C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi – ci dicono le paleoantropologhe femministe) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi.
Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, élite dominanti che
hanno plasmato le relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle,
ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un lungo ciclo di
civilizzazione, addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero
ridefinire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The
Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).
Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica
dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici e acidifica gli
oceani; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie,
desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di
produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera
spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di
insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione
mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento
dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di
ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli
vitali; il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto
geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.
Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella
suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa
dall’homo autodefinitosi sapiens. Altri itinerari e altri esiti sarebbero stati
possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il
preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La
politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi se non
riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, cioè
con la dimensione culturale e valoriale eco-etica.
In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di
coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti
rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo
elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di
dominio.
Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento
esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari
nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza economica. Così come noti
sono i limiti dell’ambientalismo superficiale (facilmente sussunto dal mercato)
che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione
capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi
tipo, pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione
omologante.
La cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e
riportare ad unità la lotta ad ogni forma di dominio e di dominazione, facendo
perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti
propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: non basta la
coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di
luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione e
interdipendenza di tutti i fenomeni naturali e sociali, della sostenibilità
ambientale e della giustizia sociale.
La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione
internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare
l’inizio dell’Antropocene: qual è il point-break, il momento in cui
l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare
tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione
dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 ani fa; con l’affermazione del
pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della
filosofia greca ellenistica; 500 anni fa con la prima globalizzazione, la
colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come
suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitaloce? Ombrecorte,
2017); con la rivoluzione industriale nell’Ottocento; il 16 luglio 1945 con la
detonazione del primo ordigno nucleare e il foll-out di
radionuclei; nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti
per milione di anidride carbonica (come 23 milioni di anno fa); il prossimo
fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi)
e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi
presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65
milioni di anni fa)?
Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse
a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze
anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del
Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere
la vita delle Next Generation.
Fonte: il manifesto,
25.08.2020
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