I disastri provocati in Veneto e in Lombardia da improvvise tempeste scatenatesi nei giorni scorsi e i violenti incendi che hanno distrutto interi boschi della Sicilia occidentale, rientrano solo in parte, come qualcuno ha già osservato, nel quadro consueto dei dissesti italiani. Li comprendono certamente, ma entro una dinamica nuova e più grave. Alluvioni ed incendi, frane e distruzioni di boschi hanno legami invisibili che vanno ricordati.
Il cosiddetto
riscaldamento globale non si esaurisce nell’innalzamento medio della
temperatura, ma si esprime anche nel caos climatico, nella ricorrenza accentuata dei fenomeni estremi, cateratte
d’acqua in poche ore e perfino trombe d’aria, accanto a prolungate siccità, che
offrono ai criminali, la possibilità di appiccare incendi alle foreste con
sicuro successo.
Un mutamento nella storia della natura, dovuto all’azione
umana, che si inscrive, in questo caso, nella vecchia storia d’Italia, lo stato
nel quale il territorio acquista valore quando viene ricoperto da edifici, se
si trasforma nello scenario della propria distruzione attraverso le cosiddette
grandi opere.
In Italia, il paese
più franoso e fragile d’Europa, le campagne necessiterebbero di una
manutenzione costante, di una presenza operosa di figure umane, di lavori di
controllo e sistemazione continua delle frane, dei corsi d’acqua, di pulizia e
vigilanza sui boschi – come
ricordava Tonino Perna a proposito degli incendi – di monitoraggio insomma del
suolo, la base delle nostre vite e delle nostre economie, ormai sempre più
esposta a drammatiche rotture.
Ma l’indifferenza inveterata del ceto politico e della
cultura italiana nei confronti dei fenomeni naturali e della sorte del
territorio oggi valica una soglia di gravità che potremmo definire storica.
Il riscaldamento
globale non comporta solo caos climatico, alluvioni e frane, siccità e incendi,
i disastri dell’oggi, ma, in una prospettiva non lontana, l’nnalzamento dei
mari.
Lo scioglimento dei ghiacciai, che ha sorpreso anche gli
scienziati per la sua recente accelerazione, comporterà l’invasione delle acque
marine di vaste aree costiere e vallive, in tempi che nessuno può prevedere, ma
che non saranno tempi geologici.
E qui mi torna in mente una definizione fisica
dell’Italia da parte da un grande commis
d’état del primo ‘900, Meuccio Ruini, il quale, volendo rilevare il
carattere prevalentemente montuoso-collinare della Penisola, disegnava un
quadro che oggi ha colori inquietanti:
“Se il mare,
alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la Valle Padana,
l’Italia sarebbe una sola e grande montagna”. Quei pochi metri, come ognuno può comprendere, sarebbero
sufficienti a cancellare l’Italia dal novero dei paesi industrializzati, con
perdite immense di beni e ricchezza.
Ora, non voglio indulgere in prospettive catastrofiche,
ma se i fenomeni presenti e quelli futuri prossimi minacciano in maniera così
rilevante e rovinosa il nostro habitat, non dovrebbe mutare radicalmente la
nostra attenzione e la nostra cura per il territorio, già oggi e sempre più
bene scarsissimo e prezioso?
E allora, com’è
possibile che ancora si cementifichino le periferie urbane – Lombardia e
Milano, capitale morale, in testa – anziché ristrutturare edifici abbandonati,
restaurare quartieri, valorizzare il già costruito?
Perché
si insiste con le cosiddette grandi opere che mangiano ettari ed ettari di
suolo verde? Perché si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte, si
lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare dei paesi e villaggi, che si
vanno spopolando nelle cosiddette aree interne?
Quando è evidente a tutti che questi territori
diventeranno la nostra salvezza nei prossimi decenni, allorché il disordine
climatico si aggraverà, tante aree costiere diventeranno inabitabili, come
appare inevitabile di fronte alla colpevole inanità delle classi dirigenti dei
paesi ricchi.
Eppure, sul piano politico si può ancora agire per
avviare una svolta, non solo coi vincoli da porre al cemento, ma gia, ad
esempio, con un salto culturale della Politica Agricola Comunitaria.
Ad esempio, tra
l’altro, con l’assegnazione di un reddito di base ad ogni piccolo contadino
europeo, che non solo produce, ma fa manutenzione del territorio.
La questione
territoriale italiana oggi mostra un fenomeno inedito nella storia del
capitalismo. Da quando esiste
questo modo di produzione la realizzazione del profitto da parte del
capitalista ha coinciso anche con la creazione generale di beni e ricchezza.
Tale coincidenza, per via della produzione di beni sempre
più imposti e superflui, si è da tempo indebolita. Ma oggi, specie in Italia,
la creazione del profitto, religione dell’imprenditoria occidentale, ha perso i
suoi fondamenti metafisici, come le religioni rivelate, e in vasti ambiti
dell’economia, con crescente evidenza, non produce più vantaggi e benessere, ma
danni, per il presente e per l’avvenire.
Articolo pubblicato anche su il manifesto
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