Per secoli è stato il blu più ricercato nella pittura
europea. Ha colorato il manto di infinite madonne rinascimentali e i drappeggi
dell’età barocca. Era chiamato blu oltremare e nei trattati di pittura
quattrocenteschi era definito “il più perfetto di tutti i colori”. Però era
dannatamente costoso. Infatti è ottenuto dalla povere del lapislazzuli, pietra
semipreziosa nota fin dall’antichità proprio per il suo azzurro intenso.
Pare che per abbassare i costi molti pittori usassero
pigmenti meno pregiati, con solo un piccolo strato di “oltremare” in
superficie. Ma oltre alla mano del maestro conta la qualità del colore: si dice
per esempio che Tiziano non si sia mai abbassato a usare altro che il colore
puro, che del resto arrivava attraverso il porto della sua Venezia, un hub del
commercio globale dell’epoca.
Il lapislazzuli infatti veniva dall’Afghanistan. Era così
fin dall’antichità, che fosse usato come pietra o come pigmento colorato, nelle
decorazioni delle tombe reali nell’Egitto di cinquemila anni fa, la maschera
funeraria di Tutankamon, o nei monili dei nobili. Dall’inizio dei tempi e
almeno fino al diciottesimo secolo, ogni lapislazzuli in Egitto o in Europa
arrivava dalle montagne del Badakhshan, in quello che oggi è l’Afghanistan
nordorientale.
Una guerra d’impresa
Solo là si trovava la pietra blu intenso, a volte con
venature dorate di pirite. Anche se ora si conoscono giacimenti nella regione
andina del Cile, e in quella del lago Baikal in Russia, gran parte delle pietre
(le migliori) arriva sempre da quelle montagne, brulle e aspre.
Ancora oggi dunque il lapislazzuli è la principale
ricchezza del Badakhshan. Le miniere afgane sono gallerie scavate nella
montagna per lo più con la dinamite, nulla di altamente tecnologico. Dalle
miniere, i blocchi di pietra azzurra sono portati a valle, da uomini carichi
come muli e poi in camion; prendono la via di Kabul e infine, in blocchi ancora
grezzi, vanno per lo più in Cina, in parte anche in India.
Solo che l’esportazione di lapislazzuli non ha contribuito
a rendere la provincia né più ricca né più pacifica. Piuttosto ha arricchito
alcuni “signori della guerra” che si contendono da decenni il controllo del
territorio. E poi, un’indagine recente conferma che i lapislazzuli
fruttano milioni di dollari anche ai ribelli taliban. Global witness,
l’organizzazione che ha condotto questa ricerca, dice che i lapislazzuli sono
un nuovo caso di “minerali di guerra”: proprio come i “diamanti insanguinati”,
quelli estratti nelle zone dell’Africa teatro di guerre civili, che finiscono
per finanziare le parti in conflitto.
Nel gioco e nel Badakshan sono entrati i taliban che
pretendono una parte del ricavato dalla vendita di lapislazzuli
Intendiamoci: qui parliamo di ribelli, “signori della
guerra” e taliban, ma l’ideologia e le fedeltà politiche non c’entrano molto.
“Questa è una guerra d’impresa”, unabusiness war, spiega un commerciante ai ricercatori di
Global witness (che per due anni ha studiato una delle maggiori miniere attive,
intervistando autorità locali, imprenditori, commercianti, lavoratori,
comandanti di milizie, “anziani” dei villaggi, operatori sociali e
giornalisti).
La “guerra d’impresa” ha opposto prima due comandanti
locali, Abdul Malek e Zulmai Mujadidi, entrambi allineati con il governo di
Kabul e perfino appartenenti allo stesso partito (Jamiat-e islami, il più
antico partito islamista del subcontinente indiano). Dopo la caduta del regime
taliban, nel 2001, il primo è divenuto capo della polizia, l’altro comandante
delle forze di sicurezza del Badakhshan.
La maledizione delle risorse
Per dodici anni la miniera è stata feudo personale di
Mujadidi, anche se era in concessione a un’azienda privata. Poi nel 2014 il
rivale Malek ha fatto un “golpe”, con i suoi miliziani. In zona, Mujadidi era
malvisto: dicono che accumulava solo profitto personale. Di Malek invece molti
intervistati dicono che fa lavorare la gente del luogo e aiuta tutti – anche se
pare che tutto si limiti a un po’ di carità ai più poveri e qualche offerta
alle moschee locali. In ogni caso, il padrone ora è lui.
Poi però nel gioco sono entrati i taliban. Dopo il ritiro
delle truppe occidentali (all fine del 2012) il movimento ribelle ha aumentato
la pressione, infiltrando anche il Badakhshan. E quando è arrivato a
controllare la zona che dà accesso alla miniera, un anno fa, Malek ha dovuto
scendere a patti. Secondo Global witness ci sono prove che di recente abbia
accettato di versare ai taliban metà dei ricavi dei “suoi” lapislazzuli.
L’indagine stima che nel solo 2014 i lapislazzuli di quella
singola miniera abbiano fruttato oltre 18 milioni di dollari a Malek e circa un
milione ciascuno alle milizie dei Mujadidi e ai taliban, che però in seguito
hanno aumentato la loro parte. Questo significa anche che ogni anno lo stato
centrale perde royalty e tasse su quei circa 20 milioni di dollari (ma questo
era vero anche senza i taliban).
In definitiva, “il più perfetto dei colori” finora ha
portato a chi lo estrae solo violenza e corruzione. Si dice che sia la
“maledizione delle risorse”.
Nessun commento:
Posta un commento