Pubblichiamo una lettera-appello dello scrittore, e socio onorario
all’Associazione Italia Nostra, Giorgio Todde, indirizzata al sindaco di Cagliari Massimo Zedda. Una critica spietata, ma ci pare
costruttiva, ad alcune delle recenti opere pubbliche realizzate nel capoluogo.
Caro
Sindaco,
come si
capisce guardandosi intorno, la nostra città si è trovata, per merito di chi
l’amministra e per sua fortuna, una grande quantità di fondi spendibili per le
opere pubbliche. Così, tra tanti cantieri, alcuni impeccabili, altri meno, ne
sono toccati alcuni anche al nostro centro storico. E poiché penso che tutti,
questa Giunta compresa, siamo accomunati dalla volontà di proteggere e
conservare il nostro patrimonio storico e la nostra identità, che poi
coincidono, vorrei proporre una riflessione su alcuni punti vitali per la
salute, la bellezza e la ricchezza della città.
Con
grande fiducia, s’intende, nella sensibilità di chi legge.
Quando si ama un luogo lo si ama per come è.
E intorno
ad alcuni princìpi fondamentali si raccolgono tutte le comunità e tra questi
princìpi ci sono quelli che regolano il modo di abitare i luoghi.
Questo
non significa che quei luoghi non possano mutare mai, però il cambiamento, come
il loro costituirsi, è una faccenda delicata.
Noi
abitiamo sempre gli stessi luoghi e cerchiamo le tracce di come abitavamo.
Un’immensa
forza simbolica hanno i luoghi e rappresentano anche la continuità delle
esistenze. Sono la vita stessa. I luoghi sono noi e noi siamo i luoghi. E dal
loro stato dipende il nostro benessere.
Ovvietà,
ma ricordarlo non fa male a chi, per sentirsi vivo e al passo, deve
rassomigliare a qualcuno o a qualcosa lontani.
Allora si
genera dolore perché chi “è” non corrisponde a chi vorrebbe essere.
Quante
volte abbiamo sentito: facciamolo anche noi perché a Barcellona fanno così e
cosà, a Valencia, a Marsiglia, a Nizza. Un lungo elenco inverosimile. Come se
noi non avessimo un passato, come se a noi non fosse necessaria la continuità
con il come eravamo e, peggio, come se avessimo come unico futuro possibile
l’imitazione, lo scimmiottamento di modelli non nostri.
Una
malattia incurabile che ha conseguenze terribili.
Il colle di Castello a Cagliari
rappresenta la città e in un certo senso tutta la storia dell’isola senza che
per questo valga sentimentalmente più degli altri luoghi. D’altronde ognuno di
noi ne possiede uno che segna la sua esistenza e la lega a quella di chi l’ha
preceduto e di chi lo seguirà.
Il colle,
si sa, ha due versanti, uno a oriente e uno a occidente.
Un
progetto illegittimo di parcheggio interrato ne storpierebbe il lato a
tramonto, però su questo c’è una discussione in corso.
Ma un
altro progetto illegittimo come il primo ne ha modificato il lato che guarda
all’alba. Oh, non si trascura nulla in questa città. Così sono apparsi sotto le
mura orrendi campetti verdi di plastica e azzurri, pali altissimi con
riflettori abbaglianti, una orribile costruzione che neppure finita ha iniziato
a funzionare come bar. Tutto sicuramente illegittimo, visto che il Piano
paesaggistico lo vieta con nettezza.
Continua
a vincere l’urbanistica decisa dai barman. La filosofia della birretta che non
può reggere nessuna città orienta le decisioni degli uffici. E i quartieri
storici, vivi sino a qualche anno fa perché la gente, appunto, ci viveva, le
scuole si animavano, le botteghe lavoravano, sono in via di trasformazione in
un unico bar ristorante che si anima la notte.
I campetti sono una vetta di schifezza,
frutto di menti urbanisticamente suggestionate da un’idea morbosa di modernità.
Modernità scimmiotata, appunto. Lì, molto tempo fa, c’erano campetti, ma erano
aggraziati, possedevano il pregio della leggerezza e quasi “dell’invisibilità”.
E c’era perfino qualche albero. Poi diventò la squallida terrazza di un
parcheggio. E ora sono un’offesa per le retine oneste.
E così,
in pochi anni, i due lati del quartiere più simbolico della città potrebbero
ridursi a una poltiglia inguardabile.
Lo
squallore ordinato – anche le città sovietiche erano ordinate – spacciato come
bellezza. Un’ondata di anonimo e mediocre perbenismo urbanistico.
Insomma
c’è un disegno di città ridotta a tavolo di biliardo, mezza disabitata e mezza
abitata da creature che imitano i rendering, con le strade uguali alle strade
di tutto il mondo. Gli stessi lastroni di pietra uguali a Monaco e nelle vie
del centro storico a Cagliari dove, pure, sotto l’asfalto c’era molto selciato
da recuperare.
La
passeggiata al Poetto identica a quella di Rimini, senza alberi, senza ombre e
senza speranza. I chioschi bolscevichi. Un grande rendering vivente.
E i campetti sotto le mura sono coerenti con
l’orrore trasformativo
che si vede in giro.
Le
Sovrintendenze rilasciano i nulla osta oppure li negano. E’ una loro funzione
fondamentale. Possiedono e usano gli strumenti della tutela. Un compito che,
per sua stessa natura, dovrebbe partire dalla difesa dei luoghi sino ai
particolari, visto che i luoghi sono costituiti da un insieme e da una somma di
particolari.
Una
domanda alla Sovrintendenza: come si fa a mettere d’accordo il dozzinale
intervento sotto le mura con il nostro piano paesaggistico che vieta ogni forma
di intervento che non sia conservativo e proibisce ogni costruzione?
Ci si può
impippare di una norma e rilasciare autorizzazioni? Beh, evidentemente sì.
Almeno da queste parti.
Se una
norma vieta qualsiasi modifica di un complesso paesaggistico – in questo caso
del patrimonio irripetibile della rocca – allora è possibile solo la
manutenzione e, parola sconosciuta in città, il restauro. Dunque
quell’autorizzazione, se c’è, è illegittima. E dunque la “colpa” del Comune è
relativa.
Perfino i
bimbi definiscono un assurdo quei campetti. E alla domanda “ti piace?” un
bambino ha risposto con la semplicità intelligente dei suoi dieci anni: i
campetti si fanno da una parte e le cose antiche si lasciano in pace.
Elementare.
L’amnesia delle regole,
l’ignorare strumenti di civiltà come il Codice Urbani e il Piano paesaggistico
conducono inevitabilmente alla distruzione di ogni bene e trasformano la nostra
città in un luogo ordinario, uguale a mille altri luoghi. La perdita dei
connotati, la scomparsa di ogni caratteristica, la nostra scomparsa come
comunità, disciolti in una pappa uguale dappertutto.
La città,
nata sul palmo di un dio, si imbruttisce e si perde.
Ma
l’opera prosegue.
Le scalette di Santa Teresa costituivano un’unicità e imploravano
da anni di essere curate e restaurate. Ora, con la pioggia di milioni per i
lavori pubblici, avevamo immaginato proprio un’opera di restauro, di recupero
dei basoli, dell’acciottolato, la conservazione del passato e la continuità.
Chi mai toglierebbe la patina di antico da un mobile, da un quadro, da un
gioiello o da un angolo delle nostre città? Noi viaggiamo alla ricerca dell’antico
e ci commuoviamo di fronte a oggetti, opere, palazzi, edifici, manufatti
carichi di reminiscenze.
Ma a
Cagliari, dove le scalette – e chissà cosa ha risposto la Sovrintendenza alla
scheletrica relazione paesaggistica del Comune – sono state sbrigativamente
ritenute irrecuperabili mentre ci si camminava sino al giorno prima. A Cagliari
non si restaura, si cancella. E le scalette settecentesche – una delle poche
testimonianze dell’epoca dopo la distruzione recente di quelle di Villanova –
saranno sostituite dal solito granito e dagli stessi tozzetti, ma proprio gli
stessi, che si vedono in buona parte d’Europa. Tutto uguale a tutto.
Caro Sindaco, chiediamo in tanti e lo chiede anche Italia Nostra, di
fermare i lavori nelle scalette e di trasformarli in restauro, una parola che
stride alle orecchie delle nostre imprese. Chiediamo di rimuovere i campetti
sotto le mura e di trasformarli in qualcosa di rispettoso per le stesse mura e
per la rocca. Chiediamo un esempio di come si possa conservare e preservare,
proprio come si fa nelle città che noi andiamo a vedere ammirati.
Salvaguardare
è difficile, costa, il restauro è faticoso, richiede grandi conoscenze. E, come
nella chirurgia, il restauro e la cura più belli sono quelli che non si vedono.
Sulla
conservazione, oltretutto, si costruisce un’intera economia, si genera lavoro
di qualità e si vive meglio dentro un mondo autentico nel quale ci si
riconosce.
Chi
camminerebbe tra le strade di Siena se le avessero ripavimentate gli ingegneri
che si occupano di via Manno? Nessuno. Chi andrebbe a vedere le nostre rocche
medievali sparse in tutto il paese se fossero state affidate a coloro che
pavimentano le scalette di Santa Teresa? Nessuno.
Quella
iniziata sulle scalette è la distruzione di un bene monumentale e chiediamo a
chi ha la responsabilità di fermare questa devastazione, di riflettere sulla
gravità e le conseguenze di quello che è stato fatto, di tornare indietro e di
dare un esempio per il futuro della città che, grazie al lavoro di certi nostri
avi, ancora possiede un patrimonio da amare e proteggere.
Sarebbe
un segno importante e manterremmo la speranza di benessere restando noi stessi,
senza patire cercando di essere quello che non siamo. Qualcuno, un grand’uomo,
ha scritto che solo tornando all’antico si è moderni.
Cordiali
saluti e auguri di buon lavoro,
Giorgio Todde
(Italia Nostra)
in Italia il movimento dei Verdi è durato pochissimo. Il suo dirigente più famoso, Chicco Testa, è diventato un manager dell'Enel (e altro). Gli altri e le altre si sono persi per strada; mi sono chiesto perché, e la risposta è probabilmente questa, le nuove generazioni soffrono di un deficit culturale spaventoso verso il rapporto con l'ambiente in cui vivono. Pensano che prendendo un cane e andando a fare jogging si sia a posto, comperano bio, et voilà. E' un problema generazionale, io non ho mai fatto il contadino ma discendo da famiglie contadine, almeno questo mi salva (in parte) da questo tipo di ignoranza totale. Ricordo un programma tv dove si esaltava il mangiare i germogli, ed è certo un argomento interessante ma poi alla domanda su dove si prendono i germogli, o i semi da far germogliare, la risposta (con entusiasmo) era: in negozio!!!
RispondiEliminaDa allora io penso che i programmi di cucina dovrebbero scrivere le ricette così: Brasato al barolo. Prendere un vitello e macellarlo; coltivare una vigna... (continua pure tu: è una battuta che non piacerebbe a nessuno, eppure è così che va veramente, altro che negozio)
Mi dispiace molto che Zedda non faccia eccezione.
aggiungo una riga per farmi capire meglio: il problema esiste anche a livello urbanistico, per esempio tracciando le strade non ho mai ascoltato qualcuno preoccuparsi perché lì ci vive della gente. La strada si fa, e basta. (idem aeroporti, sottopassi, eccetera). Anche a Como hanno fatto lavori (autosilos, restyling, sul lago) che hanno stravolto l'identità della città. E' così ovunque, purtroppo.
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