La
situazione in India al 29 agosto 2020 è la seguente: la 3° al mondo (dopo USA e
Brasile) per il numero di contagi: 3.463.972; i morti registrati sono 62.550.
COVID-19: oltre i numeri…
Sunita
Narain, direttrice di un prestigioso centro di ricerca e divulgazione
scientifica indiano, con sede a New Delhi (il Centre of Science and Environment, CSE)
ha pubblicato il 10 agosto scorso alcune
considerazioni sulla situazione indiana e mondiale relativa alla pandemia da COVID-19.
In primo luogo fa notare – come più volte hanno sottolineato altri studiosi e
giornalisti in tutto il mondo – che la situazione nei diversi Paesi viene
presentata in termini che possono risultare positivi o negativi a seconda dei
‘numeri’ che vengono citati e dei confronti fatti. E fa l’esempio di Donald
Trump che – proprio il giorno in cui in USA si raggiunge la cifra di 160.000
decessi – sostiene che le cose non vanno male, nel suo Paese: in effetti, se si
considera la percentuale di morti rispetto al totale dei casi, la situazione in
USA è migliore che in altri Paesi. Il tasso di mortalità è del 3,3%, assai
minore di quello registrato nel Regno Unito e in Italia (14%). Da un altro
punto di vista, però, la situazione in USA è fuori controllo: in un Paese che
ha il 4% della popolazione mondiale, si registra il 22% dei morti complessivi…
È chiaro quindi che la scelta dei dati da illustrare è determinante nel
focalizzare l’attenzione e condizionare il giudizio dei lettori.
Passando
alla situazione dell’India, è evidente – secondo l’Autrice – il motivo per cui
il governo continua a dire che le cose non vanno male: il tasso di mortalità è
basso (2,1%), e anche se ogni giorno si registrano 60.000 nuovi contagi, sono
pochi rispetto alla popolazione totale, che è ormai circa 1 miliardo e 400
milioni: 1.400 contagi al giorno, contro i 4.500 dell’UK e i 14.500 degli
USA. D’altra parte è evidente che pesa anche il numero di test eseguiti:
negli ultimi giorni, in India ne sono stati eseguiti 16 per ogni mille abitanti,
in USA 178.
Ma ha senso,
è utile confrontare le prestazioni di Paesi diversi? Solo nella misura in cui
ci possono aiutare a capire gli errori commessi e a prendere decisioni utili
per il futuro. L’India ha subìto un lockdown molto duro e
senza preavviso, nell’ultima settimana di marzo, che ha portato a costi
economici altissimi e alla totale perdita dei mezzi di sussistenza per una
grandissima parte della popolazione, soprattutto delle fasce più povere.
Ma nonostante questa decisione radicale, il virus non è stato fermato,
anzi, ha vinto.
Le
considerazioni successive che fa Anita Narain sono molto simili a quelle che si
sono sentite in Europa (salvo la differenza di scala…). Secondo questa
ricercatrice occorre ripartire su due fronti: da un lato sostenere con
immediati aiuti monetari diretti un grandissimo numero di persone che sono
rimaste senza lavoro, che patiscono la fame, che si sono trovate prive di
risorse. Dall’altro prendere atto della condizione disastrosa del sistema
sanitario, con infrastrutture praticamente inesistenti a livello di stati, di
distretti e di villaggi, e con gli operatori sanitari – medici e infermieri –
ma anche tecnici, spazzini, impiegati pubblici, ormai allo stremo delle forze.
L’India ha finora destinato alla salute pubblica l’1,28% del PIL (la Cina
destina il 3% di un PIL assai più grande!): bisogna assolutamente cambiare
strategia, anche perché il virus sta dilagando.
Aumentano i morti da malnutrizione… e non solo in
India
Un
funzionario ufficiale dell’UNICEF, Arjan De Wagt, in un’intervista rilasciata a Delhi l’8
agosto ha dichiarato che l’insicurezza alimentare conseguente alle misure
anti-COVID porterà a un significativo aumento dei casi di malnutrizione in
India, peggiorando una situazione che era già drammatica: secondo la rivista
medica «The Lancet», infatti, nel 2017, la causa di morte di 700.000 bambini –
su un milione e 40.000 morti prima del 5° anno di età – era stata la
malnutrizione. Ora, nel 2020, il prolungato lockdown ha
causato una crescita della povertà e della disoccupazione, che inevitabilmente
porteranno a un ulteriore aumento di fame e malnutrizione. Il blocco delle
attività ha inoltre reso difficile l’erogazione di servizi essenziali in campo
alimentare, come la distribuzione di razioni da consegnare a domicilio: mancano
adeguate e tempestive informazioni sulle famiglie più bisognose, e si sono
dovuti gestire i rischi di contagio nella preparazione e consegna del cibo.
Così, attualmente in media muoiono ogni giorno 1.934 bambini sotto i cinque
anni in conseguenza alla mancanza o scarsità di cibo. Bisogna lavorare
con i Centri di Riabilitazione Nutrizionale (Nutrition Rehabilitation
Centres, NRCs) investendo risorse, sviluppando corsi di formazione,
attrezzandosi professionalmente per gestire la pandemia, e convincendo le famiglie
a portare i loro bambini, superando le paure di contagio. Il governo ha
distribuito telefoni cellulari a questi centri, per monitorare la situazione,
collegare i servizi con le comunità che sono in difficoltà, fornire risorse
alimentari adeguate alle condizioni dei bambini.
La mancanza
di cibo conseguenteal blocco delle attività produttive e dei trasporti, e
all’isolamento di intere comunità, sta causando effetti disastrosi in tutto il
mondo, non solo in India: i dati ufficiali indicano che stanno morendo 10.000
bambini in più ogni mese nel mondo, e mezzo milione di bambini in più ogni mese
soffrono di gravi carenze alimentari e di malnutrizione. Una serie di interviste fatte a membri
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive un quadro disperato della
situazione in molto paesi, dal Burkina Faso al Venezuela, dalla Colombia
all’Afghanistan, dallo Yemen al Sudan.
I migranti tornano nelle grandi città…ma non c’è
lavoro
Con 3
milioni di persone contagiate da COVID-19, il governo centrale e le
amministrazioni dei vari stati dell’India sono riluttanti a riavviare le
attività. Il giornalista Kunal Purohit, in un articolo pubblicato il 21 agosto,
illustra l’angosciosa situazione dei lavoratori migranti, che devono decidere
se rimanere nei loro villaggi, faticosamente raggiunti dopo l’improvviso lockdown di
marzo, ma dove non si sono presentate opportunità di lavoro, oppure riprendere
la strada verso le grandi città, nella speranza che lì si riaprano cantieri,
lavori a giornata, piccole attività commerciali.
La storia di
Khaled. Prima
del lockdown Mohammed Khaled lavorava nell’ufficio
amministrativo di una piccola fabbrica di abiti, in uno slum di Mumbai.
Dopo le restrizioni il suo salario era stato dimezzato, ed era diventato
impossibile per Khaled e per la sua famiglia pagare affitto e cibo. Così in
giugno avevano fatto i bagagli ed erano tornati nella loro città di origine,
Kanpur, in Uttar Pradesh: una cittadina famosa per l’industria del pellame.
Khaled sperava di ricominciare lì a lavorare, ma molte fabbriche avevano
chiuso, e la maggior parte degli operai licenziata. Non rimaneva che tornare a
Mumbai! Ora lavora 5 giorni alla settimana presso il suo precedente datore di
lavoro, ma con uno stipendio che è meno della metà di prima. Gli altri due
giorni lavora per Uber, con un orario di 10 ore al giorno. Ma anche così
fa fatica, e guadagna ogni mese meno di quello che prendeva prima della
pandemia.
La storia di
Khaled non è un’eccezione. Sono stati 400 milioni i lavoratori informali
migranti che hanno dovuto lasciare le città durante il lockdown iniziale:
molti hanno percorso a piedi centinaia o migliaia di kilometri per raggiungere
i loro villaggi, a causa del blocco immediato e totale dei servizi di trasporto
pubblici. Molti di loro vivevano grazie all’incasso della giornata, non avevano
contratti ufficiali né forme assicurative. Molti non ricevono più la paga da
fine marzo, e sono costretti a rivolgersi a enti assistenziali o agli aiuti
statali. Secondo la Banca Mondiale il lockdown in India
trascinerà 12 milioni di persone nella povertà più nera, senza prospettive di
venirne fuori.
Il Centro di
Monitoraggio dell’Economia Indiana (The Centre for Monitoring Indian Economy,
CMIE), con sede a Mumbai, ritiene che in aprile siano andati perduti 90 milioni
di posti di lavoro informale. Molti hanno cercato alternative nel settore
agricolo, ma il tasso di disoccupazione, che a inizio anno era del 7,2 per
cento, è cresciuto all’11% in giugno, e rimane tuttora elevato.
Nel
frattempo la pandemia sta dilagando in India, e c’è il sospetto
che nelle grandi città la situazione sia più grave di quanto risulta dai dati:
da test eseguiti per evidenziare gli anticorpi al virus risulta che 5,8
milioni di residenti a
New Delhi
(su un totale di 20 milioni di residenti) potrebbero essere stati infettati
senza mostrare sintomi. Indagini simili in altre città danno risultati
altrettanto preoccupanti: a fine luglio, il 57% degli abitanti degli slum di
Mumbai risultano positivi al COVID-19. Dato che il
tasso di mortalità in molti slum è rimasto basso, c’è da
pensare che – nell’impossibilità di assicurare il distanziamento sociale in
luoghi così affollati – sia stata raggiunta una forma di ‘immunità di gregge’,
favorita anche dalla giovane età media dei residenti.
Più del virus, il rischio è la fame
Mumbai, il
principale centro finanziario dell’India, è stato duramente colpito dalla
pandemia, e registra tuttora circa 1.000 nuovi contagi al giorno. Per questo
motivo il governo gli uffici privati lavorano con personale ridotto al 10%, gli
uffici pubblici lavorano a ritmo molto lento, moltissimi negozi sono chiusi e
le attività commerciali sono ferme.
La storia di
Naimuddin Shah. Per Naimuddin Shah, un carpentiere di 44 anni, le restrizioni
causate dal lockdown sono state disastrose. Subito prima del
blocco Shah era tornato nel suo villaggio, nel distretto settentrionale di
Basti: restò lì tre mesi, poi, rendendosi conto che non c’erano prospettive di
lavoro, decise di tornare a Mumbai. Ma nessuno gli diede lavoro: la gente non
aveva neppure i soldi per mangiare, figurarsi se qualcuno gli ordinava dei
mobili!
Shah deve
mantenere sua moglie e sei figli, ma quel poco che riesce a guadagnare non
basta a sfamarli. Così, quasi ogni sera Shah e i suoi figli fanno la fila
davanti a una moschea alla periferia di Mumbai che è stata trasformata in una
cucina comunitaria gestita da ONG. Per fortuna, subito prima di ripartire per
Mumbai aveva preso con sé un po’ di riso e di legumi, senza i quali adesso
soffrirebbero la fame.
L’articolo
di Kunal Purohit prosegue raccontando le vicende di altre famiglie, come quella
del venditore di fiori, Nandkishore Ramprasad Varun: aveva riaperto il suo
botteghino, ma nessuno più compra fiori, e in più le piogge degli ultimi giorni
gli hanno distrutto la bancarella. «Ci sono notti – dice – in cui penso che
sarebbe meglio morire piuttosto che vivere così: nell’impossibilità di
guadagnarmi da vivere, malgrado io sia in buona salute e avessi un lavoro».
Le cavallette – un dramma sul dramma
Mentre tutto
il mondo combatte – ormai da molti mesi – per rallentare la diffusione del
virus COVID-19, alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia sud-occidentale stanno
lottando anche contro un’altra minaccia: le ripetute invasioni di sciami di
locuste del deserto, che da più di un anno stanno devastando i raccolti, e
portando alla fame milioni di persone.
Si tratta di
un fenomeno che non si verificava da molti decenni, e che finora aveva colpito
soprattutto zone africane. La FAO (Food and Agriculture Organization of the
United Nations) negli anni passati era riuscita a tenere sotto controllo le
invasioni di cavallette, grazie a un vasto sistema di allerta e pronto
intervento non appena venivano avvistati deposizioni di uova e nuclei di nuovi
sciami. Ma due circostanze hanno reso sempre più difficile questo
controllo: da un lato il cambiamento climatico globale, che grazie a piogge
insolite in aree aride e desertiche ha offerto nuovi ambienti adatti alla
deposizione delle uova da parte di questi prolifici insetti; dall’altro la
situazione di devastazione e di guerra – soprattutto nello Yemen – che ha reso
impossibile il monitoraggio e l’intervento tempestivo per bloccare sul nascere
lo sviluppo delle locuste, prima della formazione degli sciami.
Per questo
anche alcune regioni dell’India sono state colpite da questa ‘piaga’, come non
avveniva da decenni.
In un reportage pubblicato il 29 giugno sul
«New York Times» si legge che anche la capitale, Nuova Delhi, è stata invasa da
milioni di insetti, che si sono infilati nelle stazioni del metro e nei campi
da gioco e hanno invaso le piantagioni di canna da zucchero. In vaste zone di
campagna, in sei stati dell’India, hanno causato gravi danni, colpendo il
settore agricolo già in grave difficoltà per le conseguenze delle restrizioni
imposte dal coronavirus. Un singolo sciame, anche di modeste dimensioni, può
divorare in un giorno quanto basterebbe a sfamare 35mila persone, e può
spostarsi di più di 150 km. I forti venti presenti nei mesi di giugno hanno
favorito la diffusione degli insetti fino alle aree più settentrionali del
paese.
L’uso
massiccio di pesticidi, sparsi con aerei e con droni, ha permesso in India di
bloccare le invasioni, e di limitare i danni alle coltivazioni. Ma nell’Africa
sud orientale la situazione è tuttora drammatica, e le migrazioni di cavallette
rischiano di ripresentarsi alla prossima stagione.
Verso quale trasformazione globale?
In India,
come in quasi tutto il mondo, i gruppi al potere stanno esercitando una
fortissima pressione perché tutto torni ‘come prima’: l’economia deve
‘ripartire’, le grandi industrie riprendere le attività; bisogna incentivare il
turismo e i voli internazionali, innovare, digitalizzare… È molto forte la
spinta a riattivare il sistema produttivo senza significativi cambiamenti,
anzi: in questo periodo c’è chi invoca minori restrizioni al libero mercato,
minori controlli di tutela sociale e ambientale. Vengono fornite nuove
concessioni alle attività estrattive e minerarie, alla movimentazione di merci,
all’installazione di sistemi di controllo sociale, e sono approvate leggi che
favoriscono il ‘mercato’ a discapito della tutela ambientale.
In India è
stata introdotta – il 30 luglio, in pieno periodo di pandemia, senza un
dibattito democratico – una riforma complessiva del sistema scolastico, la ‘New
Education Policy’ (NEP 2020), che estende enormemente ruolo e potere della
partecipazione privata nel settore educativo, ignorando la tradizione
pluralistica del paese, non tenendo conto delle reali condizioni delle fasce
più povere e discriminate dell’India, e privilegiando la visione neo-liberale
che mira a favorire un sistema orientato al profitto, al servizio
degli interessi delle imprese multinazionali. Un accordo appena firmato con la
Banca Mondiale per la messa a punto di strategie di collaborazione
‘Pubblico-Privato’ non assicura certamente che venga offerta un’educazione di
qualità per tutti. C’è il forte rischio che – attraverso l’istituzione di
percorsi scolastici diversificati e discriminanti – aumenti il processo di
esclusione delle comunità più povere e svantaggiate, a vantaggio di quella
parte della popolazione indiana: si tratta di circa 300 milioni di persone, una
minoranza nel paese (meno di un quarto del totale), ma abbastanza consistente
da risultare interessante per il mercato e per gli appetiti delle
multinazionali.
Ma in India
– e ovunque nel mondo – quella che occorre è invece una radicale trasformazione
degli stili di vita dominanti, dei sistemi produttivi, delle relazioni con la
natura, dell’educazione. Mentre la popolazione benestante dell’India ha
abbracciato il modello occidentale, sono
numerose, collegate tra loro e con una rete
internazionale le realtà associative, le comunità di base, le realtà delle
popolazioni indigene, le esperienze di sostenibilità che hanno elaborato,
sostengono e stanno sperimentando modalità di vita di lavoro, di educazione, di
socialità che si rifanno alle idee di Gandhi, Kumarappa, Vinoba.
Di fronte al
fallimento di un modello di sviluppo che durante la pandemia da COVID-19 si è
rivelato violento, iniquo e insostenibile, la prospettiva gandhiana viene da
più parti richiamata e valorizzata, come alternativa efficace, matura,
sostenibile, equa e nonviolenta. Anche per questo, e non solo perché ospita 1
miliardo e 380 milioni di persone, su un totale di 7 miliardi e 800 milioni
(più di un sesto dell’umanità, con un’età media di 27 anni)… dell’India si
dovrebbe parlare più spesso!
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