Studiare
come si mantengano ancora modi e mestieri di cura tradizionale è dovere non
solo di chi si propone di estirpare le consuetudines non laudabiles e
gli errores, che da secoli in Europa sono oggetto della lotta della
medicina ufficiale contro l’empiria, l’ignoranza, la magia.
Anche le
varie forme di cristianesimo hanno lottato contro concezioni e pratiche mediche
tradizionali, specie contro le pratiche coreutiche di guarigione, quali il
tarantismo, in Puglia oggi mobilitato in funzione identitaria. Ma questa
costruzione dell’identità locale comporta un rovesciamento di prospettiva del
tarantismo stesso, sindrome considerata vergognosa dal punto di vista sociale:
ma oggi, sull’onda della rivalutazione neo-tradizionalista, si assiste a
rappresentazioni dove attrici riproducono il mesto corteo che, nel giorno di S.
Paolo, riuniva a Galatina le tarantate per chiedere la grazia. Così per l’àrgia sarda,
terapia coreutico-musicale cui si ricorreva per guarire dal morso di un ragno:
esperienza angosciosa e dispendiosa, oggi danza e musica sono espressioni
gioiose in concerti e in feste di piazza, avvertite come specificità locale
identitaria. Se in Sardegna il bisogno di eutanasia non ha prodotto una figura
‘professionale’ come la cosiddetta acabbadora, ha però prodotto la
figura dell’acabbadora, cioè la personificazione di un problema sempre e
dappertutto sentito e patito. Etnografie spontanee su questa figura sono mosse
dal bisogno di credere nella sua esistenza reale, e questo è aspetto importante
del fenomeno, anche dal punto di vista della bioetica che si occupi di fine
vita, che da noi ha prodotto la personificazione fantastica di un problema sempre
e dappertutto sentito e patito, forse per metabolizzare una responsabilità
morale, individuale e collettiva come quella del volere porre fine a
interminabili sofferenze finali. Il bisogno di un “buon fine vita” in Sardegna
ha creato la figura mitica di chi vi provvedeva.
Il lungo
osservare vecchi e nuovi percorsi di guarigione, paralleli o intrecciati alla
medicina ufficiale, l’interrogarsi sul senso e sull’efficacia delle azioni
curative dei guaritori, ha documentato come queste pratiche curative popolari
tradizionali riescano a dare senso alla sofferenza attraverso processi di
riconoscimento e quindi di cura del male; e che così come non è possibile
rinunciare a forme di gestione domestica e familiare della malattia, così non è
possibile per molti, non solo nelle nostre campagne in quanto luogo di una
probabile maggiore conservatività, non è possibile rinunciare a una gestione
comunitaria della malattia, dove il guaritore più che uno specialista è
portatore di un sapere e di un agire comuni e condivisi.
Un problema
è anche l’efficacia di questi modi tradizionali di prendersi cura del
sofferente. Gli antropologi hanno elaborato la nozione di efficacia simbolica,
insita nello stesso processo di conferimento di senso alla sofferenza, che sia
sacro o profano o entrambi, soprattutto nel rapporto empatico tra malato e
guaritore, efficacia spesso carente nel rapporto odierno tra malato e apparato
medico.
È anche un
dato del nostro senso comune che la guarigione come la malattia siano qualcosa
di non confinabile in uno dei due ambiti che diciamo mente e corpo, soma e
psiche, in cui siamo soliti scindere il nostro vivere. Si parla volentieri di
mali psicosomatici e di effetti placebo e nocebo, mentre trovano operatori e
clienti le medicine orientali più olistiche, come lo yoga e lo shiatsu.
L’antropologia medica tende a pensare in generale la guarigione non meno della
malattia come un insieme complesso di elementi che diciamo biologici o corporei
e simbolici o mentali. È nota l’opinione di Claude Lévi-Strauss che l’efficacia
simbolica di una terapia, altrimenti inefficace secondo il punto di vista
biomedico, è il risultato della proiezione di pensieri, emozioni e malesseri
individuali in un quadro mitico di simboli e metafore condivise da una comunità
di cultura. Si tratterebbe di una dimensione operativa governata appunto dal
gesto rituale e dalla parola mitica, sacra, dove si stabilisce un nesso
efficace tra rituale, racconto ed esperienza del malessere, secondo concezioni
e processi riconoscibili anche nelle varie forme di psicoterapia occidentale,
ridotte troppo però a una precaria dimensione individuale di senso e di cura.
Il divano dello psicologo è infatti una metafora di quanto il malessere e la
sua cura sono diventati, da eventi collettivi, problema individuale.
La
guarigione è simbolica e collettiva, anche senza Lourdes o Padre Pio, secondo
un andamento nel quale il guaritore (medico o altro) media nel paziente la
definizione di un mondo simbolico interiore fatto anche di “simboli
terapeutici”, dove il gesto, la parola, lo strumento, il farmaco, il rito, la
comunicazione e i rapporti sociali giocano tutti insieme la loro parte. Il buon
terapeuta è sempre stato un buon manipolatore sia dei mezzi materiali sia dei
mezzi simbolici della cura. Nel guaritore tradizionale, nel mago, nello
stregone, nell’empirico, il ‘popolo’ o il ‘nativo’ ricerca soprattutto un tale
tipo di terapeuta, che è sentito carente nell’apparato biomedico istituzionale.
Quando si fa
attenzione al rapporto fra operatore terapeutico e paziente nel suo ambiente
sociale, ci si accorge di tutti quei “manipolatori dell’invisibile” quali
osservatori di corpi, sciamani, divinatori, medium, maghi anche televisivi, che
si muovono nei dintorni della terapia egemoni, a distanze più o meno decise
dalla biomedicina e dalla taumaturgia religiosa. A parte la loro
professionalizzazione anche nel compenso a tariffa, un aspetto che ricorre e
s’impone, come nel caso dei guaritori tradizionali, è l’uso del termine e delle
modalità del dono. Dono è la capacità di guarire acquisita dal mediatore di
guarigione (molto più spesso, anche in Sardegna, guaritrice), dono è la sua
prestazione, dono è la sua remunerazione qualunque essa sia. Ancora oggi molti
guaritori tradizionali sembrano usare il termine dono in tutti questi sensi,
con la tendenza a intendere una zona di scambio sociale dove la gratuità
circola come un bene impagabile e non oggetto di scambio mercantile, ma
soggetto all’obbligo umano del dare, del ricevere, del contraccambiare, dove il
risultato finale e generale è la guarigione. Il dono terapeutico risulta
pensato come il risultato di una mutua assunzione di responsabilità della cura,
una vera, antica, sperimentata “cassa mutua” in cui tutti più o meno danno,
ricevono, contraccambiano e aumentano insieme il capitale terapeutico comune
Molti
documenti mostrano che ancora nelle nostre campagne c’è in forma residuale
un’efficacia terapeutica del dono come fatto sociale totale, con la sua
gratuità, cioè con la grazia in tutta la sua carica di sensi, grazia richiesta
data e ricevuta attraverso la mediazione di un qualcosa o un qualcuno, o meglio
forse di un tutt’uno, comunque pensato, di cui specialmente la salute
individuale è dono o risultato, in fondo gratuito, sebbene in qualche modo
meritato, mediato e impetrato, come per altro e solo in parte testimoniano
dappertutto nel mondo cattolico le collezioni esposte di ex-voto per grazia
ricevuta, nei santuari come anche oggi a volte nell’“ambulatorio” del guaritore
o del mago, e molto meno nello studio del medico. I molti mediatori e la folla
di fruitori del guarire tradizionale e/o ‘alternativo’ ribadiscono che il
rapporto terapeutico più soddisfacente è un evento collettivo, un processo
interumano, guidato al meglio dal gratuito, non riservata solo ai luoghi e ai modi
impersonali della sanità ufficiale, tanto più se orientata dal mercato,
incapace talvolta del dono della parola e del gesto curativamente efficaci.
da qui
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