In un suo splendido editoriale
sull’ultimo numero della rivista “liberal” statunitense Harper’s la scrittrice ed attivista Rebecca Solnit si cimenta
con il tema dello spazio. Spazio fisico di agibilità, e spazio
immateriale di compressione dei diritti. Tutto il potere, dice, “può essere inteso in termini di spazi. Spazi fisici, come anche le
economie, le conversazioni, la politica – tutto può essere inteso come aree
occupate inegualmente. Una mappa di questi territori costituirebbe una mappa
del potere e dello status. Chi ha di più e chi ha di meno“, ed il “dominio dello spazio e del
territorio da parte di chi ha potere può essere chiamato violenza strutturale”. La teoria basagliana definiva questa
violenza strutturale come “crimine di pace”, altri la chiamano semplicemente, “necropolitica”
termine coniato dal sociologo africano Achille Mbembe assieme a quello di “biopotere”
.
Le cifre sono
impressionanti: almeno 200 difensori (uomini e donne) sono stati uccisi lo
scorso anno, in 24 paesi. Una scia di sangue che si allarga a macchia d’olio, i paesi dove
Global Witness aveva registrato omicidi nel 2015 erano 16. Oggi in testa è il Brasile, seguito
dall’Honduras, dal Nicaragua, dalle Filippine, la Colombia, l’India, e la
Repubblica Democratica del Congo. Il Brasile del grande latifondo e
dei mega-progetti di sviluppo del governo Temer, l’Honduras di Berta Caceres e
del COPINH – la figlia Bertita di recente oggetto di minacce di morte mentre il
governo annunciava la chiusura del contestatissimo progetto idroelettrico di
Agua Zarca. Le Filippine di Duterte, o la Colombia dove dopo la firma
dell’accordo di pace tra governo e FARC, e lo smantellamento della presenza
delle FARC nei territori da loro controllati, si è scatenata una caccia agli
attivisti e leader comunitari da parte di formazioni “neo-paramilitari”. Una
maniera di “ripulire” il territorio per permettere poi alle imprese del settore
estrattivo di fare i loro affari sporchi.
Il rapporto di
Global Witness ci dice che il settore minerario è quello più macchiato del
sangue degli attivisti uccisi lo scorso anno, 40% dei quali erano uomini e
donne indigene. Il 60% dei 200 omicidi è stato registrato proprio in America Latina. E
le responsabilità vanno attribuite direttamente o indirettamente agli apparati
dello stato o della sicurezza, a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle
imprese. Il numero però potrebbe essere assai
maggiore, visto che secondo quanto registrato dall’Atlante per i Conflitti
Ambientali (EJAtlas)
almeno 2000 sono i conflitti sulla terra nel mondo. E poi molti di questi omicidi non sono
stati denunciati o semplicemente derubricati a fatti di criminalità comune.
Per non parlare poi della crescente criminalizzazione dei movimenti sociali e
ambientali, non solo nel cosiddetto “Mondo di Maggioranza” ma anche in quello
di “Minoranza” il ricco ed opulento “Nord”. Uno su tutti il caso della
resistenza contro la Dakota Access Pipeline a Standing Rock. Allora risulta
evidente che questo spazio che si restringe ha a che vedere con il modello di
sviluppo, con i modelli di consumo e estrazione di valore dalla terra. È
pertanto uno spazio “politico” di rivendicazione e di conflitto, dove chi ha il
monopolio dell’uso della forza, armata o non, prevarica, comprime,
marginalizza, uccide.
Questo nel cosiddetto “Sud”. E a parte
il caso di Standing Rock che accade altrove, nel nostro “Nord” che si erge a
paladino dei diritti umani e della democrazia? Turchia, Egitto ma anche
Polonia, Ungheria per fare qualche esempio? Non ci si faccia illusioni: esiste a livello globale una
guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che
si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti
e protezione della terra.
Ad aprile di quest’anno CIVICUS ha reso
noti i dati raccolti nel corso del 2016. La loro pubblicazione ha un titolo
eloquente “People Power under Attack” (il potere del popolo
sotto attacco).
Secondo CIVICUS, solo il tre percento della popolazione
mondiale vive in paesi dove lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” può
considerarsi “aperto”. Sono ben 106 i paesi dove chi si mobilita pacificamente
rischia la galera, la morte o la repressione. Dei 195 paesi monitorati da CIVICUS in
20 lo spazio di agibilità è chiuso, represso in 35, ristretto in 63, ed
“aperto” in solo 26. Oltre sei miliardi di persone vivono in paesi dove
l’agibilità politica e civica è chiusa, repressa o ostruita.
I dati di
CIVICUS rivelano con chiarezza la responsabilità degli apparati di stato
nell’assalto sistematico a chi, individui o movimenti, critichi l’autorità,
svolga attività di monitoraggio dei diritti umani, o rivendichi i proprio
diritti sociali ed economici. Il più recente rapporto sullo stato della società
civile nel mondo sempre a cura di CIVICUS, va oltre ed identifica nella
crescita del populismo e dell’estremismo sciovinista una delle cause
dell’aumento della sfiducia verso la società civile, pretesto per attacchi allo
spazio di agibilità civica.
E l’Italia?
Secondo il rapporto di CIVICUS lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” in
Italia si è “ristretto” e tende verso il livello di
“ostruzione”, ben lontano dagli standard di “spazio civico aperto” di altri
paesi membri della Unione Europea. Altri paesi dove si registra una
“restrizione” dello spazio di agibilità sono gli Stati Uniti, il Canada, Cile,
Argentina, Spagna, Francia, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica, Australia,
Zimbabwe oltre ad altri paesi africani.
In realtà, la recente campagna di criminalizzazione delle
organizzazioni non governative e della società civile che fanno soccorso in
mare, o solidarietà con migranti e rifugiati sarebbe solo una
manifestazione parossistica di un “trend” che si sta insinuando anche nel
nostro paese. Dalla criminalizzazione delle proteste dei comitati
per la protezione dell’ambiente, alle minacce a giornalisti o avvocati da parte
della criminalità organizzata, anche nel nostro paese iniziano a
palesarsi i sintomi di una dinamica preoccupante.
Sempre CIVICUS, che assieme a Civil Society
Europe ubblicherà in autunno uno studio dettagliato paese per
paese, Italia inclusa, nel nostro paese nella prima metà del 2016 le principali
libertà civili di associazione, riunione ed espressioni sono generalmente
rispettate, ma sussistono alcune problematiche. Dalla discrezionalità nelle
operazioni di ordine pubblico, all’uso eccessivo della forza in occasione di proteste
di piazza. Occasionalmente difensori e difensore dei diritti umani soffrono
minacce e intimidazioni. Nella
prima metà del 2016 inoltre sono state registrate ben 221 violazioni del
diritto alla libertà di espressione, una situazione ulteriormente aggravata da
casi di intimidazione verso giornalisti.
Per tutto questo oggi proteggere i difensori della terra,
dell’ambiente, dei diritti umani è un compito urgente, una sfida essenziale
anche per la politica e per il settore privato, oltre che per la
società civile nel nostro paese, già impegnata nella rete In Difesa Di,
per i diritti umani e chi li difende, e più di recente con la campagna
“Coraggio” di Amnesty International. Il prossimo anno l’Italia
presiederà l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea)
che attribuisce grande rilevanza al tema dei difensori dei diritti umani nei
suoi paesi membri, tra cui vanno annoverati seppur con modalità diverse, paesi
come la Turchia, l’Egitto, la Polonia, o l’Ungheria. E non solo, il 2018
marcherà il 20esimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei
Diritti Umani occasione imperdibile per rilanciare con forza il tema della
difesa dei difensori dei diritti umani e della tutela degli spazi di agibilità
“civica” chiedendo al governo, al Parlamento ed agli enti locali uno sforzo
collettivo per questa importante campagna di civiltà politica e sociale.
(Articolo pubblicato anche sull’ huffingtonpost.it
- tratto da http://comune-info.net)
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