territori, aumentando nel contempo la diffusione e la mutazione di relazioni sostanziali.

Un ulteriore aspetto richiede di essere analizzato in profondità. Negli ultimi anni si è parlato spesso di “beni comuni”, anche se poi le esperienze basate sulla loro identificazione e sul loro impossessamento sono rimaste piuttosto limitate e non sembrano essersi abbastanza maturate. Esiste tuttavia una vasta letteratura in materia, che però non sembra essere stata fortemente acquisita dal mondo dell’economia solidale. Questa teorizzazione si basa su alcuni concetti base, che si possono richiamare in modo molto sintetico.
Ogni comunità, dal villaggio alle cittadine, dovrebbe individuare sul rispettivo territorio le componenti del loro patrimonio naturale o artistico considerate essenziali e da conservare intatte ad ogni costo.
Quindi un ruscello o un fiume, una fonte, una zona di foresta, una spiaggia, una collina con la sua vegetazione intatta, ma anche una miniera non più in uso o una produzione agricola tipica; ma anche chiese, monumenti zone archeologiche, case dove abitavano personaggi noti, ma anche una festa tradizionale o un mercato particolarmente attraente.
Questi beni dovrebbero essere documentati, dichiarati di interesse per la collettività locale e poi protetti e valorizzati, nell’interesse delle più grandi comunità di appartenenza e anche di un turismo qualificato. Questi beni diventati comuni permettono alle comunità di organizzarsi per difenderli e valorizzarli e di svolgere tutte le attività che permettono di proteggerle da qualunque danno e di usarle senza logorarle.
La moltiplicazione su ogni territorio di questa visione collettiva di base potrebbe costituire un ostacolo fondamentale per tutte le iniziative esterne animate solo da scopi di lucro e far scomparire ogni passività rispetto ad azioni scorrette da parte di imprese e governi nazionali e regionali.
In Italia possiamo ricordare  l’esperienza durata quattro anni di Riace, distrutta in poche settimane  da un ministro che la considerava “pericolosa” per la propria politica contraria ad ogni movimento migratorio, e la situazione di Napoli, dove si sono realizzati già otto centri culturali e di animazione sociale, di grande utilità per le popolazioni di quartieri finora privi di interventi di questa natura. 
Queste ipotesi legate al sorgere di forme di autorganizzazione di base dovrebbero essere considerate di estremo interesse  per le economie solidali in via di costruzione, perché costituiscono un ampliamento della visione complessiva e prefigurano dei processi di sperimentazione di livelli intermedi di gestione  dei territori e delle comunità che partono dal basso.
Oltre a queste considerazioni , suggerite dalle esperienze di economia solidale già operanti, si possono poi ricordare alcune esigenze, che dovranno con ogni probabilità essere affrontare nei prossimi mesi ed anni, se l’obiettivo di espandere l’economia solidale non vuole essere spinto ai margini di fenomeni sociali e ambientali ormai in fase acuta.
In primo luogo, le esperienze di economia solidale, che un tempo erano praticamente all’avanguardia per le scelte in favore delle produzioni biologiche, oggi dovrebbe tenere conto in misura molto maggiore degli effetti della crisi climatica (oltretutto in via di accelerazione), causati da fenomeni molto complessi e da eventi estremi.
Tutte le esperienze dovrebbero chiedersi se i loro piani di lavoro tengono conto del peggioramento in corso e delle mutate condizioni di vita specie nelle grandi città e nelle zone maggiormente inquinate, e contemporaneamente discutere se le soluzioni nelle produzioni e nei consumi  finora proposte includono i comportamenti – ad esempio, ridotti consumi energetici, alimentazione strutturalmente diversa, rispetto delle risorse idriche, rimboschimenti, interventi idrogeologici, ecc. – che stanno diventando sempre  più urgenti. E’ sicuramente un lavoro non facile, soprattutto per i tempi sempre più stretti, ma che non può essere evitato e che dovrebbe iniziare subito.

Un secondo aspetto riguarda le spinte e le procedure per una più rapida diffusione delle diverse forme di economia solidale, onde coinvolgere sempre più zone di territorio e fasce di popolazione; in particolare dovrebbero essere elaborate forme di “gemmazione”, cioè di riproduzione delle esperienze in corso in altre zone degli stessi territori o addirittura in territori più distanti.
Molte esperienze si sono finora evolute e ingrandite a partire da se stesse, come se il collegamento con la  matrice iniziale fosse l’unica garanzia di rispetto delle proprie idee e dei propri progetti iniziali, mentre forse oggi dobbiamo con maggior sicurezza proiettare all’esterno il nostro patrimonio culturale affinché molte più persone riescano a sottrarsi agli effetti negative delle nostre società di appartenenza.
Una terza considerazione riguarda la necessità di far adottare i principi dell’economia solidale in campi che finora non hanno visto emergere esperienze significative di questo tipo. Gli esempi  di settori che non hanno espresso forme analoghe a quelle alternative e solidali potrebbero essere molti; a titolo di esempio ricordiamo le attività produttive di tipo industriale ma che non si possano ricondurre alla Green economy, l’artigianato, le imprese occupate e dirette da operai che richiedono il sostegno  delle popolazioni vicine, le prime lavorazioni di prodotti alimentari non su basi industriali, le piattaforme informatiche che agevolano gli scambi di prodotti  alternativi, e così via.
Infine, occorrerà mettere a punto delle modalità di collaborazione, anche solo puntuale o di breve periodo, con altri movimenti, reti e forme varie di collegamenti e coordinamenti (non ultimi quelli espresse dai giovani delle scuole e dalle donne che difendono le loro priorità), che perseguano obiettivi socialmente rilevanti e urgenti.
Per concludere, sempre a titolo puramente indicativo, si possono indicare alcune linee di lavoro che dovrebbero essere sempre in via di svolgimento sia all’interno dei collegamenti e delle reti, sia dei territori con maggiori potenzialità di diffusione dell’approccio di economia solidale:
1.      Momenti di discussione e approfondimento sui problemi sociali di maggiore urgenza, onde aumentare la sensibilità politica  all’interno e nei confronti dell’esterno
2.      Momenti di autoformazione abbastanza sistematici (percorsi di lettura, gruppi di discussione  collettiva, possibilmente con un facilitatore e dei materiali predisposti
3.      Momenti di formazione di giovani già attivi, aperti a partecipazioni di altri organismi e del territorio
4.      Elaborazione di analisi nei territori in cui si opera e in quelli vicini, onde individuare urgenze, difficoltà e scadenze di partecipazione
5.      Analizzare con continuità esperienze significative, anche in territori lontani, dalle quali trarre suggestioni e stimolazioni
6.      Mappare gli organismi similari che sono attivi nel proprio territorio e in quelli vicini, aggiornando periodicamente le diverse situazioni
7.      Produrre dei semplici dossier dove siano contenuti materiali informativi e video sulle attività svolte dalla rete e dai territori dove si opera, e curarne la distribuzione ad un certo numero di organismi che possono interessare la rete; la creazione di un sito sarebbe auspicabile, ma richiede una alimentazione garantita da un certo numero di persone
Tutte queste attività non vanno perseguite insieme, anche se non si deve dimenticare che non appena avviate possono alimentarsi reciprocamente (se si incontra una organizzazione non aderente  si integra la mappa, i materiali per la formazione si possono inserire sul sito, esistono già dei blog che possono essere utilizzati, e così via).
Un ultima riflessione riguarda le reti già esistenti o appena formate che organizzano apposite assemblee con l’obiettivo di tracciare le linee di azione condivise e con la speranza di poter subito dopo definire piani di mobilitazione e di attività largamente condivise.

Durante la quarantena ho avuto la possibilità di esaminare attentamente i resoconti di alcuni di questi incontri che, essendosi svolti tramite zoom, realizzavano in contemporanea il testo di tutti gli interventi.
Pur trattandosi di incontri molto partecipati, nella maggior parte dei casi i singoli presenti presentavano gli obiettivi o le caratteristiche della rispettiva esperienza oppure evidenziavano un particolare modo di azione, quasi fossero contenuti sufficienti per l’operato collettivo.
In altre parole, solo pochissimi enunciavano modalità d’azione che potessero coinvolgere tutti e chiedevano agli altri di pronunciarsi sul merito, in modo da poter iniziare a costruire un pacchetto di idee e di priorità sulle quali garantire il massimo della partecipazione.
In sostanza dai testi sembrava prevalere un forte attaccamento alla validità della rispettiva esperienza e una visione molto limitata del le esigenze del mondo esterno e delle urgenze di azioni comuni e allargate (capaci tra l’altro di risultare attraenti per organismi ancora non contattati).
Se questa descrizione è realistica (si spera sempre che questi tentativi di lettura più approfondita delle realtà del movimento vengano criticate e dando però luogo ad elaborazioni più profonde e più condivise) si può tentare di individuare le cause di questi atteggiamenti e di evidenziarne i limiti, in modo da pervenire a delle proposte di riduzione od eliminazione di tali limiti, e quindi di dare spazio a comportamenti più avanzati, dei quali c’è un estremo bisogno.
Sembra molto probabile che le singole esperienze, per quanto valide e rappresentative, abbiano in realtà dedicato poco tempo alle analisi delle realtà economiche e sociali a scala nazionale (a parte una ovvia collocazione “a sinistra” e una partecipazione politica tradizionale conseguente), cioè tutte le intense e impegnative attività svolte negli anni sono state assorbenti al punto che si è poco pensato a come esse avrebbero potuto contribuire a cambiate il loro territorio o a modificare i meccanismi complessivi di danno ambientale.
In altre parole, sembra aver prevalso la logica del colibrì (“io faccio la mia parte”) di fronte all’incendio, atteggiamento eticamente valido e umanamente ammirevole, ma che intanto ha visto rafforzarsi fino alla soglia della catastrofe i meccanismi economici dominanti e diffondersi il degrado delle strutture sociali nazionali.
Oggi, dati i livelli estremi raggiunti durante una pandemia mondiale (isolamento, quarantene, limiti agli spostamenti, ecc.) e i tempi non superiori agli otto anni per intervenire in modo efficace sul riscaldamento globale, sembra opportuno aggiungere al livello di impegno raggiunto da tutte queste realtà una capacità maggiore e crescente di analisi generali e di lotte concrete,  in modo da superare la soglia critica  dell’incidenza sulla realtà.

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