(di Didier Harpagès)
Una volta lei ha detto al suo
psicoanalista: «Non ero discepolo di nessuno, ma avrò dei discepoli!». Pensava
al mestiere di insegnante che ha fatto in modo singolarmente innovativo?
Eravamo nel «dopo maggio ’68» e lei abbatteva una serie di barriere che molti
suoi colleghi tentavano di rialzare. Ci faceva un corso straordinario che
apriva moltissime porte. Alle parole del «maestro» seguivano dibattiti
ricchi e stimolanti in cui c’era sempre un atteggiamento critico. Insomma lei
non era soporifero! Ha mai fatto una riflessione critica sul ruolo del pedagogo
e più in generale sul posto che l’insegnamento deve avere nella società?
In effetti nel maggio ’68 la questione
della pedagogia veniva sollevata un po’ dovunque nel mondo della scuola. Si
trattava di mettere in discussione il rapporto insegnante-allievo, i corsi
tradizionali e il baronato. Questi problemi mi hanno sempre appassionato. Avevo
fatto già una piccola esperienza di insegnante in Africa e nel Laos e il mio
interesse per la psicoanalisi mi ha portato a
interrogarmi sui rapporti maestro-discepolo e insegnante-allievo. In quel
momento uscivano anche molti testi freudo-marxisti, come quelli di Wilhelm
Reich, o I ragazzi felici di Summerhill [1],
importantissimo all’epoca, che metteva in discussione l’insegnamento
tradizionale. Non sono arrivato a conclusioni definitive né a una teoria
precisa in fatto di pedagogia, ma tutto questo mi ha posto interrogativi che mi
hanno seguito durante tutta la mia vita di insegnante. Il problema del
transfert, ben noto in psicoanalisi, aveva ovviamente richiamato la mia
attenzione. Sono stato sempre colpito da una certa analogia tra il rapporto tra
analista e paziente e quello tra maestro e allievo. Lo vivevo mentre cercavo di
analizzarlo, di tenerne conto e di ricavarne degli orientamenti
nell’insegnamento. Penso d’altronde che nel corso della mia carriera non ho
sempre insegnato allo stesso modo. All’inizio vedevo i miei studenti un po’
come cavie per tentare nuove forme di rapporto insegnante-allievo, sforzandomi
di rompere la relazione classica. Verso la fine sono tornato saggiamente a un
rapporto più tradizionale, avendo capito i limiti delle esperienze innovatrici.
Nel senso che rimetteva in qualche modo
una distanza tra lei e gli studenti.
Sì, una distanza, ma senza arroganza e
senza cercare di abusare del potere che inevitabilmente ha il maestro, il
«soggetto che si suppone sappia» come diceva Lacan, sugli allievi.
Aveva discussioni con i suoi colleghi
sull’argomento?
A Lille, negli anni che hanno seguito il
’68, non ero il solo a cercare delle formule nuove. Ho tenuto per diversi anni
corsi liberi a Paris VIII – eravamo ancora a Vincennes – ed era fuori
discussione fare lezioni tradizionali. L’insegnante doveva ascoltare gli
studenti e la cosa a volte creava delle derive. È vero che il maestro è nella
posizione del «soggetto che si suppone sappia». Dunque si deve prendere sul
serio, credere nel suo ruolo, sapere che si trova in una posizione gerarchica
dominante, ma non considerarsi onnipotente perché è a sua volta qualcuno che
impara. Invece, l’idea che sia lo studente a dettar legge a lezione non ha
senso. A Vincennes alcune lezioni si trasformavano in discussioni da bar. Dopo
un po’ la cosa non interessava più nessuno.
Il corso di epistemologia che lei teneva
all’Università di Lille negli anni settanta era incentrato sulla critica
dell’economia. Per meglio fustigare l’insieme del discorso economico, lei
si appoggiava alla psicoanalisi e all’antropologia, ma criticava anche le
diverse teorie chiamate in causa. L’economia politica classica era messa in
discussione dal marxismo, di cui però lei cominciò rapidamente a segnalare la
perversa tendenza economicistica, distinguendo tra il giovane Marx e il Marx
maturo. E questa messa in discussione costante portava a un discorso coerente e
strutturato. Pensa di essere dotato di una predisposizione psicologica
all’esercizio della critica oppure pensa semplicemente che il suo lavoro
intellettuale, la sua riflessione filosofica, siano le uniche fonti del
percorso libertario da cui deriva il suo pensiero critico?
È difficile stabilire quale sia la parte
giocata dalla personalità e quale quella giocata dalla riflessione
intellettuale nel risultato finale. Un mio libro di cui si è parlato poco e che
non ha avuto un grande successo, Le Procès de la science sociale,
per me è stato una tappa importante[2]. È in qualche modo il mio «discorso sul
metodo». Sono stato molto influenzato dalla psicoanalisi. La psicoanalisi ci
dice, secondo la formula di Lacan, che il reale è l’impossibile. Non si accede
direttamente al reale, si accede ai sintomi, e la loro analisi permette di
smascherare qualcosa del reale. Questo in qualche modo coincide con la
concezione della teoria critica della Scuola di Francoforte, secondo la quale
la conoscenza del reale si raggiunge attraverso la critica dell’ideologia.
L’ideologia fa costantemente da schermo tra noi e l’accesso al reale. Gli
uomini, come diceva Pareto, costruiscono dei discorsi giustificatori, delle
derivazioni, che sono il risultato della loro realtà ma che al tempo stesso la
mascherano. Io credo che si acceda alla realtà con la critica del discorso
giustificatorio e che questa critica permetta di avere un effetto di
disvelamento della realtà. Ho tentato di sistematizzare questo approccio in
quel piccolo libro, giocando sulla parola «processo», al tempo stesso messa in
discussione e movimento. Il discorso dell’economia politica è il
discorso dell’ideologia della borghesia dominante. Rivela qualcosa del
capitalismo ma contemporaneamente lo maschera. La sua critica non può essere soltanto
una critica logica, come quella che Marx ha tentato di fare. La
psicoanalisi e l’antropologia forniscono una dimensione estremamente importante
per il disvelamento e permettono di non ricadere, come ha fatto Marx, nella trappola
di quello che aveva denunciato (leggi anche Decrescita con Marx,
ndr). […]
Alcuni esperti scientifici fanno un lavoro
prezioso denunciando gli effetti del degrado dell’ambiente sulla nostra salute.
Ma molto spesso non collocano questa problematica all’interno di un
contesto economico e sociale, come se in qualche modo volessero rinunciare alla
critica.
Probabilmente ciò è dovuto alla
specializzazione del ricercatore, che si concentra su un campo specifico e di
conseguenza non ha una visione globale. Gli scienziati spesso sono così, non
vogliono vedere quello che succede al di fuori del loro settore. Ma se si pensa
al fatto sociale totale di Marcel Mauss non si può dire che lo stesso avvenga
nella stessa misura nelle scienze sociali. Invece la specializzazione degli
economisti permette di oscurare il resto e di trascurare le interdipendenze.
Vorrei tornare su una questione importante
ma delicata affrontata nella conversazione con Daniele Pepino. Su temi come
l’uscita dall’euro, la rilocalizzazione, la difesa dell’attività contadina, il
ritorno a un certo protezionismo – temi che una sinistra antiliberale,
antiproduttivista e anticapitalistica potrebbe ragionevolmente fare propri – si
nota che convergono i punti di vista di forze politiche xenofobe,
conservatrici e reazionarie di estrema destra, che hanno inserito quei
contenuti nei loro programmi. Sicuramente da parte di tali forze c’è
parecchio opportunismo e la loro è una strategia soltanto di bassa politica ed
elettoralistica. Ma come ha detto Frédéric Lordon: «A forza di farci rubare le
idee dal Front National ci ritroveremo senza niente!». Che cosa devono
fare gli obiettori di crescita su questi argomenti per evitare la confusione e
il discredito? Non è indispensabile una certa pedagogia per distinguere, ad
esempio, la sovranità delle nazioni e dei loro capi dalla sovranità del popolo?
Oppure, non è necessario chiarire che una moneta comune sarebbe preferibile, in
nome di questa sovranità, alla moneta unica?
La frase di Frédéric Lordon è divertente
e rivelatrice. Sì, lui si ritroverà senza niente, ma noi no. Il problema sta
nel fatto che il programma dei neokeynesiani viene ripreso dal Front National.
Il nostro invece esprime soprattutto il rifiuto della crescita e dunque va
molto più lontano, in quanto presuppone un cambiamento di paradigma. Senza dubbio la
destra riprende alcune nostre idee, e si può capire, perché la cosa
risponde ad aspirazioni reali. Del tipo: bisogna uscire dalla disoccupazione!
Ma dalla disoccupazione non si uscirà con le ricette neoclassiche o
neokeynesiane tradizionali. C’è bisogno di una rottura, ma non per far
ripartire la macchina crescita-occupazione, bensì per promuovere un’economia più o
meno stazionaria che separi la creazione di posti di lavoro dalla crescita del
PIL. Noi
abbiamo sempre detto che l’obiettivo non è di impadronirsi dello Stato così
com’è, nazionalista, chiuso, ma di procedere sulla strada dell’autogoverno, e
questo di certo non è l’obiettivo del Front National. D’altra parte, noi
possiamo essere favorevoli alla riappropriazione del mercato interno, ma non
per ripiegamento nazionalista, estremamente pericoloso, ma al contrario per
distruggere la concezione dello Stato-nazione come luogo esclusivo del rifugio
e dell’identità. Allo stesso modo, la riappropriazione della moneta per noi non
vuol dire riproporre una moneta nazionale con tanto di Banca centrale. Si
tratta al contrario di riappropriarsi della moneta in quanto bene comune del
popolo, di cui il popolo controlla la creazione e l’utilizzazione. La
riappropriazione indubbiamente pone problemi enormi, ad esempio quello del
rapporto tra generazioni. In quanto riserva di valori, la moneta permette agli
anziani di vivere grazie ai contributi sociali dei giovani. È evidente che
questioni del genere non possono essere risolte con meccanismi finanziari ma
devono basarsi su decisioni democratiche.
Personalmente sono convinto però che la
riappropriazione della moneta non debba tradursi in una rottura dei legami
culturali con i nostri vicini europei. Uscire dall’euro non sarebbe abbandonare
l’Europa?
Affatto! Perché se rifiutiamo questa
Europa economica e monetaria rifiutiamo anche la Francia del nazionalismo.
Vogliamo ritrovare le regioni, ma non per farne degli Stati-nazione in
miniatura, che sarebbe riprodurre in peggio i difetti del nazionalismo, come
sfortunatamente fanno i nostri amici baschi e catalani. Sarebbe peggio perché
il nazionalismo di minuscoli Stati non avrebbe la forza di uno Stato
potente in grado in qualche modo di resistere alle multinazionali, e perché la
cosa non risolverebbe in nessun modo il problema della distruzione dello Stato.
Dunque è
necessario uscire dal paradigma dello Stato e riappropriarsi dell’autogoverno, il quale in un certo
senso non ha limiti. Intendiamoci, la democrazia deve essere locale ma al tempo
stesso senza frontiere: non c’è nessuna ragione di mettere barriere identitarie
alle frontiere della Bretagna, della Francia, della Germania e anche dell’Europa.
Esiste un’identità culturale europea così come esiste un’identità culturale
bretone o francese: bisogna concepire un meccanismo di osmosi. Al contrario, se
c’è una cosa che non bisogna abolire è la frontiera monetaria, che bisogna
invece moltiplicare. Le monete locali sono indispensabili, perché una moneta
europea in presenza di leggi sociali, ambientali e culturali diverse distrugge
le specificità. E le specificità sono essenziali, perché permettono il dialogo
e l’arricchimento reciproco. L’omologazione distrugge ogni forma di
diversità e di dialogo. L’ultima cosa da fare è creare una moneta unica. Si
possono utilizzare monete di conto comuni per facilitare gli scambi, ma la
moneta unica è la volpe nel pollaio, è la concorrenza di tutti contro tutti.
[…]
Ho notato un’ambivalenza di alcune sue
analisi, dovuta molto probabilmente alla complessità della realtà sociale. Ad
esempio, lei ritiene che nella situazione attuale si debba sostenere lo
Stato, sperando al tempo stesso che emergano nuove iniziative che vadano nel
senso del suo superamento e della sua eliminazione. Insomma lei sostiene
che non bisogna rinunciare alla democrazia rappresentativa, anche se la
creazione di un contropotere sarebbe la benvenuta. La tradizione non deve essere rifiutata ma modernizzata. Bisogna combattere il potere ma non prenderlo. La pensa così
per prudenza, per rifiuto del manicheismo? Equesto approccio non la porta in
fin dei conti ad adottare un metodo dialettico che vuole
superare le contraddizioni apparenti?
La risposta sta nella domanda. Bisogna
tenere presente che la tradizione occidentale è fondamentalmente basata sulla
logica formale aristotelica, che spinge in certo qual modo verso una forma di
pensiero manicheo. Io penso che la realtà sia complessa, come lei dice, e che
soprattutto nell’azione concreta dobbiamo tenere conto di questa complessità. Le cose non sono
bianche o nere, e con la realtà bisogna giocare d’astuzia. L’esempio dello Stato è molto
interessante perché non si può essere totalmente contro lo Stato, non si
possono prendere i propri desideri per la realtà, bisogna conviverci. Oggi abbiamo un nemico
temibile che è l’oligarchia mondiale, e questo nemico è talmente potente che il
male (lo Stato) che può difenderci contro di esso diventa un bene. Anche se lo
Stato-nazione è condannato e condannabile, è ancora in una certa misura un
bastione contro la privatizzazione totale e la distruzione di quello che resta
dello Stato sociale. Da questo punto di vista, pur combattendolo e puntando a
superarlo, bisogna appoggiarvisi. Bisogna combattere su due fronti e non irrigidirsi
in una posizione dogmatica. Dobbiamo usare il male per ricavarne del bene, ed è
per questo che la tematica del contropotere è importante. Quello che ha
prodotto il movimento amerindiano in America Latina è una rivoluzione nella
rivoluzione. Le parole del subcomandante Marcos il 1° gennaio 1994 furono: «Noi
non vogliamo prendere il potere, perché sappiamo per esperienza che se
prendessimo il potere saremmo catturati dal potere. Non vogliamo prendere il
potere, ma vogliamo che il potere ci ascolti e agisca secondo i nostri
interessi». Certo si deve sperare che il potere sia più democratico e più
sensibile alle rivendicazioni, ma anche di fronte a un potere fascista non
bisogna rinunciare. Così è stato in Bolivia, dove nella guerra dell’acqua dell’aprile 2001
i manifestanti hanno fatto pressione su un governo di destra e hanno ottenuto
l’annullamento di un contratto di privatizzazione dell’acqua. Non si ha mai un
potere ideale, una cosa del genere non esiste. Pensiamo all’autogoverno. Una
delle poche esperienze storiche che abbiamo è quella dell’Atene del v secolo a.
C., che ha sempre fatto sognare Castoriadis. Eppure non era l’ideale.
Funzionava più o meno perché Pericle aveva confiscato buona parte del potere a
proprio vantaggio. E poi le cose sono precipitate.
Ma l’esercizio di un contropotere non è
ancora più esaltante dell’esercizio del potere? La gente di San Cristóbal non
si è trovata in una situazione del genere?
In realtà i membri dell’esercito
neozapatista hanno il potere a livello locale e si trovano in una duplice
condizione, perché il potere locale è al tempo stesso un contropotere rispetto
al potere nazionale. L’autogoverno implica che si sia contemporaneamente
potere e contropotere, in modo che le persone che prendono le decisioni siano nel mirino di
quelle che le controllano. A San Cristóbal si applica la formula «comandiamo
ubbidendo». In realtà il potere è sempre tentato dall’abuso di potere. «Ogni
potere corrompe e il potere assoluto corrompe assoltamente», diceva
Montesquieu. Il problema deriva dal fatto che quelli che sono al potere si
prendono troppo sul serio, si appropriano di ciò che deve essere soltanto una
funzione. Invece di esercitare il potere lo possiedono. […]
[1] Cfr. Alexander
Sutherland Neill, I ragazzi felici di Summerhill. Il piacere di educare e di
essere educati, Red, Milano 1990 (ed. or. 1960).
[2] Cfr. Serge
Latouche, Le Procès de la science sociale. Introduction à une théorie critique
de la connaissance, Anthropos, Paris 1984.
[3] Cfr. «Revue
Francophone du développement durable».
In questo articolo, stralci di una
conversazione di Didier Harpagès con Serge Latouche, la cui versione completa è
raccolta in L’economia è una menzogna,
edito Bollati Boringhieri (che ringraziamo). Il libro contiene altre due
conversazioni con Latouche, una di Thierry Paquot e una di Daniele Pepino.
Altri articoli di Latouche sono leggibili qui.
© 2012 Serge Latouche e © 2014 Bollati
Boringhieri editore
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