Poche altre cose umane mobilitano la
totalità del fare, del dire e del sentire quanto la malattia e la guarigione,
il malessere e la sua risoluzione. E ne mettono in evidenza il carattere di
collettività, di fatto sociale totale.
L’antropologia medica (o del corpo o
della malattia o della salute) insiste sulla pluralità dei modi anche
compresenti di gestione e di trattamento della malattia, oltre che sulla
diversità dei tipi di addetti, dei rapporti, dei saperi, dei contesti culturali
che danno senso e sollievo al malessere. Oggetto principale di un’antropologia
medica è la coesistenza di sistemi medici diversi, di diversi tipi di
concezioni e di pratiche di guarigione, cosa molto tipica, da tempo, anche della
nostra cultura occidentale come di tante altre in ogni tempo e luogo.
Oggi le concezioni e le pratiche mediche
non possono che essere viste come una pluralità in coabitazione più o meno
difficile, anche presso di noi in Occidente dove domina e intende dominare ciò
che diciamo biomedicina scientifica, o meglio, forse, le varie biomedicine
scientifiche, anch’esse piuttosto plurali nella loro articolazione interna, e
tra l’altro oscillanti fra pubblico e privato, welfare e mercato, e
nell’asimmetria delle possibilità di accesso alle cure e ai farmaci.
Molti studi e ricerche di etnomedicina e
di demoiatria offrono documenti della pluralità di pratiche, di concetti, di
terapeuti, di sistemi medici riscontrabili in varie parti del mondo, anche da
noi quando documentano ciò che rimane come ‘medicina popolare’, mentre oggi la
pluralità medicale interna ed esotica si assomma nelle nostre città plurali,
dove la diversità e la pluralità del mondo si riproduce in ogni luogo. Gli
studiosi, compresi i raccoglitori locali di medicina popolare, non sono alieni
dal pensare questa loro documentazione (che è anche documentazione della
pluralità medica interna a un contesto sociale) come una prova di ricchezza
piuttosto che di confusione, arretratezza, contraddittorietà. Documentare
l’esistenza di modi di guarigione ereditati per vie non ufficiali e perfino
illegali, nelle campagne del Terzo Mondo e non solo, oggi come ieri, dà conto
della varietà odierna dei modi di concepire la malattia e di guarirne, con la
possibilità di confronti e comparazioni, come nel caso della fenomenologia
dell’efficacia simbolica dei gesti di cura o degli stati alterati di coscienza.
Ancora oggi come in altri tempi in
Europa i guaritori sono in parte manipolatori e/o erboristi e spesso anche
‘esorcisti’. In luoghi come la Sardegna era diffusa la credenza in individui,
soprattutto donne ‘spiritate’ (spiridadas), capaci di operare diagnosi e
guarigioni prodigiose con l’aiuto di uno spirito aiutante, come pure di far
ammalare per suo tramite. Nel mondo cattolico e ortodosso anche i preti erano
considerati in grado di esercitare il bene (la guarigione, l’esorcismo) o di
infliggere il male (la malattia soprattutto) con l’intermediazione di questi
spiriti, qualificati variamente come anime dannate o beate, diavoli o angeli o
santi. I sinodi condannano spesso gli abusi della credulità popolare da parte
del basso clero, i cui membri soprattutto nelle campagne e sulle montagne erano
considerati i massimi esperti nel fare e nello sciogliere malefici.
I guaritori odierni operano con varie
commistioni di pratiche e credenze popolari di lunga tradizione locale o di
recente importazione (comprese pranoterapia e perfino omeopatia), anche quando
si definiscono maghi o maghe. La giustapposizione delle cure e delle concezioni
(magismo residuale o nuovo, cristianesimo popolare, spiritismo, esoterismo)
sono tipiche di questi terapeuti, che sembrano prediligere l’efficacia dei
simboli, cioè delle liturgie del gesto e della parola, anche in quanto capaci
di rafforzare le difese reattive dell’organismo.
Il tema più importante e più proprio
dell’antropologia medica sembra quello della pluralità dei ‘percorsi di
guarigione’, ai quali i malati ricorrono con disinvoltura. Anche studi italiani
recenti documentano come la medicina popolare tradizionale, così come sussiste
e persiste ancora oggi specialmente nel Sud e nelle isole e nella montagna più
a lungoisolata, ha suoi modi di concepire il malessere e suoi modi di efficacia
terapeutica, degni di studio, dalle eziologie alle diagnosi alle terapie e alle
prevenzioni in quanto sapere sia comune, sia di specializzazioni individuali a
volte col sigillo del segreto di mestiere. Di solito il malato e i suoi parenti
e sodali si trovano, forse oggi più di ieri, di fronte a una pluralità di visioni
e di pratiche, e quindi di scelte più o meno sovrapposte dove trovare senso e
rimedio.
Come ogni crisi, la malattia è anche
crisi di senso, anche in quanto vissuta in pluralità di riferimenti, di
concezioni e di pratiche in cui configurare il malessere e rispondergli. E se
l’esperienza della malattia è vissuta in modi diversi, essi però convergono
nell’emergenza di un individuo sofferente, devono convergere con la duttilità
imposta dalle situazioni, dove i diversi percorsi di senso e di cura non devono
contraddirsi, ma la flebo, la preghiera cattolica e lo scongiuro ‘pagano’
devono fare sinergia con le spiegazioni della malattia basate sul destino non
meno che sulla provvidenza.
Il pluralismo è già nel sistema
biomedico ufficiale, non solo risultato delle diverse medicine compresenti. La
medicina tradizionale, popolare e subalterna spesso non appare meno sicura di
sé, di fronte ai poteri di controllo del corpo da parte dello Stato, del
mercato, delle istituzioni religiose e di fronte alla tendenza della
biomedicina a imporsi come unica legittima e valida. La capacità della medicina
tradizionale subalterna (e quindi del guaritore tradizionale) di dare senso al
malessere e sollievo al sofferente risiede nella sua sicurezza di esserne
capace; e in ciò si distingue dallo sperimentalismo della medicina ufficiale,
che sa ammettere le sue impotenze.
La contrapposizione tra sistemi medici
spesso non è esplicita. La medicina popolare non muove attacchi critici alla
biomedicina, si estranea dalle complesse questioni giuridiche, etiche e morali.
Ma il guaritore tradizionale è in un campo di rapporti di forza dove il malato
(o chi per lui) fa le scelte del caso sul proprio corpo e sulla propria salute.
E queste scelte, che tra l’altro hanno a che fare con rapporti di potere sia
locali che più vasti, non tengono conto di distinzioni nette tra razionale e
irrazionale, empirico e scientifico, sacro e profano, magico e scientifico ecc,
se non altro perché soprattutto il dolore non si lascia distinguere in e da
questi ambiti e non si presta a partizioni nette tra concezioni e relative
pratiche, e neppure tra azione e comprensione. Tenere la mano e parlare a chi
soffre è spesso meglio di un farmaco, come sappiamo tutti, meno, a volte, gli
operatori della medicina ufficiale.
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