(da Le Monde Diplomatique - Luglio 2001)
La massiccia diffusione del turismo di massa ha creato ormai una vera e propria industria, che offre soggiorni in luoghi esotici a condizioni di massimo comfort. La figura del turista da cartolina, che si sposta su percorsi ben definiti e mostra scarso o nullo interesse per le culture locali, si contrappone a quella del viaggiatore, che ama andare a zonzo e pratica ancora quella «gastronomia dell'occhio» che tanto affascinava Balzac. Un'opposizione inconciliabile, che può riproporsi all'interno di ogni singola persona: spesso, il viaggiatore che vorremmo essere si scontra con il turista che siamo.
Nel 1908 il filosofo tedesco Georg Simmel pubblicava un saggio intitolato «Excursus sullo straniero» (1). È uno dei primi teorici a preoccuparsi delle forme sociali plasmate dalla «grande città», quella città della modernità che Baudelaire ha così potentemente cantato nelle sue poesie.
La città delle ferrovie e dei flussi ininterrotti. La città dei cambiamenti di dimensione: demografica, economica, territoriale, informativa e così via. È in questo nuovo contesto sociale che Georg Simmel identifica una nuova figura: lo straniero. Di chi si tratta? Di un individuo che non è del posto ma vi si trova, e riunisce in sé «l'unità della distanze e della vicinanza». Così lo straniero rappresenta la mobilità, una mobilità che ci intriga (possiamo addirittura invidiarla) e ci lascia allo stesso tempo indifferenti. Non è uno dei nostri e nulla ci consente in realtà di conoscerlo per poi riconoscerlo. Si tratta, secondo Georg Simmel, di un «non rapporto». Questa figura dello straniero nella grande città è diversa da quella del viaggiatore di un tempo. È nuova, come nuovo è il rapporto che intessiamo con l'estraneità di questo nostro simile che non è del luogo ma che, con la sua sola presenza, rafforza la nostra specificità. La sua apparente vicinanza è, nello specchio che ci protende, assai lontana da noi. Ma questo straniero appartiene forse alla stessa famiglia del turista?
Mezzo secolo dopo le riflessioni di Georg Simmel, la rivista culturale tedesca Merkur pubblicava, nel 1958, un intervento radiofonico di un giovane filosofo, Hans Magnus Enzensberger, intitolato semplicemente Una teoria del turismo. Dopo aver indicato che i termini turista e turismo compaiono rispettivamente nel 1800 e nel 1811 nella maggior parte delle lingue europee, mutuati dall'inglese, Enzensberger constata che ancora non esiste una storia del turismo, né tantomeno una sua teoria generale. Da allora, il vuoto è stato colmato, tanto che ormai tutte le librerie hanno una sezione «viaggi e turismo»... Hans Magnus Enzensberger cita anche Gerhard Nebel: «Un paese che si apre al turismo, si chiude metafisicamente - finisce per offrire un paesaggio, ma non più la sua magica potenza».
Questa denuncia non è nuova. In definitiva, l'appello al turismo e la sua riprovazione sono due facce della stessa medaglia. «L'elemento di base che regola il viaggio è la "sight", la cosa da vedere - nota Hans Magnus Enzensberger - classificata, a seconda del suo valore, con una, due o tre stelle». Lo spostamento del turista mira a verificare l'esattezza delle informazioni fornite dalla guida e, se possibile, a darne una testimonianza fotografica. Andare «altrove» in modo da non vedere più questo nostro «qui» che ci è insopportabile o ci annoia.
I terrestri, in ogni epoca e in ogni luogo, hanno sempre viaggiato.
Non per questo erano tuttavia «turisti». Stranieri? Talvolta. Il passaggio dal «viaggiatore» al «turista» si misura attraverso la progressiva scomparsa dell'accoglienza (2), quell'ospitalità necessariamente gratuita e senza evidente reciprocità, almeno nell'immediato, e nella massiccia diffusione di strutture alberghiere sempre più separate dalla società su cui si vengono a innestare.
Tra questi viaggiatori non turisti troviamo il pellegrino, lo studente in cerca di iniziazione, l'artista, il mercante, il mercenario e il girovago, colui che va per strade e sentieri tracciando le linee erratiche del suo soggiorno terrestre. Quest'ultimo è a casa propria ovunque. Il suo domicilio non è fisso, né tantomeno conosciuto. Eppure, abita il mondo. Turisti non sono nemmeno l'esiliato, il migrante, il ricco ereditiere, il fuggitivo o il vacanziere. Il vacanziere si mette in vacanza. Diventa cioè disponibile a non far nulla. Il turista non è vacante, deve imperativamente fare il turista. Precisiamo, riprendendo Jean Chesneaux, che per abitare il tempo ci vuole una disponibilità elestica e, riprendendo Marc Augé, che il viaggio organizzato corrisponde al non luogo, cioè ad andare nello spazio altrui senza esservi presenti (3). Il turismo è la fase monetarizzata e commercializzata della storia dei viaggi. L'incontro casuale è in questo caso impossibile: non fa parte del programma. Il turista consuma non-stop. Consuma paesaggi, architettura, cultura decontestualizzata e deterritorializzata. Va in giro, ma i suoi spostamenti devono essere redditizi. Il minimo contrattempo è vissuto come un malfunzionamento della compagnia organizzatrice ed è allora che scatta la minaccia di un processo.
Il turista sembra a suo agio solo tra altri turisti. Circondato da turisti, non ha più paura e osa manifestare le proprie lamentele rispetto alla qualità del servizio o alle escursioni a pagamento.
Desidera ritrovare la stessa camera e lo stesso menù che ha a casa propria per evitare di trovarsi disorientato ed essere costretto ad acclimatarsi. Del resto, il ritmo del circuito impedisce soluzioni alternative. Ha allora bisogno di un ambiente quanto più possibile neutro e familiare. Il turismo sta al viaggio come il consenso sta alla politica: hanno scarsi punti in comune. Mentre, dall'altra parte, il confronto e la contraddizione dinamizzano una democrazia sonnolenta tanto quanto i ritardi e gli imprevisti arricchiscono il viaggio.
Il viaggiatore fa di tutto per stare «insieme» e «tra» la popolazione locale. Il turista, invece, è incapace di una simile unità. Il viaggiatore si diletta ancora a vagare senza meta, praticando quella «gastronomia dell'occhio» che tanto affascinava Balzac. Ma viviamo su tempi diversi, siamo combattuti tra desideri opposti, e il viaggiatore che vorremmo essere si scontra con il turista che siamo più spesso del previsto! Il primo fa le cose con calma, degusta la durata, il riposo, l'attesa, mentre il secondo si proibisce il frivolo, il fugace, la pausa. Teme l'avventura, ma è attratto dall'impresa spericolata, il che ha prodotto lo sviluppo senza precedenti del turismo estremo, le scalate dei più alti massicci montuosi, le spedizioni polari, le traversate di deserti. Insomma, tutto ciò che è eccessivo.
Quanto all'alibi culturale, non nasconde affatto la realtà: qualche secondo davanti alla Gioconda, al Louvre, ma ore intere per comprare una manciata di cartoline! Il turista globalizzato-e-felice visita i siti classificati dall'Unesco, che purtroppo si presta a questa operazione mercantile rubricando un assurdo patrimonio comune dell'umanità.
Dal punto di vista etimologico, il «patrimonio» non può in alcun modo riguardare tutta l'umanità, tanto che diverse lingue non posseggono né la parola né tantomeno l'idea. La rivendicazione patrimoniale, tanto ben analizzata da Françoise Choay (4), sottintende una certa concezione della Storia, un rapporto particolare con il passato, il presente e il futuro (5) che non tutte le società - e i popoli che le compongono - intendono allo stesso modo.
Una cultura internazionale dello sguardo Per non offendere nessuno stato, l'Unesco si vede obbligata a classificare opere ingegneristiche (ponti, dighe, viali, ecc), costruzioni (castelli, cattedrali, templi, siti archeologici, ecc.), paesaggi (con la vaghezza propria di una tale parola passe-partout), quartieri interi di città, mentre l'unico bene che bisognerebbe proteggere è l'Umanità intera che, in spregio dei suoi discendenti, non smette di recar danno alla Natura con le sue innovazioni tecniche e le sue azioni irresponsabili! Bisognerebbe forse per prima cosa patrimonizzare l'Unesco? Scherzi a parte, l'identità dei popoli e delle culture dipende prima di tutto dalla loro specificità. Cercare di trovare un patrimonio comune da un paese a un altro è una pericolosa illusione uniformizzante. La bellezza straziante di un particolare panorama non dipende solo dai colori del cielo, dalla leggera brezza inebriante, dalla persona amata che vi è accanto, ma anche dal vostro essere-al-mondo-e-agli-altri, dalla vostra capacità di abitare il mondo. E questo, purtroppo (e per fortuna!) né l'Unesco né il turismo organizzato possono garantirlo.
Il turismo di massa esiste, negarlo sarebbe un suicidio: 635 milioni di turisti nel mondo nel 1999 e più di un miliardo e mezzo previsti per il 2020. L'urbanistica e l'architettura subiscono l'inflessibile legge dell'economia turistica, nonostante i tentativi di promuovere vari tipi di «turismo sostenibile» o «turismo equo». Non che queste iniziative alternative (6) siano insensate o ingenerose, ma sono marginali e subordinate allo spirito generale del turismo di massa e delle regole imposte dalle grande multinazionali del settore. Per rompere con il turismo di massa non bisogna semplicemente moralizzarlo (rispettare le popolazioni locali, pagare il prezzo giusto, condannare il turismo sessuale, e così via), ma anche opporvisi e organizzare un viaggio nella sua giusta dimensione temporale e spaziale. Le ricadute sull'economia nazionale di questo turismo di massa vanno esaminate con cautela. Esso esige la costruzione di vasti aeroporti internazionali e di pesanti infrastrutture per la circolazione dei turisti (autostrade, treni, taxi, autobus e così via). Il circuito turistico richiede poi parcheggi per i pullman e larghe carreggiate per consegnare il suo pacco quotidiano di turisti con videocamera.
Quanto all'architettura, si incarica di costruire hotel-ghetto e musei conformi al gusto del tempo. L'edificio è spesso un simbolo, un'icona, un segno, e assume quindi forme e colori facilmente identificabili, come avviene nella maggior parte delle catene internazionali di alberghi e ristoranti. E non si può certo dire che ciò contribuisca ad esportare un'architettura di qualità in cui domina l'originalità legata alla bellezza. Per non parlare poi della dolce tirannia dell'aria condizionata, che anticipa la fine della stagione turistica. Andando a Bombay, o altrove, in otto ore d'aereo, è impossibile acclimatarsi, soprattutto se si rimane solo otto giorni. L'automobile con l'aria condizionata, l'albergo con l'aria condizionata, il museo con l'aria condizionata, i ristoranti con l'aria condizionata, i centri commerciali con l'aria condizionata, tutto è previsto per attenuare le differenze climatiche che ancora esistono tra il vostro paese di provenienza e il paese visitato. I pochi istanti senza aria condizionata sono allora vissuti come veri e propri momenti di audacia e sregolatezza che conducono sull'orlo del rischio! La televisione via satellite, l'e-mail, Internet modificano profondamente il rapporto vicino/lontano che Georg Simmel trovava così esemplare nello «straniero». Contribuiscono alla formazione di una cultura internazionale dello sguardo che si sovrappone alle culture locali, a volte mischiandosi con esse, più spesso provocando veri e propri traumi. I nostri cinque sensi non sono più in fase diretta con il mondo sensibile. Vogliamo muoverci solo nell'ambito del conosciuto, del déjà-vu - nella guida, studiata muniziosamente prima della partenza, nei depliant turistici all'hotel, nei racconti degli amici - in modo da ottenere conferma ad un esotismo tanto previsto e a così caro prezzo ottenuto.
Ma allora, che fare? Lasciare abbandonati a se stessi i vari campi turistici e le altre stazioni balneari in attesa di trovargli un'altra destinazione d'uso? Proibire il turismo di massa e tollerare solo il trekking per pochi eletti? Imporre una patente del turista equo, con tanto di polizia internazionale del turismo, punti in meno ad ogni infrazione del codice e - perché no? - lavori di utilità social-viaggiatrice in caso di grave colpa?
La guerra turistica è appena cominciata, sarà cruenta e letale, considerate le poste in gioco economiche, ma anche e soprattutto ecologiche e culturali. Le migrazioni generate dal turismo di massa non impediranno ai viaggiatori di viaggiare, seguendo il ritmo del loro passo, della loro curiosità, della loro fame di alterità e della loro sete di se stessi. «Esistere non vuol dire forse uscire continuamente da se stessi e ritornare?», si chiede Stanislas Breton in un saggio intitolato L'Autre et l'Ailleurs (L'altro e l'altrove) (7), che indica la prima dimensione del viaggio. La seconda può essere formulata così: l'altro è l'altrove. E allora non resta altro da dire: buon viaggio!
*Filosofo, professore all'Institut d'urbanisme di Parigi (Paris-XII Val-de-Marne) e editore della rivista Urbanisme.
note:
(1) Georg Simmel, «Excursus sullo straniero» in Sociologia (Ricerca sulle forme di associazione), ed. La Comunità, 1989.
(2) Thierry Paquot, «De l'accueillance. Essai pour une architecture et un urbanisme de l'hospitalité», Ethique, architecture, urbain, a cura di Chris Younès e Thierry Paquot, La Découverte, Parigi, 2000.
(3) Jean Chesneaux, L'Art du Voyage, Bayard, Parigi, 1999; Marc Augé, L'impossibile voyage. Le tourisme et ses images, Rivages, Parigi, 1997.
(4) Françoise Choay, L'Allégorie du patrimoine, Seuil, Parigi, 1992.
Henri-Pierre Jeudy «Japon: le patrimoine et la catastrophe», Urbanisme, n° 307, Parigi, luglio-agosto 1999.
(5) Si legga «Patrimoine et tourisme», Urbanisme, n° 295, Parigi, 1997.
(6) Si veda il dossier della rivista Caravane, n°7, dicembre 2000, 99 rue Louis-Bectard, 77360, Vaires-sur-Marne, www.echo.org
(7) Stanislas Breton, L'Autre et l'Ailleurs, Descartes & Cie, Parigi 1995. (Traduzione di S. L.)
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