venerdì 13 luglio 2018

La mia resistenza - Giovanni Gusai





Ieri ho condiviso una foto sul mio profilo Instagram, e ho aggiunto una didascalia tristemente profetica: “Vivere, altro che sopravvivere”. Perché poi tutti abbiamo saputo della lettera di Michele, trentenne suicida, che non voleva più “continuare a sopravvivere”.
La mia foto ritrae due rocce enormi, granito del mio Monte Ortobene: l’ho scattata mentre rientravo a Nùoro, a casa, a piedi. Ci ho messo un’ora a salire, quaranta minuti a scendere. Una giornata spettacolare.
All’inizio è stato faticoso, perché avevo finito da poco di fare colazione e perché Bobore, che era con me, ha cominciato a camminare a una velocità che non mi aspettavo. Non che non riuscissi a stargli dietro, ma non me l’aspettavo. Non ero pronto, ecco.
Il sentiero che abbiamo percorso è il numero 101. Se è parte di un elenco di sentieri non so di quale si tratti, di preciso. Neppure mi interessa. Mi piace pensare che Centouno sia un nome e non un numero.
In venticinque minuti abbiamo raggiunto un grande spiazzo in cui abbiamo abbandonato il sentiero per imboccarne un altro. Siamo saliti al Monte per verificare che fosse sgombro, che nessun albero caduto durante la bufera di qualche settimana fa ostruisse il passaggio. Dovevamo verificare che ci fosse acqua nelle fontane e abbastanza legna per accendere dei fuochi.
C’era l’acqua, fredda. E un sacco di legna. Decine di migliaia di tonalità di verde, un cielo che pareva respirarci sopra la testa, immacolato. Celeste come dev’essere e sgombro dalle nuvole. C’erano dei corvi, vicini a noi ma nascosti, che gracchiavano forte. E quelle rocce enormi che ho fotografato, certo. Fango, muschio, pozzanghere, freddo, foglie morte, ghiandaie, prati, rovi, cinciallegre, tracce di volpi, alberi caduti – nessuno ha ostruito nessun sentiero in maniera irreparabile. E aria, moltissima, pulita. Pochissimo vento, ma determinato. La libertà si muove a cavalcioni del vento, e se sai respirare ti riempie i polmoni.
Volevo scrivere un post già da ieri, per raccontare la bellezza della mia libertà, la fatica che mi rende felice. Da casa mia al cuore del bosco c’è un’ora a piedi, e il tragitto è mozzafiato.
Perché dovrei andarmene?
Già, perché la domanda retorica di questo posto bistrattato e umiliato che chiamiamo Sardegna è l’opposta: perché dovrei rimanere? E poi i corollari che rafforzano la tesi sottintesa: non c’è nulla, non c’è lavoro, non ci sono possibilità, non c’è speranza, non c’è niente da fare la sera.
Io rimango. Per non perdere la possibilità di salire a piedi al Monte e sentirmi ancora vivo, rimango per i nonni che non ho conosciuto e per la Storia che non mi hanno raccontato, rimango per i miei figli e perché sappiano che non ci sono posti giusti e posti sbagliati, ci sono solo le persone.
Io resto per provarci, perché vivere in mezzo al vuoto di opportunità coincide con il restare nella totalità delle possibilità, resto perché solo dove non c’è niente si può ancora costruire.
Io mi ostino a scegliere i sogni che voglio per me, per il tempo della mia libertà, per non darla vinta a chi ride dei miei studi, delle mie competenze, del mio percorso.
Questa è la mia resistenza, per la mia terra e per la mia generazione: perché nessuno abbia mai abbastanza potere da dirmi “questo è il lavoro che abbiamo scelto per te”, “questo è quello che abbiamo da offrirti”. È la mia resistenza per il mio diritto, acquisito da essere umano, sardo, nato libero, di inventarmi quello che voglio. È forse la resistenza degli illusi, di chi si accontenta, di chi si è arreso e non vuole provare a cambiare il mondo.
Ma io credo che solo chi cambia il pezzo di mondo attorno a sé cambi realmente qualcosa.
A Settembre compirò trent’anni. Ci arriverò, come accade da molti anni a questa parte, stanco.
Qualcuno ha avuto dal destino la possibilità di essere ricco. A me Dio ha donato la fortuna di essere felice. E se questo comporta stancarsi fino allo stremo e lottare, e resistere, io sono fiero della mia resistenza.
È una rivoluzione gentile, e debole, ma determinata. Come il vento ieri al Monte.
Miche’, per te conservo una preghiera. Temo che turberai le coscienze per poco tempo, e i giornali si dispiaceranno sempre meno, e parleranno di nuovo degli arbitraggi, delle canzoni e dei vestiti dei conduttori e di qualche scandalo che ne rimpiazzerà un altro, in tempo zero. Ogni tanto una defibrillatina con la morte di qualche disperato, giusto per stringere quel piccolo nodo alla gola che ci ricorda di essere umani.
Io, intanto, costruirò piccoli castelli con solide fondamenta, quaggiù, alle pendici del mio Monte, nella mia isola al centro del mare.

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